Dato il magico momento di notorietà degli psicolabili nel nostro Paese, suggerirei a Vespa una bella puntata politicamente corretta di “Porta a porta”: dopo quella sui trans, una sui dementi, o “diversamente intelligenti”. Lui e Minzolini non si accorgeranno della differenza, né credo si udirebbero parole tanto diverse. Ma cosa vuol dire diverso? Anni fa (ma sembra oggi) scrissi una proposta linguistica che voglio qui rinnovare.
Come da tempo non si dice disabile ma “diversamente abile”, e non si dice più “disonesto” ma “diversamente onesto” (come chi ci governa), le leggi insegnano che i bilanci (come i servizi del Tg1) non sono “falsi” ma “diversamente veri”, certi guadagni non sono “illeciti” ma “diversamente leciti”, e non si è “corrotti” ma “diversamente retribuiti”. Quanto agli interessi privati sull’etica pubblica, prima di tutto non si dice “affari” ma “diversamente politica”, e la parola “privato” va sostituita con “diversamente pubblico” (vedi le scuole). Del resto non si dice “pubblico”, parola triviale, ma “diversamente privato”. Mi scuso, essendo stato tra i primi ad usarla, della parola “regime”: il nostro governo è “diversamente democratico”, come quello della Bielorussia; ha fatto una “diversamente pace” in Iraq e altrove, e il suo operato è “diversamente equo” e “diversamente liberale”. Non è e non è mai stato “di destra”, ma “diversamente di sinistra”, prova ne sia che la “sinistra” è una “diversamente destra” (con ciò non si intende che non siano diverse, ma “diversamente uguali”). Quanto a “l’Unità” (o “diversamente isolata”), invece che “d’opposizione” farà meglio a dirsi, per evitare guai, “diversamente a disposizione”. La realtà non è disgustosa, solo diversamente gustosa. E per noi disoccupati (“diversamente occupati”), noi desaparecidos, un augurio di diversamente buon anno, per “diversamente apparire”.
(su l'Unità di oggi, domenica 27 dicembre 2009)
12/24/2009
"Oggetti smarriti" su Alias (recensione di Alessandra Sarchi)
Volentieri pubblico qui la recensione di Alessandra Sarchi (autrice che molto stimo), apparsa oggi su Alias (il manifesto). Titolo: "Il Novecento degli oggetti perduti" (Ah, buon natale e voi e a me).
Oggetti smarriti e altre apparizioni di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano (2009, 9,50 euro), parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nello spazio di un breve incontro, nell’approssimazione di situazioni di precarietà - la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni - di tracce lasciate più o meno consapevolmente che l’autore interroga come indizi, come gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma e poi è stata in qualche modo abbandonata, per proseguire altrove, o tramutarsi in altro. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose,’ raccontato con presenza critica ed emotiva, alternando scene schiettamente narrative a brani di vero e proprio réportage letterario, in un equilibrio sottile tra autoriflessività della scrittura e neutralità descrittiva. Colpiscono i dati: l’impressionante numero di carte di identità perse - che l’autore legge come desiderio di fuga e cambiamento della popolazione, il ritmo dei verbali di consegna all’ufficio oggetti smarriti di Milano, più di 1500 al mese, una cinquantina al giorno. La lettura di questi verbali e la visione degli oggetti traccia una mappa sociologica della popolazione, dei suoi costumi, della composizione demografica. Ma lo sguardo dell’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde, o lascia traccia. Fantasma è ciò che ci manca, ciò che abbiamo intravisto e subito perso, proiezione di un’interiorità che si nutre di assenza più che di presenza.
Il filo rosso che lega momenti e contesti molto diversi fra di loro è costituito dalla predilezione per ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce, come linea in continuo movimento. L’attenzione letteraria e umana di Sebaste rivela di aver profondamente assimilato la lezione di Derrida - Nulla di meno marginale della questione dei margini - e di Godard - É il margine che fa la pagina - . Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia - anche se la nostalgia come essere altrove è sempre presente - ma è soprattutto stupore, interrogazione e riflessione sulla dialettica tra significanza e insignificanza dei gesti e delle cose, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Per Sebaste è il frammento che può dare l’idea del tutto, un tutto che è inafferrabile per definizione. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, in cui si sente l’eco dei moralisti francesi del Sei-Settecento (ma anche di Leopardi), solo che alla rovina, al resto delle civiltà passate come scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito, il frammento di quel vaso rotto che come metafora di una precisa poetica era già stato indicato dall’autore nel suo romanzo Tolbiac. Tuttavia l’inseguimento di luoghi e oggetti apparentemente banali non si risolve mai in intimismo, piuttosto attinge a una dimensione che si potrebbe definire di resistenza culturale, di memoria come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso il canale della rimozione, della dimenticanza, dell’occultamento. Questo lavoro di ricognizione tra le macerie e gli interstizi dello spreco e del presente attuale che non conosce passato né futuro, è prima di tutto un lavoro linguistico: l’autore ci ricorda come l’ufficio degli oggetti smarriti, abbia in Francia il suo corrispettivo in un luogo che, all’opposto, si chiama Bureau des objets trouvés, al quale se fosse possibile l’autore preferirebbe addirittura il vecchio fermoposta che consentiva di ritirare in qualsiasi città la propria corrispondenza; in francese si dice poste en souffrance, ed è la sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano una destinazione, delle persone e dei luoghi che vengono cancellati. E ancora: la visita a una fabbrica che produce palloncini gonfiabili - oggetto per definizione effimero e per questo molto in consonanza con gli intenti di certa arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons - dipana una riflessione non solo sull’uso propagandistico di questi oggetti - nelle campagne elettorali ad esempio - ma anche sul paradosso insito nell’affidare a poco più che fiato le proprie sorti, sapendo che ciò che si gonfia e si gonfia è prima o poi destinato a scoppiare, lo dice la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.
Se gli oggetti e i luoghi si lasciano percorrere nei loro multi-strati linguisitici e funzionali, perché sempre provvisoria è la loro aggregazione, anche le persone tendono a dissolversi o meglio a vivere in osmosi con l’ambiente che le circonda, come nelle fotografie di Francesca Woodman che Sebaste mette in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica della sparizione, dell’essere altro, del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di essere gesto umano e artistico, anziché idiozia politica, avrebbe forse impresso una svolta diversa alla storia del nostro paese. Il libro si conclude con il catalogo degli oggetti del volo IH 870 Bologna-Palermo abbattuto su Ustica, i cui resti sono stati allestiti in un progetto di grande impatto dall’artista Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di oggetti, di passeggeri, il bagaglio, gli effetti personali riportati alla loro radice etimologica e universale - poiché ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota - le parole hanno il pudore di fermarsi, di lasciare parlare il silenzio. E a chi si domanda per quale ragione esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.
(Alessandra Sarchi, da Alias (il manifesto) del 24 dicembre 2009)
Post scriptum: http://www.radiocittafutura.it/ViewMedia.aspx?mediaID=4cbed0e4f5174c1fbf3d5cf9df3bcd4e&s=0
Oggetti smarriti e altre apparizioni di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano (2009, 9,50 euro), parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nello spazio di un breve incontro, nell’approssimazione di situazioni di precarietà - la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni - di tracce lasciate più o meno consapevolmente che l’autore interroga come indizi, come gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma e poi è stata in qualche modo abbandonata, per proseguire altrove, o tramutarsi in altro. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose,’ raccontato con presenza critica ed emotiva, alternando scene schiettamente narrative a brani di vero e proprio réportage letterario, in un equilibrio sottile tra autoriflessività della scrittura e neutralità descrittiva. Colpiscono i dati: l’impressionante numero di carte di identità perse - che l’autore legge come desiderio di fuga e cambiamento della popolazione, il ritmo dei verbali di consegna all’ufficio oggetti smarriti di Milano, più di 1500 al mese, una cinquantina al giorno. La lettura di questi verbali e la visione degli oggetti traccia una mappa sociologica della popolazione, dei suoi costumi, della composizione demografica. Ma lo sguardo dell’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde, o lascia traccia. Fantasma è ciò che ci manca, ciò che abbiamo intravisto e subito perso, proiezione di un’interiorità che si nutre di assenza più che di presenza.
Il filo rosso che lega momenti e contesti molto diversi fra di loro è costituito dalla predilezione per ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce, come linea in continuo movimento. L’attenzione letteraria e umana di Sebaste rivela di aver profondamente assimilato la lezione di Derrida - Nulla di meno marginale della questione dei margini - e di Godard - É il margine che fa la pagina - . Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia - anche se la nostalgia come essere altrove è sempre presente - ma è soprattutto stupore, interrogazione e riflessione sulla dialettica tra significanza e insignificanza dei gesti e delle cose, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Per Sebaste è il frammento che può dare l’idea del tutto, un tutto che è inafferrabile per definizione. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, in cui si sente l’eco dei moralisti francesi del Sei-Settecento (ma anche di Leopardi), solo che alla rovina, al resto delle civiltà passate come scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito, il frammento di quel vaso rotto che come metafora di una precisa poetica era già stato indicato dall’autore nel suo romanzo Tolbiac. Tuttavia l’inseguimento di luoghi e oggetti apparentemente banali non si risolve mai in intimismo, piuttosto attinge a una dimensione che si potrebbe definire di resistenza culturale, di memoria come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso il canale della rimozione, della dimenticanza, dell’occultamento. Questo lavoro di ricognizione tra le macerie e gli interstizi dello spreco e del presente attuale che non conosce passato né futuro, è prima di tutto un lavoro linguistico: l’autore ci ricorda come l’ufficio degli oggetti smarriti, abbia in Francia il suo corrispettivo in un luogo che, all’opposto, si chiama Bureau des objets trouvés, al quale se fosse possibile l’autore preferirebbe addirittura il vecchio fermoposta che consentiva di ritirare in qualsiasi città la propria corrispondenza; in francese si dice poste en souffrance, ed è la sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano una destinazione, delle persone e dei luoghi che vengono cancellati. E ancora: la visita a una fabbrica che produce palloncini gonfiabili - oggetto per definizione effimero e per questo molto in consonanza con gli intenti di certa arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons - dipana una riflessione non solo sull’uso propagandistico di questi oggetti - nelle campagne elettorali ad esempio - ma anche sul paradosso insito nell’affidare a poco più che fiato le proprie sorti, sapendo che ciò che si gonfia e si gonfia è prima o poi destinato a scoppiare, lo dice la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.
Se gli oggetti e i luoghi si lasciano percorrere nei loro multi-strati linguisitici e funzionali, perché sempre provvisoria è la loro aggregazione, anche le persone tendono a dissolversi o meglio a vivere in osmosi con l’ambiente che le circonda, come nelle fotografie di Francesca Woodman che Sebaste mette in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica della sparizione, dell’essere altro, del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di essere gesto umano e artistico, anziché idiozia politica, avrebbe forse impresso una svolta diversa alla storia del nostro paese. Il libro si conclude con il catalogo degli oggetti del volo IH 870 Bologna-Palermo abbattuto su Ustica, i cui resti sono stati allestiti in un progetto di grande impatto dall’artista Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di oggetti, di passeggeri, il bagaglio, gli effetti personali riportati alla loro radice etimologica e universale - poiché ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota - le parole hanno il pudore di fermarsi, di lasciare parlare il silenzio. E a chi si domanda per quale ragione esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.
(Alessandra Sarchi, da Alias (il manifesto) del 24 dicembre 2009)
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12/21/2009
Billy the Kid (la ballata di)
Billy the Kid (La ballata di)
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna, era seria e triste, “seria e triste”,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era abbastanza una bella donna era libera
di camminare e incontrava amici d'infanzia
Billy the Kid non aveva l’infanzia o non si ricordava
di averla incontrava dovunque amici d’infanzia
che si arrendevano
Billy the Kid raramente si arrendeva e quando
lo faceva dopo si voltava per sparargli
Billy the Kid era libera e camminava era una donna bella
come la stagione dell’infanzia era seria e triste e sorrideva
Billy the Kid cercava dovunque amici d’infanzia e sorrideva
Billy the Kid era una puttana era bella e triste
non era mai dove credevi che fosse
non era mai dove credeva che fosse
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna era seria e triste
Billy the Kid la uccise Pat Garrett un amico d’infanzia
perché Pat Garrett conosceva l'infanzia
e Billy the Kid la conosceva da sempre
che cercava dovunque degli amici d’infanzia e sorrideva
incontrò Billy the Kid che gli camminava incontro, seria e triste,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era una donna camminava libera
non era mai dove credeva che fosse
Pat Garrett uccise Billy The Kid un mattino d'infanzia
provarono entrambi una grande tenerezza
provarono entrambi una grande tenerezza
(1993/94)
[mi sono divertito molto ieri sera al reading non stop organizzato da Critical Book & Wine ed ESCargot all'ESC di via dei Volsci. questa che offro alla lettura è l'ultima poesia che ho letto ieri sera quando era il mio turno, ma è una mia vecchia poesia e mi è piuttosto cara]
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna, era seria e triste, “seria e triste”,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era abbastanza una bella donna era libera
di camminare e incontrava amici d'infanzia
Billy the Kid non aveva l’infanzia o non si ricordava
di averla incontrava dovunque amici d’infanzia
che si arrendevano
Billy the Kid raramente si arrendeva e quando
lo faceva dopo si voltava per sparargli
Billy the Kid era libera e camminava era una donna bella
come la stagione dell’infanzia era seria e triste e sorrideva
Billy the Kid cercava dovunque amici d’infanzia e sorrideva
Billy the Kid era una puttana era bella e triste
non era mai dove credevi che fosse
non era mai dove credeva che fosse
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna era seria e triste
Billy the Kid la uccise Pat Garrett un amico d’infanzia
perché Pat Garrett conosceva l'infanzia
e Billy the Kid la conosceva da sempre
che cercava dovunque degli amici d’infanzia e sorrideva
incontrò Billy the Kid che gli camminava incontro, seria e triste,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era una donna camminava libera
non era mai dove credeva che fosse
Pat Garrett uccise Billy The Kid un mattino d'infanzia
provarono entrambi una grande tenerezza
provarono entrambi una grande tenerezza
(1993/94)
[mi sono divertito molto ieri sera al reading non stop organizzato da Critical Book & Wine ed ESCargot all'ESC di via dei Volsci. questa che offro alla lettura è l'ultima poesia che ho letto ieri sera quando era il mio turno, ma è una mia vecchia poesia e mi è piuttosto cara]
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12/20/2009
Riepilogo sul volto di B. (e sulla tv che non viene mai spenta) (rubrica "acchiappafantasmi)"
Qualche tempo dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, Umberto Eco osservò come l’intero sistema dell’informazione planetaria si fosse irretito nella constatazione stupita che “le Torri sono cadute”. Qualcosa del genere, in miniatura (ma anche la “miniatura” qui fa parte dell’evento), ha seguito per qualche giorno l’aggressione subita dal nostro primo ministro da un malato (già artista astratto). Un incanto autocensorio ha paralizzato il giudizio, per tema di un’equivalenza tra parole e violenza. Nella generale afasia, solo certi siti Internet (per es. nazioneindiana.com), agli antipodi di quanto sentenziano i detrattori di governo, hanno continuato a esercitare una funzione intellettuale, cioè critica; a riprova che la libertà di pensiero alimenta il pensiero.
Tra i punti discussi, il fatto che l’ostensione di se come “sìndone” vivente da parte del primo ministro (che a quanto pare affida il proprio corpo non allo Stato, come dovrebbe, ma a una scorta privata), trasformasse in pochi attimi il suo volto sanguinante e “nudo” (l’emozione e l’empatia di vedere l’umanità del “re nudo” per la prima volta: un volto che s’offre, che soffre) in un volto ancora una volta “vestito” e in posa, tramutando per metonimia il rosso sangue in un cerone; cioè una nuova maschera che anche ferita si mostrava ostinatamente al suo popolo. Comunque sia, quei primi piani drammatici e inattesi, proprio come le Twin Towers, sono un evento estetico, improbabile come un’installazione di Maurizio Cattelan, benché più simili a un Francis Bacon serializzato da Andy Warhol. Ed ecco che, mentre scrivo questa nota, mi accorgo con pena quanto sia preso anch’io dall’irretimento che volevo denunciare, paralizzato nell’amara constatazione che da ormai 15 anni guardiamo tutti lo stesso film, gli stessi eventi; solo che una metà degli Italiani vi attribuisce un senso opposto a quello che gli diamo noi. E non c’è verso di spegnere la tv.
(rubrica "acchiappafantasmi", da l'Unità di domenica 20 dic. 2009)
Tra i punti discussi, il fatto che l’ostensione di se come “sìndone” vivente da parte del primo ministro (che a quanto pare affida il proprio corpo non allo Stato, come dovrebbe, ma a una scorta privata), trasformasse in pochi attimi il suo volto sanguinante e “nudo” (l’emozione e l’empatia di vedere l’umanità del “re nudo” per la prima volta: un volto che s’offre, che soffre) in un volto ancora una volta “vestito” e in posa, tramutando per metonimia il rosso sangue in un cerone; cioè una nuova maschera che anche ferita si mostrava ostinatamente al suo popolo. Comunque sia, quei primi piani drammatici e inattesi, proprio come le Twin Towers, sono un evento estetico, improbabile come un’installazione di Maurizio Cattelan, benché più simili a un Francis Bacon serializzato da Andy Warhol. Ed ecco che, mentre scrivo questa nota, mi accorgo con pena quanto sia preso anch’io dall’irretimento che volevo denunciare, paralizzato nell’amara constatazione che da ormai 15 anni guardiamo tutti lo stesso film, gli stessi eventi; solo che una metà degli Italiani vi attribuisce un senso opposto a quello che gli diamo noi. E non c’è verso di spegnere la tv.
(rubrica "acchiappafantasmi", da l'Unità di domenica 20 dic. 2009)
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12/16/2009
invito a roma - vino & poesia (critical wine, critical book & poetry)
poesiatotale!
a cura di Nanni Balestrini, Sara Davidovics, Tommaso Ottonieri
ESC via dei Volsci 20 dicembre 2009
una produzione Critical Book & Wine ed ESCargot
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12/14/2009
Christian Boltanski e la scommessa col diavolo
Se oggi quando si parla di arte spesso si parla di memoria, testimonianza, archivio, documentalità, e a volte ci si confonde tra un deposito di “oggetti smarriti” (o ritrovati) e un’installazione, tra un’opera e la vetrina di un Banco dei Pegni, credo che molto sia dovuto al lavoro ininterrotto ed esemplare di Christian Boltanski, che come i grandi artisti e i grandi scrittori ci ha dato occhi per vedere il mondo in modo diverso. E ci si chiede quindi: dove comincia un archivio? E dove finisce?
Iniziò giovanissimo esponendo bacheche di oggetti personali e fotografie, inscatolando frammenti della propria vita, anche l’infanzia, a testimoniare il lutto di ciò che non è più (“abbiamo tutti un bambino morto dentro di noi, è la prima cosa che muore”, mi ha detto una volta). Ha esposto per anni nei musei di tutto il mondo foto ingrandite e sgranate di morti, rigorosamente primi piani, anticipando le struggenti carrellate di volti dei desaparecidos di Plaza de Majo e delle Torri Gemelle dopo l’11 settembre: scoprendo una qualità elegiaca allo stato latente nelle fotografie più comuni, volti qualunque, volti del nostro prossimo, il cui ingrandimento, evacuando il contesto, li rende assoluti. Ha ostentato “sìndoni” (volti fantasmatici proiettati o impressi su lenzuola o su lastre), assemblato abiti e oggetti, ammassato elenchi telefonici di tutto il mondo, grandi biblioteche coi nomi di tutti quelli che sono collegati sulla Terra contemporaneamente (ancora un’idea di “fratelli umani”). Per non citare che alcune delle sue mostre. Ho collaborato con lui all’installazione permanente (cosa nuova per lui) del Museo per la Memoria di Ustica, a Bologna, col relitto dell’aereo colpito da un missile nel 1980, e abbiamo fatto insieme un libro, “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri dell’aereo IH 870”. Ora Boltanski sta preparando per il Giappone una grande installazione che prevede la registrazione di una moltitudine di battiti di diversi cuori, e si appresta a inaugurare, il prossimo gennaio, un’altra grande mostra al Grand-Palais di Parigi. Ma la sua ultima opera – l’opera “di una vita” - del tutto coerente coll’insieme del suo lavoro e al tempo stesso “ultimativa” - è riassunta in un contratto “di cessione” “en l’état futur d’achèvement”, cioè prima del suo compimento.
Boltanski lo ha stipulato col singolare proprietario e curatore del MONA (Museum of modern and old art) costruito a Hobart (Tasmania, Australia). Ovvero David Walsh, collezionista, amatore d’arte e professionista del gioco. E’ un uomo sui quarant’anni lievemente autistico (la sindrome di Rain Man), e la sua ingente ricchezza proviene da scommesse e da giochi d’azzardo. L’opera consiste nel fare filmare il proprio atelier in permanenza, ovvero 24 ore su 24, da due o più telecamere, che il collezionista può contemplare a distanza. Non c’è un obbligo di presenza da parte dell’artista, né un calendario prefissato. Ma si tratta appunto del suo luogo di lavoro. I materiali registrati, ovvero i film, saranno conservati in un annesso del Museo creato appositamente, una caverna scavata nella roccia. Verranno proiettati secondo modalità e scansioni scrupolosamente stabilite dall’artista, quindi incisi su DVD e tenuti in un apposito armadio fatto nelle pareti della caverna.
Naturalmente è Boltanski ad avere concepito l’idea. Invece di cedere alla richiesta di un’opera, Boltanski propose al milionario David Walsh l’acquisto di una “messa in scatola” della propria vita d’artista, e la conservazione delle sue tracce, come testimonianza, in una “tomba” molto distante dal luogo in cui vive. (In Tasmania ci sono pochissimi abitanti, e la regione del Museo è difficilmente accessibile, oltre che priva di centri d’arte). Boltanski ha ottenuto di convertire la somma pattuita per la “Cessione nello Stato Futuro di Compimento” dell’Opera in un vitalizio annuale, poi ripartito in mensilità. La registrazione - l’Opera - inizierà il 1° gennaio del 2010. Fino a quando? Il preambolo lessicale del contratto, tra le tante voci, definisce la “Data di Compimento” dell’Opera, o realizzazione finale, “il giorno della morte dell’artista”. Ma quando, appunto?
La passione per le scommesse del collezionista (“non ho mai perso”, ha detto più volte all’artista) non poteva astenersi in questa occasione. Per questo, come mi ha allegramente confidato, Boltanski ha la sensazione di avere fatto una scommessa col diavolo, come il Parnassus dell’ultimo film di Terry Gillian. (Dio invece, mi ha detto tante volte Boltanski, per lui coincide invece con il “caso”). Dunque l’addizione delle mensilità del vitalizio indurrebbe il collezionista ad auspicare la morte dell’artista tra otto, massimo dieci anni, oltre il cui limite lieviterebbe la somma inizialmente pattuita (che qui non rivelerò). Naturalmente, l’artista scommette di vivere più a lungo. A confortarlo, giustamente, la considerazione che in fondo quasi in nessun caso il collezionista perderebbe (ogni anno di vita dell’artista accresce il suo archivio di “vita d’artista”, accumulando materiali).
I giornali del mondo che finora hanno parlato di questa singolare opera hanno solo accentuato l’aspetto sensazionalistico, da “Grande Fratello”, senza rendersi conto che il contratto d’opera ricalca ciò che Boltanski come artista ha fatto fin dagli inizi nelle sue “vetrine”: mostrare la (propria) vita, con quell’elemento di artificio e di finzione che l’arte comporta sempre; mostrarne i documenti, quello che resta, gli attestati di quanto è accaduto, mischiando magari lettere d’amore con altre burocratiche e di lavoro. L’autobiografia, per Boltanski, è universale. Mi ha detto: “Quando ne leggiamo, o anche quando si legge Proust, la vita di chi scrive diventa la vita di chi legge. Il sé diventa gli altri, che vi si riconoscono coi propri ricordi. E’ la funzione dell’arte. Ogni foto di bambino può far dire: ‘sì, mi ricordo di quando ero alla spiaggia’, oppure: ‘mi ricorda mia nipote’… L’artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri, non ha più esistenza propria, ma solo lo sguardo altrui. Non si può creare che scomparendo. Non si può ritoccare il proprio quadro. Se c’è Dio, Egli è scomparso nella creazione. E se Dio è assente, tocca agli uomini di fare…”
Quanto alla morte, essa è evidentemente da sempre presente nel suo lavoro. Del resto testimoniare (qualità del superstite, insegna l’etimologia) significa essere consapevoli del carattere testamentario di ogni iscrizione (e di ogni testo), esibire la nostra mortalità. Significa anche, al limite, incarnare l’aporia o il paradosso de Lo strano caso del Signor Valdemar di Edgar Allan Poe, colui che dice “io sono morto”. Penso allora che Boltanski abbia riversato nel fare arte quello che solo un filosofo-scrittore come Jacques Derrida ha propugnato con coerenza nei libri e insegnamenti di tutta una vita (e oltre): l’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire. Testimoniare è trasmettere, cioè sopravvivere. Al limite, diventare fantasmi.
(uscito su La Stampa, 13 dicembre 2009)
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12/13/2009
Quel volto di sangue vero
Io ho paura. Di quel volto imbrattato di sangue, di quello sguardo. Quelle foto sono già un'icona contemporanea, un evento - che lo vogliamo o no - estetico, cioè politico. Nel flusso delle pose, delle immagini patinate e intinte di cerone, quel volto umano e per questo inaudito del capo, intriso di sofferenza e di odio, mi turba come - per esempio - un'opera-installazione di Maurizio Cattelan. E' sangue vero - anche questo mi stupisce. Rosso. Comune e mortale. Volto, per una volta, nudo. Volto che, per una volta, soffre (s'offre). Utopia di una comprensione, una conversione, che non avverrà mai. Anzi.
Ho paura della violenza, di ogni violenza. Mi sento colpito, irradiato da un'energia negativa emanata da quel volto, nonostante ogni compassione. Se è l'era di un nuovo realismo, ho paura della brutalità della cosiddetta realtà. Mi fa anche già paura il fatto che sento di non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e di associazioni di idee, anche solo intellettuali, anche puramente estetiche (se esistono), che quella sequenza di immagini mute mi suscita. Ho paura della mia autocensura, presentimento di una pesante censura. Paura dell'immensa violenza di rimbalzo. Paura di vedere, in quella bocca piena di sangue, l'immagine simmetrica della bocca che ride per mostrare i denti. Paura di scorgere, nel ghigno dell'umana sofferenza, un soffio algido di vendetta.
P.S. Leggo che l'aggressore, un ingegnere di 42 anni di nome Massimo T., in cura per problemi psichici da une decina d'anni, quando i poliziotti lo hanno trascinato via dalla piazza dopo l'aggressione ripetesse: "Non sono io. Io non sono nessuno". Soprattutto mi colpisce apprendere che 15 anni fa fosse comparso sui giornali accanto a fotografie di una sua invenzione, i "quadri musicali". "Coniugando la passione per l'elettronica con il gusto per l'arte astratta, Massimo T. realizzò dei piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica. L'invenzione finì presto in un cassetto e dei "Quadri musicali" non si sentì più parlare". Che l'aggressore abbia flirtato con l'arte astratta - quella che il ministro Bondi, come ha ripetuto spesso, non capisce e disprezza - sarà senz'altro considerato una più che simbolica aggravante...
Ho paura della violenza, di ogni violenza. Mi sento colpito, irradiato da un'energia negativa emanata da quel volto, nonostante ogni compassione. Se è l'era di un nuovo realismo, ho paura della brutalità della cosiddetta realtà. Mi fa anche già paura il fatto che sento di non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e di associazioni di idee, anche solo intellettuali, anche puramente estetiche (se esistono), che quella sequenza di immagini mute mi suscita. Ho paura della mia autocensura, presentimento di una pesante censura. Paura dell'immensa violenza di rimbalzo. Paura di vedere, in quella bocca piena di sangue, l'immagine simmetrica della bocca che ride per mostrare i denti. Paura di scorgere, nel ghigno dell'umana sofferenza, un soffio algido di vendetta.
P.S. Leggo che l'aggressore, un ingegnere di 42 anni di nome Massimo T., in cura per problemi psichici da une decina d'anni, quando i poliziotti lo hanno trascinato via dalla piazza dopo l'aggressione ripetesse: "Non sono io. Io non sono nessuno". Soprattutto mi colpisce apprendere che 15 anni fa fosse comparso sui giornali accanto a fotografie di una sua invenzione, i "quadri musicali". "Coniugando la passione per l'elettronica con il gusto per l'arte astratta, Massimo T. realizzò dei piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica. L'invenzione finì presto in un cassetto e dei "Quadri musicali" non si sentì più parlare". Che l'aggressore abbia flirtato con l'arte astratta - quella che il ministro Bondi, come ha ripetuto spesso, non capisce e disprezza - sarà senz'altro considerato una più che simbolica aggravante...
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Mantenere la parola
In treno i pensieri scorrono nel dormiveglia attutito dal raffreddore. Dai giornali rimbalzano frasi che compongono un puzzle sconnesso del mondo, dove nulla è al suo posto. Il primo ministro urla che la nostra Costituzione (giovanissima, e adottata anche dal Portogallo, perché la Costituzione italiana, dissero, è la più bella del mondo) “è vecchia e da cambiare”. A Parma, al congresso dell’Api di Rutelli, l’amministratore delegato del gruppo Prada invoca l‘impeachement contro Berlusconi (lui, non il Pd; ma si sa, “con Api si vola”). Leggo di scontri tra polizia e studenti, colpevoli di manifestare a difesa della scuola e della ricerca. Ieri l’altro, aspettando l’autobus, vidi sgomento davanti al Ministero della Pubblica Istruzione poliziotti in tenuta antisommossa: non a difesa degli studenti, ma contro di loro. Leggo su l’Unità il dossier su Piazza Fontana: avevo 10 anni nella Milano plumbea e deserta quel dicembre 1969, ero lì per caso con i miei genitori, più tardi feci un tema a scuola, sconvolto. Poi penso al celebre scritto di Pier Paolo Pasolini, quasi un poema, uscito sul Corriere della Sera nel novembre 1974 (sarebbe pubblicabile, oggi?): “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (...). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 (...) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero...” Io sono uno scrittore. Come mantenere la parola?
(uscito oggi, domenica 13 dicembre (santa Lucia), rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
(P.S. su La Stampa sempre di oggi, mio articolo su Christian Boltanski e la sua "scommessa col diavolo" - lo posterò, qui o sul sito...)
(uscito oggi, domenica 13 dicembre (santa Lucia), rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
(P.S. su La Stampa sempre di oggi, mio articolo su Christian Boltanski e la sua "scommessa col diavolo" - lo posterò, qui o sul sito...)
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12/06/2009
La politica e la felicità (frammento di un romanzo che non scriverò)
Frammento di un romanzo che non scriverò, titolo “L’amore al tempo di Berlusconi”, tema: che rapporto c’è tra la propria felicità e il tipo di governo?
... Il governo Berlusconi, il peggiore in Europa dal 1945, permise a noi italiani di mantenere un alibi comodo come una felpa, l’ipocrisia di una speranza a cui potevamo facilmente rinviare. Quando finì, e “i nostri” presero il timone, ci sentimmo come i tedeschi dopo il crollo del muro di Berlino: non c’era più un’altra possibilità, un’alterità. Orfani di un’immaginazione e di una potenza, il mondo tornò piatto. Durante il governo Berlusconi si era creata un’ampia e nebulosa fratellanza: la violazione palese delle regole della democrazia ci indignava senza metterci in discussione, e creò convergenze morali tra persone economicamente, oggettivamente divergenti, come il locatario e il locatore, il datore di lavoro e il salariato, senza intaccare il costo dell’affitto o le ore di lavoro. Manifestavamo insieme in una baldoria contenuta, non la Resistenza, ma l’ossimoro della festa al capezzale del defunto che non muore. E sotto sotto credo che fossimo in tanti a non volere davvero che finisse il governo Berlusconi, quella dittatura di una maggioranza triviale che ci rendeva tutti per incanto più nobili e belli. La nostra opposizione era facile da indossare, un’appartenenza comoda, senza bisogno di ritocchi, nemmeno di essere stirata; un’identità che non si sgualciva e spiegazzava come il lino, ma era solida e liscia come un abito in microfibra; che conteneva l’illusione poco innocente che la politica fosse quella, che riguardasse tutti in forma pulita e ideale, con una parte evidentemente buona con cui stare: senza entrare nel merito delle cose che, nella brevità della vita, nel bagliore sfuggente dell’esistenza, decidono la felicità o infelicità e, en passant, la miseria o l’agio. Onore, giustizia e altre nitide illusioni erano servite, luccicavano sulle nostre tavole imbandite: possibile che non ci rendessimo conto che il talentuoso imbroglione dal sorriso di canaglia che guidava il governo realizzava semplicemente quello che da sempre, da quando esiste il cerimoniale della democrazia parlamentare, realizzano le destre? Lo faceva, però, scoperchiando gli altari e le pentole, togliendo il velo e la presunta sacralità di quelle regole e abitudini che rendono, come per magia, l’insopportabile sopportabile, e l’intollerabile paesaggio consueto - che è esattamente quello che gli Italiani hanno visto e vissuto e sopportato in quasi cinquant’anni di democrazia cristiana filo-americana.
(La magia, in realtà, è la forza dell’abitudine. E quello di cui volevo davvero scrivere era il mio senso di claustrofobia).
(uscito, appena più beve, oggi domenica 6 dicembre nella rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
[segnalo che sull'ultimo numero di Nuovi Argomenti, appena uscito, dedicato al tema "Privato /Publico", c'è un altro racconto-descrizione di romanzo (che però continuerò), dal titolo Parlare coi morti, 2006 (anche se sulla rivista, ahimè, manca la data che è essenziale). Descrizioni e riassunti di romanzi non scritti è un genere che coltivo da alcuni anni...]
... Il governo Berlusconi, il peggiore in Europa dal 1945, permise a noi italiani di mantenere un alibi comodo come una felpa, l’ipocrisia di una speranza a cui potevamo facilmente rinviare. Quando finì, e “i nostri” presero il timone, ci sentimmo come i tedeschi dopo il crollo del muro di Berlino: non c’era più un’altra possibilità, un’alterità. Orfani di un’immaginazione e di una potenza, il mondo tornò piatto. Durante il governo Berlusconi si era creata un’ampia e nebulosa fratellanza: la violazione palese delle regole della democrazia ci indignava senza metterci in discussione, e creò convergenze morali tra persone economicamente, oggettivamente divergenti, come il locatario e il locatore, il datore di lavoro e il salariato, senza intaccare il costo dell’affitto o le ore di lavoro. Manifestavamo insieme in una baldoria contenuta, non la Resistenza, ma l’ossimoro della festa al capezzale del defunto che non muore. E sotto sotto credo che fossimo in tanti a non volere davvero che finisse il governo Berlusconi, quella dittatura di una maggioranza triviale che ci rendeva tutti per incanto più nobili e belli. La nostra opposizione era facile da indossare, un’appartenenza comoda, senza bisogno di ritocchi, nemmeno di essere stirata; un’identità che non si sgualciva e spiegazzava come il lino, ma era solida e liscia come un abito in microfibra; che conteneva l’illusione poco innocente che la politica fosse quella, che riguardasse tutti in forma pulita e ideale, con una parte evidentemente buona con cui stare: senza entrare nel merito delle cose che, nella brevità della vita, nel bagliore sfuggente dell’esistenza, decidono la felicità o infelicità e, en passant, la miseria o l’agio. Onore, giustizia e altre nitide illusioni erano servite, luccicavano sulle nostre tavole imbandite: possibile che non ci rendessimo conto che il talentuoso imbroglione dal sorriso di canaglia che guidava il governo realizzava semplicemente quello che da sempre, da quando esiste il cerimoniale della democrazia parlamentare, realizzano le destre? Lo faceva, però, scoperchiando gli altari e le pentole, togliendo il velo e la presunta sacralità di quelle regole e abitudini che rendono, come per magia, l’insopportabile sopportabile, e l’intollerabile paesaggio consueto - che è esattamente quello che gli Italiani hanno visto e vissuto e sopportato in quasi cinquant’anni di democrazia cristiana filo-americana.
(La magia, in realtà, è la forza dell’abitudine. E quello di cui volevo davvero scrivere era il mio senso di claustrofobia).
(uscito, appena più beve, oggi domenica 6 dicembre nella rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
[segnalo che sull'ultimo numero di Nuovi Argomenti, appena uscito, dedicato al tema "Privato /Publico", c'è un altro racconto-descrizione di romanzo (che però continuerò), dal titolo Parlare coi morti, 2006 (anche se sulla rivista, ahimè, manca la data che è essenziale). Descrizioni e riassunti di romanzi non scritti è un genere che coltivo da alcuni anni...]
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12/01/2009
Claustrofobia: i carcerieri di Durrenmatt (e quelli della Lega)
Claustrofobia è un concetto che a torto si usa poco in politica, eppure è proprio questo che provocano i regimi chiusi e totalitari, a diversi gradi del loro insediamento. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: chiusura, appunto (v. The Dome di Stephen King), omogeneizzazione, irregimentazione, ripiegamento sulla propria identità; identità che, a diversi livelli di fascistizzazione, si basa sulla comunanza del suolo oppure del sangue. L’appartenenza religiosa ha pure un ruolo importante in questa marca di identità, pur ovviamente non avendo più nulla di spirituale né di religioso. In Svizzera, storicamente terra d’asilo e di rifugiati politici e religiosi, dove un referendum populista ha proibito l’edificazione di minareti, ovvero i templi religiosi degli “altri”, nel 1990 il grande scrittore svizzero Frederich Durrenmatt pronunciò un discorso d’indimenticabile e feroce ironia contro la politica claustrofobizzante del suo Paese, subito entrato nella storia e nella sua opera. Fu durante la cerimonia per la cittadinanza svizzera onoraria al dissidente ceco Victor Havel.
Iniziò coll'esprimere stupore, di fronte ai politici impietriti, che si desse la cittandinanza a un dissidente come Havel quando, in patria, cittadini svizzeri venissero arrestati perché non aderenti all'"ideologia nazionale" (per esempio obiettori di coscienza, o renitenti alla leva obbligatoria). Descrisse poi la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli Svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, “per dimostrare la propria libertà”. In tale prigione, disse, “gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti”. Ma vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Durrenmatt:
“C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli Svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri”.
Le parole di Durrenmatt valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale “Popolo delle libertà”, guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.
(commento uscito su l'Unità del 1° dicembre)
Iniziò coll'esprimere stupore, di fronte ai politici impietriti, che si desse la cittandinanza a un dissidente come Havel quando, in patria, cittadini svizzeri venissero arrestati perché non aderenti all'"ideologia nazionale" (per esempio obiettori di coscienza, o renitenti alla leva obbligatoria). Descrisse poi la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli Svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, “per dimostrare la propria libertà”. In tale prigione, disse, “gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti”. Ma vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Durrenmatt:
“C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli Svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri”.
Le parole di Durrenmatt valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale “Popolo delle libertà”, guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.
(commento uscito su l'Unità del 1° dicembre)
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11/29/2009
La nebbia e il volto
Sono in Emilia-Romagna (dove sono nato e cresciuto) per una serie di incontri pubblici. In uno di essi, a Cesena, sul tema dell’abitare, scopro l’uovo di Colombo della vitalità dei cosiddetti centri storici: dissuadere le banche dall’occuparne gli edifici, spingerle fuori dal centro. Abituato a constatate che, dove c’erano un ristorante o un cinema, ora c’è una nuova banca, scopro che Cesena è uno di quei rari posti in cui si può dire il contrario: dove c’è quella libreria, prima c’era una banca. Lungi dalle città (la maggior parte) in cui il centro è lugubre come un non-luogo all’ora del coprifuoco, a Cesena in centro abita la gente, e l’unico conflitto, a mio avviso risolvibile, è tra chi crede che la musica e le voci siano rumore e chi crede che il rumore sia una cosa, la socialità un’altra.
Accade poi che l’odore della nebbia mi provochi un groviglio di nostalgia e sinestesia e – coincidenza – proprio sulla nebbia sfoglio in libreria il sontuoso e voluminoso repertorio a cura di Remo Cesarani e Umberto Eco (Einaudi). La nebbia non è solo un’anima del luogo e un conforto alla solitudine (come scrisse Baudelaire e dopo di lui Walter Benjamin), ma una procedura che permette nessi invisibili o insoliti tra le cose, ovvero un modo di conoscenza. Non è neppure vero, o non sempre, che la nebbia impedisca di vedere: a volte fa vedere di più, rendendo le cose come volti (come sapeva Pascoli): cioè primi piani.
Quanto all’abitare, mentre da Roma mi giunge voce della protesta contro il decreto sulla prostituzione, davanti alla “casa chiusa” di Palazzo Grazioli, nella nebbia di Bologna, tra i vicoli algidi e imbellettati del centro storico nella nebbia di Bologna, su un muro ben ristrutturato emerge in primo piano questa scritta anarchica quasi d’altri tempi che mi guardo bene dal commentare: - sbirri + puttane).
(rubrica "acchiappafantasmi" de l'Unità, domenica 29 novembre)
Accade poi che l’odore della nebbia mi provochi un groviglio di nostalgia e sinestesia e – coincidenza – proprio sulla nebbia sfoglio in libreria il sontuoso e voluminoso repertorio a cura di Remo Cesarani e Umberto Eco (Einaudi). La nebbia non è solo un’anima del luogo e un conforto alla solitudine (come scrisse Baudelaire e dopo di lui Walter Benjamin), ma una procedura che permette nessi invisibili o insoliti tra le cose, ovvero un modo di conoscenza. Non è neppure vero, o non sempre, che la nebbia impedisca di vedere: a volte fa vedere di più, rendendo le cose come volti (come sapeva Pascoli): cioè primi piani.
Quanto all’abitare, mentre da Roma mi giunge voce della protesta contro il decreto sulla prostituzione, davanti alla “casa chiusa” di Palazzo Grazioli, nella nebbia di Bologna, tra i vicoli algidi e imbellettati del centro storico nella nebbia di Bologna, su un muro ben ristrutturato emerge in primo piano questa scritta anarchica quasi d’altri tempi che mi guardo bene dal commentare: - sbirri + puttane).
(rubrica "acchiappafantasmi" de l'Unità, domenica 29 novembre)
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11/28/2009
Una dittatura piccola piccola (Under the Dome di Stephen King
(oggi su l'Unità la mia recensione, scritta molto frettolosamente, in viaggio, di The Dome di Stephen King, appena uscito anche in italiano da Sperling & Kupfer)
La situazione romanzesca, al limite del cliché fantascientifico, da cui prende le mosse The Dome, l’ultimo romanzo di Stephen King, richiama la celebre fulminante definizione di Ludwig Wittgenstein: “Filosofia è insegnare alla mosca a uscire dal bicchiere”. Sotto al “bicchiere”, una cupola trasparente e infrangibile (the Dome, appunto) di materiale ignoto, sorta improvvisamente un mattino d’estate terso e soleggiato, ci sono gli abitanti di una cittadina del Maine, Chester’s Mill. L’autore confessa di averne avuto l’idea nel 1976, ma di avervi rinunciato per incapacità dopo il primo capitolo – una formidabile descrizione narrativa al rallentatore degli effetti della cupola, come lo schianto contro il nulla trasparente di un aereo e la contemporanea decapitazione di una marmotta. Aggiunge di averne ripreso la scrittura solo nel 2007 - e il lettore non può evitare di pensare al film I Simpson, uscito quell’anno, che narra una storia simile, quella di un misterioso globo che isola e rinchiude la città. Ma questa idea, per quanto pazzesca o suggestiva, non è qui che il pretesto, la cornice. Il McGuffin, direbbe Hitchkock. Perché The Dome di Stephen King è uno dei più importanti romanzi etico-politici degli ultimi decenni.
Come in tutti i romanzi di King, qualunque grado di suspense e di horror si propongano di svolgere e comunicare, in The Dome è la descrizione corale e sociale della realtà ad avere il sopravvento, anche se è più estesa del solito la pluralità dei personaggi, un’intera comunità descritta con minuzioso realismo. La novità è che l’orrore che fa fatalmente irruzione è tutto umano e, inteso come genere narrativo, l’horror si conferma il più adatto a descrivere la realtà politica della nostra epoca.
La misteriosa cupola, il cui materiale si rivelerà di natura extraterrestre, è in grado di resistere perfino alle bombe atomiche e ai più sofisticati acidi corrosivi della tecnologia americana. Divide un fuori e un dentro, anche se nei pressi della parete trasparente le persone possono ancora comunicare a voce. Il mondo di fuori continua la vita di sempre, con le regole e i rituali della democrazia, dello scambio, della circolazione di notizie, del controllo reciproco dei poteri. Il mondo dentro (o meglio sotto) la cupola perde invece in pochi giorni i propri connotati. Il ricco e corrotto consigliere comunale detto Big Jim, già divorato da smodate ambizioni di potere personale, occulto fabbricante e spacciatore di metanfetamina, vede nella cupola la formidabile occasione per mettersi da una parte al riparo di imminenti guai giudiziari, dall’altra per rafforzare smisuratamente il proprio potere. Il romanzo descrive così in modo quasi didascalico e impietoso la formazione di una dittatura nelle sue varie tappe: grazie all’isolamento, certo (le comunicazioni col mondo esterno sono cessate), alternando paura e protezione, simpatia e violenza, e mettendo in atto ogni manipolazione e falsificazione della verità. Apologo iperreale, la storia assume a tratti una valenza quasi documentaria. C’è l’invenzione del nemico e del capro espiatorio (le solite Cassandre, o “comunisti”); ci sono le tecniche di fabbricazione del consenso, in accordo col rappresentante locale del fondamentalismo religioso; ci sono le “ronde” e le squadracce fasciste, e provocazioni di ogni tipo per rafforzare e legittimare il potere e l’eliminazione delle libertà; c’è naturalmente la chiusura dell’unico giornale, e infine quella dei negozi, perché anche il razionamento del cibo (come della luce elettrica) serve al controllo della popolazione. Ogni tessuto connettivo democratico salta e, tassello dopo tassello si compie l’assoggettamento della città al potere del Capo, fino al delirio di contrapporsi al resto del mondo, per esempio contro quel comunista del nuovo presidente (l’allusione è a Obama). Naturalmente, “Dio” è dalla parte di questo potere.
Intanto la cupola trasparente diventa sempre più opaca, l’inquinamento atmosferico all’interno raggiunge tassi allarmanti, la stessa luce del sole è filtrata da nuvole di smog, e i colori e le forme di ciò che prima era naturale sfumano in una terra desolata, un’alienazione priva di vita. Niente di tutto questo importa al consigliere comunale detto Big Jim, per il quale la fine del mondo come tutte le chiacchiere ecologiche è una favole buonista messa in circolazione da comunisti e froci.
Naturalmente, come in ogni romanzo di Stephen King, al Male si contrappone il Bene, incarnato solitamente da un’umanità eterogenea, spesso disabile o fricchettona (né mancano mai i bambini), alla cui lotta “partigiana” si aggiunge la ricerca di una soluzione al mistero della Cupola. Il tono e l’orizzonte etico-narrativo ricordano qui i romanzi di Philip K. Dick, soprattutto per due formidabili spunti. Il primo è l’idea della paranoia come resistenza, ovvero che “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Il secondo, più teologico-trascendentale, di una teologia ludica e per nulla rassicurante, è l’idea che l’immensa cupola di materiale non identificato sia il gioco di un bambino alieno che guarda alla Terra come un bambino umano guarderebbe a un formicaio: e che smette di uccidere le formiche solo se una comunicazione ineffabile, un sentire, affiora al suo cuore (o alla sua mente) fino a farlo desistere da quel gioco crudele. La speculazione sull’istinto al bene raggiungerebbe qui finezze filosofiche cui King si limita ad alludere poeticamente. C’è un terzo elemento che ricorda Dick, ma che a ben vedere ricorda anche molto, e intimamente, Stephen King: la potenza, distruttiva o edificante a seconda dell’uso, delle droghe. Ma questo lo scoprirà meglio il lettore.
La situazione romanzesca, al limite del cliché fantascientifico, da cui prende le mosse The Dome, l’ultimo romanzo di Stephen King, richiama la celebre fulminante definizione di Ludwig Wittgenstein: “Filosofia è insegnare alla mosca a uscire dal bicchiere”. Sotto al “bicchiere”, una cupola trasparente e infrangibile (the Dome, appunto) di materiale ignoto, sorta improvvisamente un mattino d’estate terso e soleggiato, ci sono gli abitanti di una cittadina del Maine, Chester’s Mill. L’autore confessa di averne avuto l’idea nel 1976, ma di avervi rinunciato per incapacità dopo il primo capitolo – una formidabile descrizione narrativa al rallentatore degli effetti della cupola, come lo schianto contro il nulla trasparente di un aereo e la contemporanea decapitazione di una marmotta. Aggiunge di averne ripreso la scrittura solo nel 2007 - e il lettore non può evitare di pensare al film I Simpson, uscito quell’anno, che narra una storia simile, quella di un misterioso globo che isola e rinchiude la città. Ma questa idea, per quanto pazzesca o suggestiva, non è qui che il pretesto, la cornice. Il McGuffin, direbbe Hitchkock. Perché The Dome di Stephen King è uno dei più importanti romanzi etico-politici degli ultimi decenni.
Come in tutti i romanzi di King, qualunque grado di suspense e di horror si propongano di svolgere e comunicare, in The Dome è la descrizione corale e sociale della realtà ad avere il sopravvento, anche se è più estesa del solito la pluralità dei personaggi, un’intera comunità descritta con minuzioso realismo. La novità è che l’orrore che fa fatalmente irruzione è tutto umano e, inteso come genere narrativo, l’horror si conferma il più adatto a descrivere la realtà politica della nostra epoca.
La misteriosa cupola, il cui materiale si rivelerà di natura extraterrestre, è in grado di resistere perfino alle bombe atomiche e ai più sofisticati acidi corrosivi della tecnologia americana. Divide un fuori e un dentro, anche se nei pressi della parete trasparente le persone possono ancora comunicare a voce. Il mondo di fuori continua la vita di sempre, con le regole e i rituali della democrazia, dello scambio, della circolazione di notizie, del controllo reciproco dei poteri. Il mondo dentro (o meglio sotto) la cupola perde invece in pochi giorni i propri connotati. Il ricco e corrotto consigliere comunale detto Big Jim, già divorato da smodate ambizioni di potere personale, occulto fabbricante e spacciatore di metanfetamina, vede nella cupola la formidabile occasione per mettersi da una parte al riparo di imminenti guai giudiziari, dall’altra per rafforzare smisuratamente il proprio potere. Il romanzo descrive così in modo quasi didascalico e impietoso la formazione di una dittatura nelle sue varie tappe: grazie all’isolamento, certo (le comunicazioni col mondo esterno sono cessate), alternando paura e protezione, simpatia e violenza, e mettendo in atto ogni manipolazione e falsificazione della verità. Apologo iperreale, la storia assume a tratti una valenza quasi documentaria. C’è l’invenzione del nemico e del capro espiatorio (le solite Cassandre, o “comunisti”); ci sono le tecniche di fabbricazione del consenso, in accordo col rappresentante locale del fondamentalismo religioso; ci sono le “ronde” e le squadracce fasciste, e provocazioni di ogni tipo per rafforzare e legittimare il potere e l’eliminazione delle libertà; c’è naturalmente la chiusura dell’unico giornale, e infine quella dei negozi, perché anche il razionamento del cibo (come della luce elettrica) serve al controllo della popolazione. Ogni tessuto connettivo democratico salta e, tassello dopo tassello si compie l’assoggettamento della città al potere del Capo, fino al delirio di contrapporsi al resto del mondo, per esempio contro quel comunista del nuovo presidente (l’allusione è a Obama). Naturalmente, “Dio” è dalla parte di questo potere.
Intanto la cupola trasparente diventa sempre più opaca, l’inquinamento atmosferico all’interno raggiunge tassi allarmanti, la stessa luce del sole è filtrata da nuvole di smog, e i colori e le forme di ciò che prima era naturale sfumano in una terra desolata, un’alienazione priva di vita. Niente di tutto questo importa al consigliere comunale detto Big Jim, per il quale la fine del mondo come tutte le chiacchiere ecologiche è una favole buonista messa in circolazione da comunisti e froci.
Naturalmente, come in ogni romanzo di Stephen King, al Male si contrappone il Bene, incarnato solitamente da un’umanità eterogenea, spesso disabile o fricchettona (né mancano mai i bambini), alla cui lotta “partigiana” si aggiunge la ricerca di una soluzione al mistero della Cupola. Il tono e l’orizzonte etico-narrativo ricordano qui i romanzi di Philip K. Dick, soprattutto per due formidabili spunti. Il primo è l’idea della paranoia come resistenza, ovvero che “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Il secondo, più teologico-trascendentale, di una teologia ludica e per nulla rassicurante, è l’idea che l’immensa cupola di materiale non identificato sia il gioco di un bambino alieno che guarda alla Terra come un bambino umano guarderebbe a un formicaio: e che smette di uccidere le formiche solo se una comunicazione ineffabile, un sentire, affiora al suo cuore (o alla sua mente) fino a farlo desistere da quel gioco crudele. La speculazione sull’istinto al bene raggiungerebbe qui finezze filosofiche cui King si limita ad alludere poeticamente. C’è un terzo elemento che ricorda Dick, ma che a ben vedere ricorda anche molto, e intimamente, Stephen King: la potenza, distruttiva o edificante a seconda dell’uso, delle droghe. Ma questo lo scoprirà meglio il lettore.
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11/26/2009
11/22/2009
Questa cosa del vedere il mondo dal di fuori...
(Tentativo di dare un seguito con parole diverse alla rubrica della scorsa domenica, in una passeggiata a Parigi in novembre).
... Questa cosa del vedere il mondo dal di fuori, la vita, bevendo la birra a Place de la Contrescarpe, poi rue d’Ulm e la piazza dove vidi l’alba abbracciato a X. nel grande spazio rosa e bianco deserto come un quadro di De Chirico, le strade di un passato tanto più remoto quanto più recente, cioè passato, dove insegnava il celebre filosofo marxista Louis Althusser prima che ammazzasse la moglie e andasse al manicomio, quando c’era un futuro ma la politica nascondeva nascita e morte come i giochi dei bambini, riproiettandole in utopie (l’origine è la meta), le parole vibravano all’unisono della città - le macchine i palazzi bianchi i libri che si fanno corpo, le metafisiche le politiche i cortei le bandiere i lampi azzurri e le sirene, e la sensazione della parola giusta, irrimpiazzabile come nelle poesie (“è vero!”, “è così!” – e che cosa vorrà dire questa esclamazione). Questa cosa di vedere il mondo e la vita dal di fuori, come se ci fosse un fuori, come se fosse o potesse essere – qualcosa – al di fuori di questo, le parole, penso mentre cammino ora boulevard Raspail, quel piano alto del palazzo anni ’30 dove un’altra primavera Y. mi abbracciava e diceva “sembra una casa giapponese”, e l’avremmo lasciata vuota e bianca - l’idea che le parole abbiano una consistenza fisica, che le parole smuovano il mondo (ma la filosofia era già meno importante, preferivo i musei, scettico come si addice a uno scrittore), camminando a vuoto tra gli alberi piangenti sotto il cielo alto – ma potrebbe essere sotto i platani di Parma o di Bologna, tra i vicoli o i viali di palazzoni di Roma, tra i prati di periferia sopravvissuti – mi chiedo se sono io o è il mondo intorno - la realtà, la storia - che invecchia e muore.
(da l'Unità di oggi, rubrica "acchiappafantasmi")
... Questa cosa del vedere il mondo dal di fuori, la vita, bevendo la birra a Place de la Contrescarpe, poi rue d’Ulm e la piazza dove vidi l’alba abbracciato a X. nel grande spazio rosa e bianco deserto come un quadro di De Chirico, le strade di un passato tanto più remoto quanto più recente, cioè passato, dove insegnava il celebre filosofo marxista Louis Althusser prima che ammazzasse la moglie e andasse al manicomio, quando c’era un futuro ma la politica nascondeva nascita e morte come i giochi dei bambini, riproiettandole in utopie (l’origine è la meta), le parole vibravano all’unisono della città - le macchine i palazzi bianchi i libri che si fanno corpo, le metafisiche le politiche i cortei le bandiere i lampi azzurri e le sirene, e la sensazione della parola giusta, irrimpiazzabile come nelle poesie (“è vero!”, “è così!” – e che cosa vorrà dire questa esclamazione). Questa cosa di vedere il mondo e la vita dal di fuori, come se ci fosse un fuori, come se fosse o potesse essere – qualcosa – al di fuori di questo, le parole, penso mentre cammino ora boulevard Raspail, quel piano alto del palazzo anni ’30 dove un’altra primavera Y. mi abbracciava e diceva “sembra una casa giapponese”, e l’avremmo lasciata vuota e bianca - l’idea che le parole abbiano una consistenza fisica, che le parole smuovano il mondo (ma la filosofia era già meno importante, preferivo i musei, scettico come si addice a uno scrittore), camminando a vuoto tra gli alberi piangenti sotto il cielo alto – ma potrebbe essere sotto i platani di Parma o di Bologna, tra i vicoli o i viali di palazzoni di Roma, tra i prati di periferia sopravvissuti – mi chiedo se sono io o è il mondo intorno - la realtà, la storia - che invecchia e muore.
(da l'Unità di oggi, rubrica "acchiappafantasmi")
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11/14/2009
Sognare e abitare tra Francia e Italia (1a parte)
“L’Italia non fa più sognare”, mi ha detto a tavola a Roma tempo fa il mio amico Claude Nori, grande fotografo francese innamorato da sempre dell’Italia (e che terrà nei prossimi giorni a Lucca una mostra e un workshop nell’ambito del Photo Fest). Stavamo cercando di non parlare di politica, ma la politica c’entra sempre, anche e soprattutto se si parla di sogni e di felicità, di orizzonti. Forse anche in questo il nostro Paese si mostra laboratorio, come iniziò tragicamente a partire dagli anni ’20 del Novecento: in Francia le dichiarazioni e i conflitti di questi giorni tra scrittori e potere politico ricordano la polemica sugli “intellettuali clown” fatta anni fa dal nostro capo del governo. Mi riferisco al putiferio scatenato dall’intervista alla meravigliosa scrittrice Marie NDiaye, francese di origine africana, insignita dal prestigioso premio Goncourt, che vive attualmente a Berlino perché la Francia di Sarkozy e delle politiche sui sans papier le sembrano irrespirabili, anzi "mostruose". Ora, le sue frasi hanno sì suscitato una richiesta di censura da parte di un deputato della destra governativa, ma nel Paese di Voltaire, Diderot, Zola, Camus e Sartre non ha trovato alcuna sponda. Ecco, l’unica censura, nella liberale Francia, è sulle intenzioni di censura, e qui sta la grande differenza tra la destra di Sarkozy e il sultanato berlusconiano; e a un Bondi che insulta l’arte e il cinema corrisponde un Mitterand che tra mille ambiguità è scelto pur sempre per competenza e amore per le arti.
Ma sognare è un’altra cosa. E se capisco bene cosa voleva dire sull’Italia Claude Nori, mi accorgo, mentre cammino con amici scrittori per le vie di Parigi e i bar chiudono uno dopo l'altro in una città che si riempie d buio, che anche qui sembra dissolversi la memoria, quell’identità che è vettore di sogni e di ogni immaginazione... Ma di questa angoscia di fantasmi, di sopravissuti, vorrei parlare la prossima volta.
(rubrica "acchiappafantasmi", su l'Unità di domenica 15 novembre)
Ma sognare è un’altra cosa. E se capisco bene cosa voleva dire sull’Italia Claude Nori, mi accorgo, mentre cammino con amici scrittori per le vie di Parigi e i bar chiudono uno dopo l'altro in una città che si riempie d buio, che anche qui sembra dissolversi la memoria, quell’identità che è vettore di sogni e di ogni immaginazione... Ma di questa angoscia di fantasmi, di sopravissuti, vorrei parlare la prossima volta.
(rubrica "acchiappafantasmi", su l'Unità di domenica 15 novembre)
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11/08/2009
La vita nuda del sans papier
Ho viaggiato nudo per 24 ore. Sono stato fortunato: malgrado i tempi che corrono non mi ha arrestato nessuno, neanche all’albergo che mi ha ospitato una notte senza carta d’identità. E’ bastato che prima di partire cambiassi giacca, dimenticando soldi, documenti e telefonino nelle tasche dell’altra, per precipitare nella clandestinità e nella non appartenenza, diventare l’uomo (socialmente) invisibile: nomade, clandestino, sans papier. Negli anni Settanta Italo Calvino fu arrestato a Los Angeles perché camminava invece che andare in automobile, era senza documenti e per di più con dei soldi in contanti in tasca. Lo salvò la foto di copertina di un suo libro americano. (Il fatto che io sia l’autore di Panchine, che dovevo appunto presentare in una città di provincia insieme a un altro mio libro dal titolo Oggetti smarriti, temo sarebbe stata un’ambigua e losca aggravante per il poliziotto di turno che mi avesse interrogato).
Sans papier. Ontologia dell’attualità, è invece il libro che Maurizio Ferraris ha dedicato agli “oggetti sociali”, a quei documenti che rendono “vestita” la vita altrimenti nuda. Senza attestati scritti di una documentazione e registrazione dell’identità, riconoscibile e verificabile, si incorre oggi in Italia, oltre che in un dramma esistenziale, nel perverso reato di clandestinità (che comporta una paradossale catena di documentazioni giuridiche). L’assenza del telefonino dissolve infine ogni riferimento, dato che ad esso deleghiamo la memoria di ciò che tranquillamente possiamo dimenticare (e sono consapevole del platonismo insito in questa presa di distanza nei confronti della scrittura come memorandum, “farmaco peggiore del male”, scriveva il filosofo). Il discorso ci porterebbe molto lontano. Mi limito qui a suggerire che non servono viaggi esotici e costosi per provare il brivido del perdersi. Basta prendere un treno regionale e scendere in un posto qualsiasi, senza soldi, senza documenti, soprattutto senza telefonino.
(rubrica di domenica 8 novembre 2009, l'Unità)
Sans papier. Ontologia dell’attualità, è invece il libro che Maurizio Ferraris ha dedicato agli “oggetti sociali”, a quei documenti che rendono “vestita” la vita altrimenti nuda. Senza attestati scritti di una documentazione e registrazione dell’identità, riconoscibile e verificabile, si incorre oggi in Italia, oltre che in un dramma esistenziale, nel perverso reato di clandestinità (che comporta una paradossale catena di documentazioni giuridiche). L’assenza del telefonino dissolve infine ogni riferimento, dato che ad esso deleghiamo la memoria di ciò che tranquillamente possiamo dimenticare (e sono consapevole del platonismo insito in questa presa di distanza nei confronti della scrittura come memorandum, “farmaco peggiore del male”, scriveva il filosofo). Il discorso ci porterebbe molto lontano. Mi limito qui a suggerire che non servono viaggi esotici e costosi per provare il brivido del perdersi. Basta prendere un treno regionale e scendere in un posto qualsiasi, senza soldi, senza documenti, soprattutto senza telefonino.
(rubrica di domenica 8 novembre 2009, l'Unità)
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11/01/2009
Il Giorno dei Santi e dei Morti
Idroscalo di Ostia, 1/11/2009, foto di Maria Andreozzi |
Sono qui per fare un reportage da un mondo sopravvissuto, testimonianza del suo stesso precario sopravvivere, un mondo di estremamente poveri che abitano baracche e casette fatte con materiali di risulta, che si allagano ad ogni pioggia. Il mondo di Pasolini, anche se nel XXI secolo ricorda i film di David Lynch: uomini e donne tatuati che ricordo in alcune festose sere d’agosto nella luce rubata ai pali elettrici, animate dal karaoke e dall’elezione di Miss Idroscalo. O, come ogni anno, dalla devozione quasi pagana, e per questo tanto più religiosa, della festa dell’Assunta il 15 agosto, quando la barca con la statua della Madonna esce in mare dal Tevere e prende il largo, e i sottoproletari precari (chiamiamoli così) sono in compagnia di preti, carabinieri e guardie di finanza. Una solennità iperreale e un po’ sballata, come i fuochi d’artificio fuori sincrono. E penso ora che non è male questa coincidenza: essere qui il quasi giorno dei Morti e dei Santi, che altri chiamano Halloween (e cosa ne direbbe Pasolini, mi chiedo).
(uscito su l'Unità di domenica 1 novembre 2009, rubrica "acchiappafantasmi"
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10/18/2009
Una persona normale (rubrica "acchiappafantasmi")
La principale motivazione per cui dedicai un libro alla biografia di Henri Paul, colui che guidava la macchina quando morì Lady Diana (e che pure morì sul colpo), fu riabilitare dal massacro mediatico una persona ordinaria stritolata tra i Windsor e gli Al Fayed, la cui vita fu dissezionata per incolparlo: alcoolizzato, depresso, lasciato dalle donne ecc. Prendete una persona qualsiasi, leggete ogni dettaglio della sua vita in funzione di una tesi preconcetta, e riuscirete senz’altro a farlo apparire colpevole o sospetto. Infamia di cui siamo tutti potenziali vittime. Qualcosa di più lieve ma dello stesso genere è accaduto al giudice "colpevole" di una sentenza civile (lodo Mondadori) che compensa un imprenditore dallo “scippo” tramite corruzione da parte di un altro imprenditore. Le televisioni del secondo hanno cercato di irridere il giudice pedinandolo con le telecamere, e farlo apparire “stravagante”. Se ho pensato ad H. P. è anche perché l’autore del programma, Claudio Brachino, scrisse un pamphlet innocentista sul caso Diana, e mi sembrò persona sensibile al tema della persecuzione mediatica. Stupisce vederlo all’opera per fare questo favore al suo Capo, oggi capo del governo.
Ma le immagini del servizio che dovrebbero screditare il giudice Misiano si ritorcono contro gli autori. Il giudice appare appunto una persona normale, ordinaria. Che addirittura lo si prenda in giro perché si siede su una panchina, in attesa di andare dal barbiere, è davvero il colmo: della simpatia che l’uomo ci ispira. Alcuni lettori sanno che ho scritto un libro sulle Panchine, oggetto poetico e oggi sociale, simbolo dello spazio pubblico da difendere e di un tempo, se non libero, da liberare. So bene che è anche un luogo di rappresaglia sociale, di guerra contro i poveri e gli "stravaganti", e chi si siede appare oggi un po' losco. Amo le panchine e mi ci siedo ogni volta che posso. Amo chi si siede sulle panchine. (Alla vergogna pubblica e privata dei gesti del Capo, invece, agli antipodi delle panchine, non ci abitueremo mai).
(mia rubrica domenicale "acchiappafantasmi" su l'Unità, per cause tecniche spostata a domani, lunedì 19 ottobre; qui in anteprima per voi)
Ma le immagini del servizio che dovrebbero screditare il giudice Misiano si ritorcono contro gli autori. Il giudice appare appunto una persona normale, ordinaria. Che addirittura lo si prenda in giro perché si siede su una panchina, in attesa di andare dal barbiere, è davvero il colmo: della simpatia che l’uomo ci ispira. Alcuni lettori sanno che ho scritto un libro sulle Panchine, oggetto poetico e oggi sociale, simbolo dello spazio pubblico da difendere e di un tempo, se non libero, da liberare. So bene che è anche un luogo di rappresaglia sociale, di guerra contro i poveri e gli "stravaganti", e chi si siede appare oggi un po' losco. Amo le panchine e mi ci siedo ogni volta che posso. Amo chi si siede sulle panchine. (Alla vergogna pubblica e privata dei gesti del Capo, invece, agli antipodi delle panchine, non ci abitueremo mai).
(mia rubrica domenicale "acchiappafantasmi" su l'Unità, per cause tecniche spostata a domani, lunedì 19 ottobre; qui in anteprima per voi)
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10/10/2009
Fuori luogo (per Derrida)
Scrivo questa rubrica nell’ennesima stanza d’albergo, ma già abituato al tavolo, al letto, alla finestra (questa volta sul golfo di Napoli), e penso così alla frase di uno scrittore ebreo americano sull’attuale diaspora universale come condizione umana: essere sempre ovunque e in nessun luogo, e soprattutto mai a casa. (Forse è per questo che abbiamo così bisogno di una home page). Siamo tutti clandestini, ma anche tutto intorno a noi, stando a quello che leggo sui giornali, appare sbagliato e fuori posto, parole comprese. La democrazia è “comunista”, si lamenta il capo del governo.
Sono a Napoli, ospite dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, al convegno sul grande filosofo Jacques Derrida (di cui per anni fui allievo) a cinque anni dalla morte. Che cosa significa “grande filosofo”? Che ha insegnato di nuovo a pensare; a dubitare, prima di tutto, e a guardare in modo nuovo il mondo, compresi noi stessi, i nostri pensieri e le nostre parole. A formulare quindi nuovi modi di dire e di pensare. Come si dice di un grande scrittore, che allarga l’area del raccontare storie, del narrabile, così un filosofo allarga l’area del pensare, della teoria. Derrida parlava di continuo di cose e problemi fuori luogo (ma lui diceva, con Shakespeare, “out of jont”, fuori asse).
Forse il problema filosofico più importante è da sempre quello stesso che pone la letteratura: come tornare a casa (anche se non è mai la stessa che abbiamo lasciato alle spalle). Come sentirsi a casa. Derrida ha parlato molto del dovere etico di ospitalità e accoglienza, con discorsi paradossali e inattesi, cioè “fuori luogo”. E oggi che in Italia “essere clandestini” - che è la condizione ontologica più diffusa - è diventato un crimine oltre ad essere un pleonasma, mi chiedo cosa ne sarà del pensiero: sarà bandito anch’esso, fuori luogo e fuori legge?
(in uscita su l'Unità, domenica 11 ottobre, rubrica "acchiappafantasmi")
Sono a Napoli, ospite dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, al convegno sul grande filosofo Jacques Derrida (di cui per anni fui allievo) a cinque anni dalla morte. Che cosa significa “grande filosofo”? Che ha insegnato di nuovo a pensare; a dubitare, prima di tutto, e a guardare in modo nuovo il mondo, compresi noi stessi, i nostri pensieri e le nostre parole. A formulare quindi nuovi modi di dire e di pensare. Come si dice di un grande scrittore, che allarga l’area del raccontare storie, del narrabile, così un filosofo allarga l’area del pensare, della teoria. Derrida parlava di continuo di cose e problemi fuori luogo (ma lui diceva, con Shakespeare, “out of jont”, fuori asse).
Forse il problema filosofico più importante è da sempre quello stesso che pone la letteratura: come tornare a casa (anche se non è mai la stessa che abbiamo lasciato alle spalle). Come sentirsi a casa. Derrida ha parlato molto del dovere etico di ospitalità e accoglienza, con discorsi paradossali e inattesi, cioè “fuori luogo”. E oggi che in Italia “essere clandestini” - che è la condizione ontologica più diffusa - è diventato un crimine oltre ad essere un pleonasma, mi chiedo cosa ne sarà del pensiero: sarà bandito anch’esso, fuori luogo e fuori legge?
(in uscita su l'Unità, domenica 11 ottobre, rubrica "acchiappafantasmi")
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10/06/2009
10/04/2009
L'epiteto "berlusconi" (rubrica "acchiappafantasmi")
Il senso delle parole è il loro uso. Come scrisse un filosofo, “nelle usanze non c’è errore”.
Alcuni anni fa lessi che a Massa l’autista di un autobus si rifiutava di guidare un mezzo pubblico tappezzato di manifesti elettorali di Berlusconi, e quindi suscettibile di venire bersagliato da lanci di sassi (era già successo). Nello stesso periodo mi colpì un’altra notizia di cronaca che rimpiango non avere ritagliato. Diceva il litigio tra due automobilisti, in cui a un certo punto uno dei due dà all’altro del “Berlusconi” (per stigmatizzarne, pare, i modi arroganti). Di fronte a quell’insolito epiteto l’altro si sente così offeso che sporge querela (“Berlusconi a me? Ma come si permette?”). Immaginai che il diverbio tra i due si spostasse in tribunale - come il mio lavoro non quererabile (sic!) di scrittore mi consente – e quindi alcuni scenari argomentativi. La strategia difensiva del querelato (quello che ha gridato “Berlusconi”) doveva sostenere che la parola pronunciata non fosse un’offesa: e come poteva esserlo dato che era il nome del Primo Ministro, oltre che il più ricco e abile imprenditore italiano? Ma allora cosa significava in quel contesto? Da parte sua, la parte querelante avrebbe dovuto all’opposto argomentare che l’epiteto fosse invece infamante per questo e quest’altro motivo, quantificandone il danno.
Nella mia fantasia ispirata a un fatto vero c’era un però: come avremmo dovuto sentirci noi cittadini sapendo che nelle aule di un tribunale si sarebbe deciso se il nome di chi ci governa fosse equiparabile a un insulto? E se sì, che tipo di insulto sarebbe stato? (Tutto questo, che ho scritto anni fa, mi è tornato in mente grazie alla vignetta del sublime Altan pubblicata ieri su Repubblica: “Berlusconi!”, dice un tizio a un altro piccoletto con la banana in mano. “Calunnia!”, risponde il Cav.).
(rubrica "acchiappafantasmi", uscito su l'Unità di domenica 4 ottobre 2009)
Alcuni anni fa lessi che a Massa l’autista di un autobus si rifiutava di guidare un mezzo pubblico tappezzato di manifesti elettorali di Berlusconi, e quindi suscettibile di venire bersagliato da lanci di sassi (era già successo). Nello stesso periodo mi colpì un’altra notizia di cronaca che rimpiango non avere ritagliato. Diceva il litigio tra due automobilisti, in cui a un certo punto uno dei due dà all’altro del “Berlusconi” (per stigmatizzarne, pare, i modi arroganti). Di fronte a quell’insolito epiteto l’altro si sente così offeso che sporge querela (“Berlusconi a me? Ma come si permette?”). Immaginai che il diverbio tra i due si spostasse in tribunale - come il mio lavoro non quererabile (sic!) di scrittore mi consente – e quindi alcuni scenari argomentativi. La strategia difensiva del querelato (quello che ha gridato “Berlusconi”) doveva sostenere che la parola pronunciata non fosse un’offesa: e come poteva esserlo dato che era il nome del Primo Ministro, oltre che il più ricco e abile imprenditore italiano? Ma allora cosa significava in quel contesto? Da parte sua, la parte querelante avrebbe dovuto all’opposto argomentare che l’epiteto fosse invece infamante per questo e quest’altro motivo, quantificandone il danno.
Nella mia fantasia ispirata a un fatto vero c’era un però: come avremmo dovuto sentirci noi cittadini sapendo che nelle aule di un tribunale si sarebbe deciso se il nome di chi ci governa fosse equiparabile a un insulto? E se sì, che tipo di insulto sarebbe stato? (Tutto questo, che ho scritto anni fa, mi è tornato in mente grazie alla vignetta del sublime Altan pubblicata ieri su Repubblica: “Berlusconi!”, dice un tizio a un altro piccoletto con la banana in mano. “Calunnia!”, risponde il Cav.).
(rubrica "acchiappafantasmi", uscito su l'Unità di domenica 4 ottobre 2009)
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10/01/2009
Intervista a James Lee Burke
In occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo, Il prezzo della vergogna (Fanucci Editore) ecco un'intervista esclusiva al grande James Lee Burke, di Rock Reynolds e Beppe Sebaste:
La voce di James Lee Burke, attualmente nel Montana, è insieme intensa e stanca, carica di vita e di passione. Ci emoziona parlare con uno dei più intensi scrittori americani, di cui abbiamo seguito le vicende del personaggio più famoso, il detective Dave Robicheaux di New Orleans, e i tanti altri romanzi che descrivono un’America selvaggia e amata, dalla natura lussureggiante e dalla violenza terribilmente umana. I suoi romanzi raccontano parabole e sentimenti universali, per esempio quello del sentirsi perduti. Fanno venire in mente quello che scrisse il filosofo Gilles Deleuze sulla “superiorità della letteratura angloamericana”, legata agli spazi, agli orizzonti, alle linee di fuga, e in cui “fuggire, evadere, non vuol dire fare dei viaggi di vacanza, portando in giro il proprio io, ma disfarlo”. Forse, chiediamo a James Lee Burke, conta che gli Americani non hanno il peso della Storia, come in Europa, ma hanno in compenso molta “geografia”? E quanto è importante per te la natura?
“Fin dai tempi di Mark Twain e di Henry James, il romanzo americano è stato preso a modello in tutto il mondo, proprio come la sua industria cinematografica. Credo che il motivo stia nel fatto che la storia americana è essenzialmente una storia esistenziale. Quanto all’ambiente naturale, sia quello rurale che quello urbano, esso diventa un protagonista delle mie storie, un’entità viva. Credo che tutti gli essere umani siano plasmati nel corso dell’infanzia dalle condizioni ambientali in cui si trovano a crescere.
Com’è nato il tuo eroe Dave Robicheaux?
Il personaggio è scaturito da un paio di romanzi scritti e mai pubblicati che, in seguito, ho messo insieme, creando Pioggia al neon. Erano quattordici anni che i miei libri mancavano dal mercato, e in un certo senso devo a Pioggia al neon il mio ritorno. Quel libro mi ha decisamente cambiato la carriera.
E’ quindi la letteratura noir ad averti salvato?
Difficile dirlo, e poi le etichette siano sempre fuorvianti. Mettiamola così: da giovane ho avuto un sacco di successo, ma a metà della mia carriera non sarei riuscito nemmeno a vendere acqua ghiacciata all’inferno. La serie di Dave Robicheaux mi ha aiutato tantissimo.
Come lo descriveresti in due parole?
Molto simile ai cavalieri erranti tra Medioevo e Rinascimento. La sua origine va ricercata nel teatro elisabettiano: è l’eroe tragico che deve la sua rovina alla sua stessa tracotanza.
Cosa intendi quando descrivi Robicheaux come eroe “blue-collar”? E perché il soprannome di “Streak”?
“Blue-collar” sta per classe operaia, per un lavoratore di umili origini. E Robicheaux è l’uomo comune secondo l’etica medievale, uno che Dante e Boccaccio riconoscerebbero subito. “Streak” è per via della ciocca di capelli bianchi, scolorita per la malnutrizione dell’infanzia.
Dave Robicheaux vive e invecchia da un romanzo all’altro, ha una vita propria. Riflette la tua vita o è un “amico” che ti accompagna?
Penso che i personaggi di qualunque romanzo vivano nell’inconscio dell’autore. Sono ottimi compagni di viaggio.
Come sono i criminali che Robicheaux si trova ad affrontare e che tipo di rapporto hanno con il male? Anche Robicheaux ha un passato difficile, con l’incubo della guerra del Vietnam, la distruzione della sua famiglia e slanci autodistruttivi, come l’alcolismo...
I miei libri sono allegorici, e le storie che raccontano sono concepite per rappresentare problematiche più grandi. Spesso sono molto politiche e spero che il lettore le consideri emblematiche di questioni più alte. I miei criminali sono individui che simboleggiano le energie distruttive che operano nella nostra società, sia negli USA che nel resto del mondo, negli ultimi trent’anni. I primi tre libri della serie di Robicheaux sono stati concepiti come una vera e propria trilogia. Mi sono ispirato al modello de Il Paradiso Perduto e Il Paradiso Riconquistato di Milton. Ovviamente non intendo mettermi al livello di John Milton, sto semplicemente dicendo che quei tre libri hanno al loro centro la discesa nell’abisso, nei gironi danteschi, prima di raggiungere la pace e la serenità, cosa che vediamo nel terzo libro, Black Cherry Blues.
Ti è piaciuto Levon Helm nei panni dello spettro dell’ufficiale confederato nel film tratto da L’occhio del ciclone, con Tommy Lee Jones nei panni di Dave Robicheaux?
Moltissimo. Ha grande talento. Ovviamente me lo ricordo nei panni del padre di Loretta Lynn in La ragazza di Nashville, inoltre era il batterista di Bob Dylan nel gruppo "The Band". Insomma, in questo film ci ha lavorato parecchia gente di talento e la cosa mi ha lusingato non poco. Tommy Lee Jones è bravissimo e ha fatto un ottimo lavoro. Come anche Alec Baldwin [nei panni di Robicheaux in Omicidio a New Orleans]. Credo di essere molto fortunato, dal mio lavoro sono stati tratti tre diversi adattamenti, con attori e registi molto in gamba, non potrei pretendere di meglio.
Ti ha influenzato più il cinema o la letteratura?
Le mie influenze sono tutte letterarie. I miei ispiratori primari sono William Faulkner, Flannery O’Connor, Eudora Welty, James T. Farrell, Ernest Hemingway, Tennessee Williams, i poeti gesuiti… santo cielo, ora mi sfuggono… ecco, Gerard Manley Hopkins mi ha influenzato profondamente. Di certo sul piano stilistico sono stato influenzato da Scott Fitzgerald. Gli scrittori Usa oggi hanno un vantaggio enorme perché la letteratura mondiale negli ultimi cento anni è stata influenzata da alcuni dei migliori scrittori del mondo, tutti americani. Prendiamo la nascita del jazz, per esempio. Abbiamo vissuto una specie di Rinascimento iniziato alla fine del XIX secolo e proseguito fin quasi ai giorni nostri, con la nascita di fantastici autori. È un vantaggio enorme per uno scrittore americano giovane.
Quant’è importante la musica sudista per la tua scrittura? Pensi che i tuoi libri possano essere etichettati come “blues-noir”?
La musica è importantissima nei miei libri perché è parte integrante della tradizione orale del Sud degli Stati Uniti. E la storia del Sud degli Stati Uniti, in fondo, è la storia degli Stati Uniti. Tutto quello che è successo al Sud è successo anche al Nord e all’Ovest, solo che nel Sud è più recente. Prendiamo la schiavitù. Nel XVII secolo, al Nord, il più grande mercato degli schiavi di tutti gli Stati Uniti era sulle rive del fiume Hudson, a New York. Ma, per uno scrittore che abiti nel Sud, molti di quegli eventi sono molto più vicini in termini di tempo e lo scrittore riesce tuttora a vederne lo svolgimento. La musica fa parte di quella tradizione orale, della storia che viene tramandata.
Prima che l’uragano arrivi e L’urlo del vento raccontano la devastazione dell’uragano Katrina. Che impatto emotivo ha avuto su di te quella catastrofe?Ciò che è accaduto a New Orleans rappresenta il più grande scandalo della storia politica americana. Si è trattato di un crimine e non semplicemente di una catastrofe naturale. Io la vedo così, anche se non tutti sono d’accordo. Ho raccontato le vicende di Katrina attraverso gli occhi di un prete, un vero prete che è morto per essersi rifiutato di abbandonare i suoi parrocchiani, gente poverissima che in buona parte non possedeva automezzi ed è rimasta intrappolata nelle loro case. Lui è morto con loro e il suo corpo non è mai stato ritrovato. La storia di quest’uomo è la trave portante del mio romanzo, che ritengo uno dei migliori che io abbia scritto. Credo che gli eventi accaduti a New Orleans indichino indifferenza e abbandono nei confronti dei poveri e derelitti. Non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse verificarsi nei confini degli Stati Uniti e invece è successo.
<em> Il prezzo della vergogna parla di un petroliere texano senza scrupoli che decide di stuprare l’ambiente naturale del Montana per fare altri soldi, d’accordo con predicatori religiosi. E’ un’idea che proviene da otto anni di amministrazione Bush e di incuria ambientale, o è solo frutto della tua immaginazione?
Provate a pensare al signore che è stato alla Casa Bianca, un uomo di enorme potere che abbiamo visto un sacco per otto anni, e poi date un’occhiata alla sua faccia e ditemi se è un personaggio immaginario! Sembra uscito dalla Central Casting, l’agenzia di casting specializzata in controfigure e sosia. Credo di averlo rappresentato in maniera fin troppo gentile. Appartiene alla categoria di persone il cui strumento principe è la mazza da baseball.
Visto che in America avete avuto altri presidenti-attori, pensi che in un certo senso Ronald Reagan, di cui parli in un paio di romanzi, abbia lasciato un’eredità spirituale raccolta dai Bush?
Non so cosa dire riguardo a Bush padre, ma ecco come penso sia andata. Credo che Reagan abbia rappresentato una sorta di prototipo per Bush. In un certo senso, gli USA si sono trovati a ripercorrere le orme colonialiste di Francia e Gran Bretagna e si è trattato di un tragico errore. L’epoca di Reagan è stata caratterizzata da un enorme trasferimento di ricchezza. Anzi, il paese è stato realmente ridotto sul lastrico da Reagan e altri politici a lui fedeli. Reagan era un attore mandato al potere da grandi gruppi economici che gli dicevano cosa dire. Le sue parole a molta gente risultavano davvero convincenti. Ha avviato il processo che alcuni definiscono “l’appropriazione indebita del cristianesimo” ed è proprio questo il tema centrale de Il prezzo della vergogna. Il problema principale della nostra epoca, che è tale dal 1914, è rappresentato dall’energia, dalle risorse naturali: finché non ce ne rendiamo conto, continueranno a esserci guerre in tutto il terzo mondo che ci dissangueranno del tutto. Reagan e la sua cricca hanno capito che la leva migliore per guadagnare voti era la religione e così l’hanno sfruttata ottimamente, anche se con risultati non paragonabili a quelli ottenuti da George W. e dalla sua cricca, che si sono appropriati del Cristianesimo riuscendo a convincere milioni di membri della classe operaia a votare contro i propri stessi interessi. Abbiamo così assistito a un periodo di lotta al sindacato, salari volutamente bassi, sfruttamento di forza lavoro del terzo mondo e immigrazione clandestina sotto George Bush. La camera di commercio degli USA è stata il motore di questo processo. Tutte cose perpetrate sotto il vessillo apparente del Cristianesimo. Alla fine però le compagnie petrolifere sono riuscite a piazzare un loro uomo alla Casa Bianca, per quanto le elezioni del 2000 siano state un furto, con l’acquisizione indebita della Florida. Da che mondo è mondo, in America i grandi gruppi di interesse si sono scontrati coi governi e hanno cercato di destabilizzarli, poi si sono accorti che il modo migliore per gestire il problema rappresentato dal governo era di assumerne il comando, e l’hanno fatto in nome del Cristianesimo. Sono convinto che si tratti di veri e propri criminali, con le mani sporche di sangue. Sono cattive persone. Ma è solo l’opinione di un singolo. Comunque, ora non sono più al potere. Ce ne siamo liberati. Abbiamo eletto un uomo di colore, dimostrando così al mondo intero che il nostro è ancora il paese di Thomas Jefferson.
Nei tuoi romanzi nettamente sociali, c’è anche un elemento forte di spiritualità: presenze angeliche, intrusioni del soprannaturale, un parlare con i morti... C’è una spiritualità (anche nelle esperienze dell’Anonima Alcoolisti) che costella la vita di Robicheaux, una religiosità spontanea, non organizzata...
Ne sono convinto. Personalmente, penso che esista un mondo spirituale che si nasconde dietro quello materiale. Credo che il mondo invisibile sia esattamente sotto quello visibile. Credo che i morti siano ancora con noi. Sono convinto che il tempo non sia sequenziale. Credo che futuro, presente e passato siano un’entità sola. Credo che nulla di ciò che consideriamo come vera realtà sia affatto una realtà.
(copyright Rock Reynolds e Beppe Sebaste, uscita su l'Unità del 1 ottobre 2009)
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9/27/2009
Il nudo, il velo, il burka
A Pieve di Soligo (Treviso) una donna ha denunciato un’altra donna perché, tra gli espositori del supermercato, girava col carrello indossando un burka, spaventandola. Posso capire (faccio parte della generazione che ha visto in tv Belfagor, “il fantasma del Louvre”). Ma lo stesso direttore del supermercato ha detto giustamente che la sua cliente in burka ha tutto il diritto di fare la spesa vestita come le pare. Ora, il tema “supermercato” è molto ghiotto: da Lost in a supermarket dei Clash agli zombi di Romero, sono metafore delle nostre vite svilite come merci tra le merci. Mi interessa però lo scandalo dell’abito. Andrea Inglese, sul sito nazioneindiana, commentando analoghe notizie – nudiste bandite da una spiaggia qui, donne completamente vestite bandite da una piscina là - ha scritto che Luis Bunuel, se rifacesse oggi il film Il fantasma della libertà, lo chiamerebbe Il fantasma della nudità. Ogni deviazione dalla norma (quale?) è suscettibile di persecuzione e divieti. Mentre scrivo questa nota sono ospite della rassegna “Torino Spiritualità”, quest’anno dedicata al tema del “dis-inganno”, della menzogna, dell’apparenza. Dunque, della nudità (e del velo che ne fa indissolubilmente parte). Il tema è in effetti filosoficamente interessante: si è più nudi (nude) e veri col burka o in topless? E perché poi sono sempre le donne a essere illegali?
"The time is out of joint", fece esclamare Shakespeare ad Amleto. Formula attuale, insegna il filosofo Jacques Derrida. “Il tempo è fuori asse”, si traduce di solito, o “fuori squadra”, o “sconnesso”. Philip K. Dick, il grande autore di fantascienza, scrisse nel 1959 un romanzo dal titolo Time out of joint, ottimamente tradotto da Sellerio Tempo fuori luogo. Narra l’oscuro, crescente disagio del percepire qualcosa fuori posto nell’ordine delle cose (il “perturbante” di Freud), in una città di provincia universale. Il metodo (letterario) di Dick era: “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Che sia diventata oggi, disperatamente, un’indicazione politica?
(uscito su l'Unità di domenica 27 settembre, rubrica "acchiappafantasmi")
"The time is out of joint", fece esclamare Shakespeare ad Amleto. Formula attuale, insegna il filosofo Jacques Derrida. “Il tempo è fuori asse”, si traduce di solito, o “fuori squadra”, o “sconnesso”. Philip K. Dick, il grande autore di fantascienza, scrisse nel 1959 un romanzo dal titolo Time out of joint, ottimamente tradotto da Sellerio Tempo fuori luogo. Narra l’oscuro, crescente disagio del percepire qualcosa fuori posto nell’ordine delle cose (il “perturbante” di Freud), in una città di provincia universale. Il metodo (letterario) di Dick era: “se la realtà è un gigantesco complotto, la paranoia è il modo migliore per raggiungere la verità”. Che sia diventata oggi, disperatamente, un’indicazione politica?
(uscito su l'Unità di domenica 27 settembre, rubrica "acchiappafantasmi")
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9/25/2009
Ogni cosa è sempre qualcos'altro
Roma, ore 10 del mattino, c'è l'arrotino nei paraggi di cui mi arriva la voce un po' straziante - "Arrotinooo!" - nella luce trattenuta dell'autunno. Il cielo è azzurro, il sole c'è, ma c'è qualcosa. D'altro. Anche la tenerezza è sempre anche qualcos'altro.
C'è che gli ultimi giorni d'estate forse li ho vissuti la settimana scorsa a Lucera, provincia di Foggia che non c'entra nulla però con Foggia - Lucera è un paese bellissimo, antico e spazioso, luminoso. Ero lì al Festival della letteratura mediterranea, e ho parlato con l'amica Lidia Ravera in una piazza affettuosamente gremita. Tra parentesi, a Lucera era di casa Massimo Troisi ("Le vie del cielo sono finite", titolo che in questo momento mi intriga e intimidisce, è stato girato lì). In cuor mio saluto e ringrazio le bellissime persone di Lucera che mi hanno, ci hanno, ospitato. Ero andato dubbioso, e si è rivelato qualcos'altro da quello che accidiosamente mi aspettavo. E poi, il cielo di Puglia, la campagna assolata.
C'è da ieri su nazioneindiana questo bellissimo testo (dire recensione è sminuirlo) di Chiara Valerio, di cui rubo il titolo per questo post: "Ogni cosa è sempre qualcos'altro". E' dedicato al mio ultimo libro, Oggetti smarriti e altre apparizioni. E' scritto con uno sguardo acuto e partecipe che mi commuove. Come anche alcuni dei commenti.
C'è che tra un po' dovrò decidermi a uscire di casa e andare a prendere un aereo per Torino, dove sono ospite del festival "Torino Spiritualità" - si chiama così - e parlerò stasera con il reverendo e maestro Zen Fausto Taiten Guareschi e il filosofo laico, anzi forse laicista, Giulio Giorello. Titolo: "Vivere senza menzogna". Manco a dirlo, non ho preparato nulla. Si parlera comunque di religione, meglio, di religiosità. Del sacro. Che magari è qualcos'altro.
Forse questo post lo continuerò a Torino, magari nel pomeriggio, nella notte, e ci sarà così un décalage temporale, uno scarto orario; ma si sa, ogni cosa è sempre qualcos'altro. E io questa volta ho voglia di un post intimo, non lo faccio da secoli.
Ore 18, sono a Torino già da qualche ora, in un delizioso albergo che dà su un giardino silenzioso. Il cielo è chiaro, quasi bianco. le sere di inizio autunno hanno per me come una patina sottile di ansia, e io la sento tutta...
Notte, Torino. Mi sono divertito molto, nella sala grande del Circolo dei lettori. "Spiritualità" variamente declinata, fino a "spettralità". Dal Geist al Ghost, passando per il guest (il fantasma è sempre l'ospite; o il profugo, o l'altro, o "Dio" o l'immacolata concezione). Ogni cosa è sempe qualcos'altro. Piacere di avere incontrato Valentina, dopo anni, che vive qui. Resto a Torino a lavorare, a scrivere, in questo bellissimo albergo di una gran bella città.
C'è che gli ultimi giorni d'estate forse li ho vissuti la settimana scorsa a Lucera, provincia di Foggia che non c'entra nulla però con Foggia - Lucera è un paese bellissimo, antico e spazioso, luminoso. Ero lì al Festival della letteratura mediterranea, e ho parlato con l'amica Lidia Ravera in una piazza affettuosamente gremita. Tra parentesi, a Lucera era di casa Massimo Troisi ("Le vie del cielo sono finite", titolo che in questo momento mi intriga e intimidisce, è stato girato lì). In cuor mio saluto e ringrazio le bellissime persone di Lucera che mi hanno, ci hanno, ospitato. Ero andato dubbioso, e si è rivelato qualcos'altro da quello che accidiosamente mi aspettavo. E poi, il cielo di Puglia, la campagna assolata.
C'è da ieri su nazioneindiana questo bellissimo testo (dire recensione è sminuirlo) di Chiara Valerio, di cui rubo il titolo per questo post: "Ogni cosa è sempre qualcos'altro". E' dedicato al mio ultimo libro, Oggetti smarriti e altre apparizioni. E' scritto con uno sguardo acuto e partecipe che mi commuove. Come anche alcuni dei commenti.
C'è che tra un po' dovrò decidermi a uscire di casa e andare a prendere un aereo per Torino, dove sono ospite del festival "Torino Spiritualità" - si chiama così - e parlerò stasera con il reverendo e maestro Zen Fausto Taiten Guareschi e il filosofo laico, anzi forse laicista, Giulio Giorello. Titolo: "Vivere senza menzogna". Manco a dirlo, non ho preparato nulla. Si parlera comunque di religione, meglio, di religiosità. Del sacro. Che magari è qualcos'altro.
Forse questo post lo continuerò a Torino, magari nel pomeriggio, nella notte, e ci sarà così un décalage temporale, uno scarto orario; ma si sa, ogni cosa è sempre qualcos'altro. E io questa volta ho voglia di un post intimo, non lo faccio da secoli.
Ore 18, sono a Torino già da qualche ora, in un delizioso albergo che dà su un giardino silenzioso. Il cielo è chiaro, quasi bianco. le sere di inizio autunno hanno per me come una patina sottile di ansia, e io la sento tutta...
Notte, Torino. Mi sono divertito molto, nella sala grande del Circolo dei lettori. "Spiritualità" variamente declinata, fino a "spettralità". Dal Geist al Ghost, passando per il guest (il fantasma è sempre l'ospite; o il profugo, o l'altro, o "Dio" o l'immacolata concezione). Ogni cosa è sempe qualcos'altro. Piacere di avere incontrato Valentina, dopo anni, che vive qui. Resto a Torino a lavorare, a scrivere, in questo bellissimo albergo di una gran bella città.
9/20/2009
Il re è nudo (elogio della diffamazione)
Anche se il tema mi sembrava ormai agli sgoccioli, se non addirittura demodé, la grottesca querela a l’Unità e Repubblica da parte del nostro Premier mi fa tornare in mente quello che scrissi l’estate di un anno fa sul lodo Alfano, che rende Silvio Berlusconi come un sovrano assoluto (ab-soluto, cioè assolto dall’obbligo di sottomettersi alle Leggi), godendo di un’immunità e impunità pressocché totali. Per alleviare un po’ l’enorme disparità giuridica nei confronti dei comuni cittadini, proponevo di conferire anche a noi sudditi una piccola porzione di immunità, un’impunità reciproca. Se il Premier è per definizione immune e sottratto al giudizio della Legge, non più oggetto di azioni civili e penali, che Egli non sia nemmeno più soggetto di azioni civili e penali. Che non sia più, durante l’effetto del lodo Alfano, soggetto giuridico: che non possa cioè denunciare, diffidare, criminalizzare, né intraprendere alcuna azione legale nei confronti dei suoi sudditi. Che ognuno di noi, milioni di Italiani, possa dire quello che vuole al Suo indirizzo impunemente, senza timore di infrangere la legge sotto il profilo dell’ingiuria o della “diffamazione” - definizione giuridica che comprende il giudizio anche sommario o l’epiteto colorito - per esempio l'ormai storico “buffone” o "puffone", “imbroglione”, oltre naturalmente a "puttaniere", cosa che avviene comunque in ogni bar e taxi). Che il Re, come un vero sovrano, possa essere deriso dal Buffone senza che incomba su quest’ultimo la minaccia dell’impiccagione. Che sia possibile diventare anche noi sudditi, per un pizzico, irresponsabili. (Naturalmente, scrivevo, i cittadini-sudditi non si limiteranno allo sberleffo, ma estenderanno la loro facoltà all’inchiesta, all’intercettazione, al giudizio etico e morale - questo sì, imperscrittibile - e, naturalmente, politico – poiché tutto è politica per un sovrano, anche la vita privata).
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9/16/2009
Il 1989, le creature del buio e l'happy hour (o la fine del comunismo)
Uno dice 1989, e pensa alla caduta del Muro di Berlino, fisica e simbolica, e alla propagazione di quell’onda nell’Europa dell’Est, fino alla clamorosa insurrezione in Romania a fine anno, con l’uccisione da parte del popolo del dittatore Ceausescu. E, due anni dopo, la fine dell’Urss. Pensa alla svolta detta della Bolognina, con Achille Occhetto segretario del Pci che annuncia la soppressione della parola “comunista”, col travaglio psicopolitico che l’accompagna (il film Palombella rossa di Nanni Moretti è di quell’anno). Del 1989 ricordo soprattutto, perché fu soffocato con eccidi il giorno del mio compleanno (e il 30° non lo si dimentica) la rivolta degli studenti in piazza Tiananmen a Pechino, immensa e perturbante come un quadro di De Chirico, dove militari venuti come alieni da lontane regioni della Cina, scelti perché non condividessero neanche una parola con gli insorti, massacrarono gli studenti che chiedevano democrazia. E’ anche l’anno del Nobel per la pace al Dalai Lama Tenzin Gyatso.
Meno scontato è che il crollo del muro di Berlino, e quindi, via via, del “socialismo reale”, radicalizzò la tendenza detta yuppie a valorizzare il lusso, a valorizzare il valore e il mero presente, sancendo un’epoca di conformismo consumistico senza alterità né alternative; un post-moderno nichilista senza speranza, anticipazione di ciò che sarà detto “globalizzazione”: un mondo piatto, orizzontale, monologico, un po’ come un nastro scorrevole di merci e consumi a portata di tutti e ovunque, o come una televisione che non viene mai spenta. Non che io me ne sottrassi, anzi. Disteso sui lettini della lussuosa spiaggia dell’ex villa Agnelli, tra il mare e le cime bianche e rosa delle Apuane, alternavo romanzi e fumetti agli scritti di Benjamin Constant che stavo allora studiando. Ora che ci penso, si discuteva come di una competizione sportiva, ignari di futuri conflitti di interessi, dello scontro tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per l’acquisto di Mondadori, a cui nel frattempo fu venduto il gruppo Espresso.
Quell’anno uscì Batman, con Jack Nicholson nel ruolo del cattivissimo Joker, che in una scena memorabile imbratta e distrugge le opere del museo risparmiando soltanto un quadro di Francis Bacon, considerato horror e quindi complice. E in letteratura dominò le classifiche l’ultimo romanzo tradotto di Stephen King, oggi tra i meno noti: Le creature del buio (il titolo originale, derivato da un filastrocca, è Tommyknocker). Su King avevo ogni possibile pregiudizio: americano, di successo, di genere, da spiaggia, presuntuoso anche nel nome. Come fu che cominciai a leggerlo, a partire da Le streghe di Salem per passare subito, rapito, al capolavoro It e quindi a Tommiknocker. Le creature del buio? Quell’anno feci effettivamente molta vita da spiaggia, visto che mi accingevo ad abitare in Versilia in un’allegra combriccola. Ma c’è un motivo più sottile, uno “spirito del tempo” che mi fece forse inconsciamente cercare, nei romanzi detti horror, una chiave di lettura dello scollamento ideologico e non solo che si stava vivendo. Scollamento che di lì a poco avrebbe travolto l’assetto politico italiano e promosso l’anti-politica nella forma di un “regime” - sia detto in senso tecnico - mediatico-pubblicitario: l’immaginazione al potere (ma in senso opposto allo slogan del ’68).
Creature del buio non è il miglior libro di King. Qui e là è perfino noioso, ma è un ottimo romanzo, con echi di Lovecraft, di Robert Heinlein, de L’invasione degli ultracorpi e di Guerre Stellari (c’è un’astronave millenaria seppellita in un bosco!), e perfino di William Bourroughs. Vi ricorre con ironica insistenza l’aggettivo “postmoderno”, e contiene dotte invettive contro le centrali nucleari e le menzogne di tecnocrati e politici americani, evocando l’incalcolabile disastro di Chernobyl del 1986 (King lo pubblicò nell’87). Scritto durante la disintossicazione dell’autore, certe pagine sul piacere della mutazione degli umani in alieni alludono con evidenza alla deriva e all’astinenza da droghe. Mantiene però l’inconfondibile magia di Stephen King nel racconto corale di un’intera città, in un proliferare iperreale di storie parallele. Descrive il disgregarsi di una comunità, per contagio, e quindi del concetto stesso di comunità. Come non vedere nessi con la fine del “comunismo”, cioè di ogni alterità politica, di un pensiero comunitario, che dal 1989 resterà impensato e inespresso, ovvero un “fantasma”? Se in tutti i romanzi di King la salvezza contro il Male poggia su eroi che, quando non sono bambini o donne maltrattate, sono portatori di handicap, in tutti i casi anni luce dal modello di maschio adulto vincente, qui è un poeta ubriacone che cita John Berryman, soggetto a perdite di coscienza. Solo i pazzi, scrisse William Blake, sanno vedere i contorni.
Oggi mi appare chiarissimo che le categorie dell’horror, nel cinema e nella letteratura, sono le più idonee a raccontare la realtà, e quelle dove più si sperimenta una ricerca estetica e narrativa, ma vent’anni fa no. Forse è così da sempre, dall’Odissea al Macbeth, da Dante a Orwell. Ma nell’89 facevo solo parte, con tanti altri, delle creature del “buio”, che di li a poco si sarebbe euforicamente chiamato happy hour. Ecco, Stephen King insegna che l’horror è nella realtà quotidiana e ordinaria: basta aprire gli occhi, dare senso a dettagli come un volo di palloncini contro vento, o un pezzo di liscia superficie metallica che spunta dal sottobosco.
(uscito su La Stampa del 16 settembre 2009, serie "il libro dell'estate")
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9/13/2009
Come salvare la vita (e la politica)
“La mia vita fu salvata dal rock’n roll”, disse una volta il regista Wim Wenders (e lo scrittore austriaco Peter Handke ripeté una cosa simile). Ma cosa vuol dire "salvata"? E il rock è solo una musica? Un bel film inglese uscito da poco, I love Radiorock, risponde a entrambe le domande.
E’ la storia vera di una radio pirata che nel 1966 trasmetteva 24 ore al giorno musica rock da una nave, anch’essa pirata, al largo della Gran Bretagna. Racconta l’ossessione del governo inglese conservatore di allora di sopprimere a ogni costo quella radio pirata, ascoltata ogni giorno da 25 milioni di persone, più di metà della popolazione britannica, influenzate dalla sua musica entusiasmante: la pura gioia di Sunny Afternoon e All Day dei Kinks, Hang on Sloopy dei Mccoys, di Beach Boys, Who, Jimi Hendrix ecc. (E le immagini della vita quotidiana degli ascoltatori della radio sono belle e compassionevoli come foto di Luigi Ghirri). Un film di sesso droga e rock’n roll che è soprattutto storia di una battaglia culturale, cioè politica, vincente. Il film termina coll’affondamento notturno della nave (mentre suona, ultima canzone, la romantica A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum). E se il primo ministro aveva deciso di lasciare affogare tutta l’equipe di Radio Rock, decine di barche di giovani e fan vennero all’alba a salvarli. Il rock’n roll, canterà più tardi Neil Young, “will never die”. Tutto qui?
Quando sono uscito dal cinema (Roma, Campo de’ Fiori), la fiumana notturna di giovani e meno giovani consumatori senza scopo, la stessa che in altre città, sembrava fatta di morti. Il contrasto tra l’opacità di oggi e la vividezza del film mi è sembrata insopportabile. Pensate: milioni di persone fecero politica per mezzo di una musica condivisa, lottarono per cambiare la propria vita e affermare dei valori. Oggi, mentre si confronta il prossimo “autunno caldo” a quello di quarant’anni fa, quando (1969) gli operai divennero soggetto politico e saldarono le loro lotte a quelle degli studenti, la realtà offre il desolante spettacolo di una frammentazione di proteste individuali e disperate, che implorano dai tetti lo sguardo della tv, ignorando che è proprio quell’occhio di Grande Fratello ad aver estirpato la capacità di essere soggetti, e quindi di lottare. La verità è questa, soprattutto: che nessuna politica è possibile senza una battaglia culturale.
(una versione appena più ridotta su l'Unità, 13 settembre 2009, rubrica acchiappafantasmi), col titolo "Suoniamo la politica")
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9/11/2009
quattuor (passi) fare (2 notturni)
per la belle serie apparsa su nazioneindiana delle poesie-balli a due ideata e curata da Francesco Forlani, detto il Furlàn, scritto effeffe, ultima danza i due notturni, di Monica Mazzitelli e il sottoscritto:
Monica Mazzitelli, Notte fango a Addis Abeba
Scendono strade dalla collina, portano all’occidentale albergo come bolo spinto nel digerente.
Buio e freddo, la macchina inciampa lenta su dossi e fratture. Piogge inondano svergognate.
Luci poche da qualche baracca, fari fendono, fischiano il buio.
Sbattono in faccia bambine e bambini soli per strada come branchi di cani; intenti nel buio su qualcosa: mangiare?
Laceri e stinti come cani nel buio bagnato; soli di notte, lune di notte, il faro dell’ingiusto li abbaglia. Solo bolo da spingere, nel digerente.
Beppe Sebaste, Notte Roma impromptu
“Niente è più intatto di una rovina”, dici attraversando, coi pini marittimi disposti come funghi,
il parco archeologico del tardo capitalismo industriale impiegatizio,
hai fame e caldo, puoi mangiare all’ombra e a Ferragosto pulirti con lo stuzzicadenti e
sdraiato guardare la festa dell’Assunta che dal Tevere prende il mare,
uomini & donne tatuati, guardie di finanza, carabinieri, parroci & Santi, insieme barcollano nelle
barche ubriache e i fuochi non solo d’artificio esplodono fuori tempo
come rutti.
La sera i neon e i karaoke, i fili delle baracche attaccati ai pali della luce. Ci divertiamo molto.
Poi torni a casa e guardi le puttane in viale Marconi. La notte ci si dà da fare
la notte,
eiaculare stanca.
Monica Mazzitelli, Notte fango a Addis Abeba
Scendono strade dalla collina, portano all’occidentale albergo come bolo spinto nel digerente.
Buio e freddo, la macchina inciampa lenta su dossi e fratture. Piogge inondano svergognate.
Luci poche da qualche baracca, fari fendono, fischiano il buio.
Sbattono in faccia bambine e bambini soli per strada come branchi di cani; intenti nel buio su qualcosa: mangiare?
Laceri e stinti come cani nel buio bagnato; soli di notte, lune di notte, il faro dell’ingiusto li abbaglia. Solo bolo da spingere, nel digerente.
Beppe Sebaste, Notte Roma impromptu
“Niente è più intatto di una rovina”, dici attraversando, coi pini marittimi disposti come funghi,
il parco archeologico del tardo capitalismo industriale impiegatizio,
hai fame e caldo, puoi mangiare all’ombra e a Ferragosto pulirti con lo stuzzicadenti e
sdraiato guardare la festa dell’Assunta che dal Tevere prende il mare,
uomini & donne tatuati, guardie di finanza, carabinieri, parroci & Santi, insieme barcollano nelle
barche ubriache e i fuochi non solo d’artificio esplodono fuori tempo
come rutti.
La sera i neon e i karaoke, i fili delle baracche attaccati ai pali della luce. Ci divertiamo molto.
Poi torni a casa e guardi le puttane in viale Marconi. La notte ci si dà da fare
la notte,
eiaculare stanca.
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9/06/2009
Lo chiamavamo regime
Torna alla domenica su l'Unità la rubrica acchiappafantasmi:
“Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. C’è una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti... E’ stata una trasformazione molecolare... Vista dall’estero l’Italia resta solo un esempio da studiare sul declino della democrazia”. Sono alcune delle frasi di Nadia Urbinati (l’Unità, 12/8/2009) che hanno avviato un bel dibattito al femminile. Ma non riguardano, è chiaro, solo le donne. Mi riportano alla memoria un piccolo libro collettivo che uscì in marzo 2002 col titolo Non siamo in vendita. Voci contro il regime (fu anche distribuito con l’Unità). Il mio intervento si chiamava: “Dove comincia il fascismo?”. Faceva seguito un forum che organizzai a Parigi all'Ecole Normale col titolo "Italia: la resistibile caduta della democrazia". Alla sinistra (segretario Fassino) non piacque il libro né l’uso della parola “regime”. Eppure c’era già tutto. Nel libro c’era anche un breve testo di Giorgio Agamben (scritto nel 1994!) che avvertiva della soffocante dittatura mediatica che si sarebbe potuta istaurare sotto l‘egida di Berlusconi, “in cui la sistematica falsificazione della verità, della lingua, e dell’opinione, che ha già largamente corso, diverrebbe assoluta e senza spiragli, e in cui, abolita ogni critica, letteralmente tutto tornerebbe a essere possibile, perfino nuovi campi di concentramento...”.
Circolava già la sensazione di essere tutti, se non clandestini (non era ancora un reato), dei rifugiati politici. Lo so, i politici raramente vedono i germi delle cose e degli eventi. E il criterio pubblicitario-spettacolare, quello del successo, è stato ampiamente introiettato, soppiantando ogni giudizio (il successo si constata, non si giudica, e le idee si sottopongono prima ai sondaggi). Ma ora, pur avendo altri pensieri, e mentre l’Italia mi sembra raccontabile solo da un film horror, riprendo l’invito di Nadia Urbinati: massì, ribelliamoci come in Iran o in Birmania. E smettiamo di parlarne (del regime) come di un soggetto di conversazione da bar.
(uscito su l'Unità di domenica 6 settembre 2009)
“Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. C’è una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti... E’ stata una trasformazione molecolare... Vista dall’estero l’Italia resta solo un esempio da studiare sul declino della democrazia”. Sono alcune delle frasi di Nadia Urbinati (l’Unità, 12/8/2009) che hanno avviato un bel dibattito al femminile. Ma non riguardano, è chiaro, solo le donne. Mi riportano alla memoria un piccolo libro collettivo che uscì in marzo 2002 col titolo Non siamo in vendita. Voci contro il regime (fu anche distribuito con l’Unità). Il mio intervento si chiamava: “Dove comincia il fascismo?”. Faceva seguito un forum che organizzai a Parigi all'Ecole Normale col titolo "Italia: la resistibile caduta della democrazia". Alla sinistra (segretario Fassino) non piacque il libro né l’uso della parola “regime”. Eppure c’era già tutto. Nel libro c’era anche un breve testo di Giorgio Agamben (scritto nel 1994!) che avvertiva della soffocante dittatura mediatica che si sarebbe potuta istaurare sotto l‘egida di Berlusconi, “in cui la sistematica falsificazione della verità, della lingua, e dell’opinione, che ha già largamente corso, diverrebbe assoluta e senza spiragli, e in cui, abolita ogni critica, letteralmente tutto tornerebbe a essere possibile, perfino nuovi campi di concentramento...”.
Circolava già la sensazione di essere tutti, se non clandestini (non era ancora un reato), dei rifugiati politici. Lo so, i politici raramente vedono i germi delle cose e degli eventi. E il criterio pubblicitario-spettacolare, quello del successo, è stato ampiamente introiettato, soppiantando ogni giudizio (il successo si constata, non si giudica, e le idee si sottopongono prima ai sondaggi). Ma ora, pur avendo altri pensieri, e mentre l’Italia mi sembra raccontabile solo da un film horror, riprendo l’invito di Nadia Urbinati: massì, ribelliamoci come in Iran o in Birmania. E smettiamo di parlarne (del regime) come di un soggetto di conversazione da bar.
(uscito su l'Unità di domenica 6 settembre 2009)
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9/04/2009
Francesco Lotoro, il pianista che salva e riporta all'aria la musica sommersa dai lager
(Su Venerdì di Repubblica oggi in edicola la mia intervista a Francesco Lotoro)
Come sarebbe la musica contemporanea senza la scomparsa di gran parte dell’intelligentsia musicale ebraica d'Europa nei lager nazisti? Prima di morire di stenti o nelle camere a gas, molti continuarono a comporre musica, addirittura a suonarla. Sono perdute per sempre le opere composte lì, nell’inferno? Ma soprattutto: davvero è stato possibile fare musica nei campi di concentramento?
La risposta all’ultima domanda è sì. Qualcuno, da vent’anni, dedica la propria vita a salvare quelle musiche sommerse, al limite dell’indecifrabile, come la carta igienica scritta a pentagramma con la carbonella su cui Rudolf Karel, già allievo di Dvorak, scrisse un “Nonet”, partitura per nove strumenti, poco prima di morire di dissenteria. A scovare musica con passione da archeologo, farla evadere dalla damnatio memoriae, interpretarla come filologo e registrarla su disco, cioè “restituirla all’aria, così come deve vivere la musica”, è un pianista e ricercatore di Puglia, Francesco Lotoro.
Ha studiato a Budapest con Kornel Zempleni, si è perfezionato con maestri come Aldo Ciccolini, insegna al Conservatorio di Rodi Garganico, dirige l’Orchestra Musica Judaica ed è responsabile culturale dell’antica sinagoga Scolanova di Trani, da poco ripristinata nello splendido centro sull'Adriatico famoso per la bianca cattedrale. Se il 6 settembre la Giornata Europea della Cultura Ebraica, dedicata alle feste e tradizioni ebraiche, musiche comprese, avrà come città capofila proprio Trani, e nello stesso periodo si svolgerà un Festival della cultura ebraica in tutta la Puglia, forse tra le ragioni della scelta c’è anche l’attività di Francesco Lotoro. Il quale, oltre alla passione musicale, ha contribuito al risveglio dell’identità ebraica in Puglia, che ebbe a Trani una florida e colta comunità dal X secolo alla cacciata degli Ebrei nel 1541. Far rivivere l’ebraismo dimenticato, e salvare ciò che è sepolto o nascosto come ricercatore musicale, hanno per Lotoro molte analogie. Si chiama Enciclopedia della Musica Concentrazionaria (la musica composta nei campi di concentramento tra il 1933 e il 1945), il lavoro di incisione e pubblicazione che sta portando avanti da anni senza sovvenzioni con l’etichetta KZ Musik, e il cui piano dell’opera prevedere 48 volumi-CD. Tutto questo avviene in Puglia, non a New York. Un lavoro paziente e quasi in solitudine.
Come ha avuto inizio la sua ricerca?
Ero a Praga nel 1990/91, e mi colpì la coincidenza della data di morte di tanti compositori, 17 ottobre 1944: Pavel Haas, Viktor Ullmann (entrambi della scuola di Schoenberg) e tanti altri finiti nelle camere a gas. Ma anche morti per altri motivi, come Gideon Klein, Rudolf Karel, Zikmund Schul, Emile Goué... Pensavo di trovare una decina di opere musicali, e oggi la mia ricerca ha inventariato 4000 partiture nate nei campi. Raccolgo e registro opere musicali composte in ogni tipo di lager, anche quelle dei non ebrei, dai politici ai Sinti e ai Rom, dai preti cattolici ai quaccheri, Messe, opere di cabaret e canti di lotta, come la Sinfonia n. 8 di Erwin Schulhoff ispirato al Manifesto del Partito Comunista, vero e proprio Oratorio laico. La fenomenologia musicale concentrazionaria è molto complessa, scritta nelle condizioni più tragiche e sopravvissuta fino a noi in modi desueti da luoghi in cui è tuttora impensabile che sia stato possibile fare musica.
E' infatti sorprendente...
Nei campi di concentramento come Theresienstadt, preambolo a quelli di sterminio, la musica era usata come elemento di distensione e ricreazione, controllata ma assecondata, perfino con la fornitura di strumenti musicali e di carta da musica. Il campo di sterminio è diverso, si arriva per essere eliminati fisicamente dopo una rapida selezione (il cantante Karel Berman si salvò dicendosi operaio). Noi conserviamo traccia di questa musica grazie a un elemento inconsueto, la memoria: melodie nascevano sui treni da Salonicco, perfino nei tragitti che portavano alle camere a gas, e in un modo o nell’altro ci sono pervenute, immagazzinate nella mente dei sopravvissuti o testimoni”.
E' la magia, il potere della testimonianza...
“Sì, e della memoria. A volte le si dà un significato labile, ma nelle persone che ho incontrato ho trovato quasi sempre una memoria limpida. Questo patrimonio fa parte del vissuto musicale, anche senza carta. C’erano musicisti preposti all’intrattenimento musicale degli ufficiali che hanno arrangiato pezzi di Mozart o di Wagner, e ci sono pervenuti. Da Auschwitz e Birkenau ci sono arrivate partiture, altre si sono perse. Anche nei campi di sterminio si compose musica. Zimon Laks, polacco emigrato a Parigi, poi deportato, fece musica in un blocco a Birkenau vedendo la fila di chi andava nelle camere a gas. Perse là tutte le carte, e ricostruì a memoria solo tre “Polonaises” che arrangiò per quartetto d’archi. La cosa drammatica è che anche i sopravvissuti stanno scomparendo, e che quando ho avviato questa ricerca molti non ho potuto incontrarli.
Come si svolge il suo lavoro di ricerca?
“La musica vive nell’aria, se io trovo la carta, non ho trovato tutta la musica. Se trovo un dipinto, una scultura, ho trovato l’opera d’arte. La musica deve passare dalla carta all’aria, e poi ancora alla carta. Occorre decifrare la grafia, spesso al limite della scarabocchio, vedere in uno sgorbio un diesis, leggere i segni grafici della cattività. Ho passato notti a studiarla. Oppure devo andare a trovare il sopravvissuto che vive per esempio a Gerusalemme, dopo averlo faticosamente cercato, perché mi canti al registratore tutto quello che ricorda, poi a casa lo riporto al computer, o alla carta. Io sono un ricercatore, un musicista, ma occorre ora qualcuno che curi un archivio di tutto questo materiale, troppo per le mie risorse”.
“Grazie a Dio funziona il passaparola, la solidarietà, e passa il messaggio che questa musica deve emergere, essere salvata. Penso sempre che, se questa musica non la suoniamo, rimane nel campo di concentramento. Se non possiamo suonarla in un concerto, almeno la registriamo. Faccio un lavoro gigantesco per restituire alla musica la sua normalità”.
Come sarebbe la musica contemporanea senza la scomparsa di gran parte dell’intelligentsia musicale ebraica d'Europa nei lager nazisti? Prima di morire di stenti o nelle camere a gas, molti continuarono a comporre musica, addirittura a suonarla. Sono perdute per sempre le opere composte lì, nell’inferno? Ma soprattutto: davvero è stato possibile fare musica nei campi di concentramento?
La risposta all’ultima domanda è sì. Qualcuno, da vent’anni, dedica la propria vita a salvare quelle musiche sommerse, al limite dell’indecifrabile, come la carta igienica scritta a pentagramma con la carbonella su cui Rudolf Karel, già allievo di Dvorak, scrisse un “Nonet”, partitura per nove strumenti, poco prima di morire di dissenteria. A scovare musica con passione da archeologo, farla evadere dalla damnatio memoriae, interpretarla come filologo e registrarla su disco, cioè “restituirla all’aria, così come deve vivere la musica”, è un pianista e ricercatore di Puglia, Francesco Lotoro.
Ha studiato a Budapest con Kornel Zempleni, si è perfezionato con maestri come Aldo Ciccolini, insegna al Conservatorio di Rodi Garganico, dirige l’Orchestra Musica Judaica ed è responsabile culturale dell’antica sinagoga Scolanova di Trani, da poco ripristinata nello splendido centro sull'Adriatico famoso per la bianca cattedrale. Se il 6 settembre la Giornata Europea della Cultura Ebraica, dedicata alle feste e tradizioni ebraiche, musiche comprese, avrà come città capofila proprio Trani, e nello stesso periodo si svolgerà un Festival della cultura ebraica in tutta la Puglia, forse tra le ragioni della scelta c’è anche l’attività di Francesco Lotoro. Il quale, oltre alla passione musicale, ha contribuito al risveglio dell’identità ebraica in Puglia, che ebbe a Trani una florida e colta comunità dal X secolo alla cacciata degli Ebrei nel 1541. Far rivivere l’ebraismo dimenticato, e salvare ciò che è sepolto o nascosto come ricercatore musicale, hanno per Lotoro molte analogie. Si chiama Enciclopedia della Musica Concentrazionaria (la musica composta nei campi di concentramento tra il 1933 e il 1945), il lavoro di incisione e pubblicazione che sta portando avanti da anni senza sovvenzioni con l’etichetta KZ Musik, e il cui piano dell’opera prevedere 48 volumi-CD. Tutto questo avviene in Puglia, non a New York. Un lavoro paziente e quasi in solitudine.
Come ha avuto inizio la sua ricerca?
Ero a Praga nel 1990/91, e mi colpì la coincidenza della data di morte di tanti compositori, 17 ottobre 1944: Pavel Haas, Viktor Ullmann (entrambi della scuola di Schoenberg) e tanti altri finiti nelle camere a gas. Ma anche morti per altri motivi, come Gideon Klein, Rudolf Karel, Zikmund Schul, Emile Goué... Pensavo di trovare una decina di opere musicali, e oggi la mia ricerca ha inventariato 4000 partiture nate nei campi. Raccolgo e registro opere musicali composte in ogni tipo di lager, anche quelle dei non ebrei, dai politici ai Sinti e ai Rom, dai preti cattolici ai quaccheri, Messe, opere di cabaret e canti di lotta, come la Sinfonia n. 8 di Erwin Schulhoff ispirato al Manifesto del Partito Comunista, vero e proprio Oratorio laico. La fenomenologia musicale concentrazionaria è molto complessa, scritta nelle condizioni più tragiche e sopravvissuta fino a noi in modi desueti da luoghi in cui è tuttora impensabile che sia stato possibile fare musica.
E' infatti sorprendente...
Nei campi di concentramento come Theresienstadt, preambolo a quelli di sterminio, la musica era usata come elemento di distensione e ricreazione, controllata ma assecondata, perfino con la fornitura di strumenti musicali e di carta da musica. Il campo di sterminio è diverso, si arriva per essere eliminati fisicamente dopo una rapida selezione (il cantante Karel Berman si salvò dicendosi operaio). Noi conserviamo traccia di questa musica grazie a un elemento inconsueto, la memoria: melodie nascevano sui treni da Salonicco, perfino nei tragitti che portavano alle camere a gas, e in un modo o nell’altro ci sono pervenute, immagazzinate nella mente dei sopravvissuti o testimoni”.
E' la magia, il potere della testimonianza...
“Sì, e della memoria. A volte le si dà un significato labile, ma nelle persone che ho incontrato ho trovato quasi sempre una memoria limpida. Questo patrimonio fa parte del vissuto musicale, anche senza carta. C’erano musicisti preposti all’intrattenimento musicale degli ufficiali che hanno arrangiato pezzi di Mozart o di Wagner, e ci sono pervenuti. Da Auschwitz e Birkenau ci sono arrivate partiture, altre si sono perse. Anche nei campi di sterminio si compose musica. Zimon Laks, polacco emigrato a Parigi, poi deportato, fece musica in un blocco a Birkenau vedendo la fila di chi andava nelle camere a gas. Perse là tutte le carte, e ricostruì a memoria solo tre “Polonaises” che arrangiò per quartetto d’archi. La cosa drammatica è che anche i sopravvissuti stanno scomparendo, e che quando ho avviato questa ricerca molti non ho potuto incontrarli.
Come si svolge il suo lavoro di ricerca?
“La musica vive nell’aria, se io trovo la carta, non ho trovato tutta la musica. Se trovo un dipinto, una scultura, ho trovato l’opera d’arte. La musica deve passare dalla carta all’aria, e poi ancora alla carta. Occorre decifrare la grafia, spesso al limite della scarabocchio, vedere in uno sgorbio un diesis, leggere i segni grafici della cattività. Ho passato notti a studiarla. Oppure devo andare a trovare il sopravvissuto che vive per esempio a Gerusalemme, dopo averlo faticosamente cercato, perché mi canti al registratore tutto quello che ricorda, poi a casa lo riporto al computer, o alla carta. Io sono un ricercatore, un musicista, ma occorre ora qualcuno che curi un archivio di tutto questo materiale, troppo per le mie risorse”.
“Grazie a Dio funziona il passaparola, la solidarietà, e passa il messaggio che questa musica deve emergere, essere salvata. Penso sempre che, se questa musica non la suoniamo, rimane nel campo di concentramento. Se non possiamo suonarla in un concerto, almeno la registriamo. Faccio un lavoro gigantesco per restituire alla musica la sua normalità”.
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8/27/2009
Sulla fame
(questo - la parola "Fame" - è uscito su l'Unità del 26 agosto- per a serie "Il calendario del popolo", corredato come al solito di illustrazioni)
Nel marzo 2003, mercoledì delle Ceneri, aderii a un digiuno per la pace. Anche se ero solo un turista della fame (la realtà del morire di fame è ben altro), fu un’esperienza mentale e morale. E’ anche così che si scopre l’evidenza che «siamo quello che mangiamo», e che viviamo nell’eccesso di un’opulenza ottusa e aggressiva – come nel bellissimo apocalittico poema di Carlo Bordini (Mangiare), dove «il mondo / si disintegra / negli stomaci / di giganteschi / roditori». Quel giorno lessi il giornale su una panchina del parco, e mi colpirono le parole di un monaco camaldolese sull’Unità: «digiunare significa essere vuoti perché qualcun altro ci riempia». Per il filosofo Emmanuel Lévinas «la fame d’altri risveglia gli uomini dal loro torpore di sazi e dalla loro sufficienza».
A volte quando scrivo dimentico di mangiare, come se vi fosse una disgiunzione tra il cibo e la parola. Feci una ricerca a partire da questa idea di opposizione. Oltre al canto di Ulisse (il XXVI° dell’Inferno), che il deportato Primo Levi baratta ad Auschwitz nella «rabbia quotidiana della fame» contro una zuppa di cavoli e rape (Se questo è un uomo), citavo le lettere di Kafka, oltre al suo racconto del Digiunatore; pagine di Paul Auster e frasi del filosofo Gilles Deleuze, soprattutto sul libro di Louis Wolfson (ora in Critica e clinica), l’incredibile diario di uno studente di lingue schizofrenico e bulimico, e insieme trattato sull’alchimia psicotica di parole e cibo, la loro integrazione e traducibilità; e perfino Alice di Lewis Carroll: «il burro non serve per i movimenti». Ma quel giorno, mentre mi girava la testa dalla fame, quest’idea mi sembrò troppo astratta. Pensai invece ai mangiatori di arance in Conversazione in Sicilia, la loro dignità, perché il genere umano è più umano nella fame, scrive Elio Vittorini. Pensai agli affamati del Pataffio di Luigi Malerba, e a quel povero cristo affamato di comparsa, nella Ricotta di Pasolini, a interpretare Barabba di fianco a un Gesù bello e biondo in un film sulla Passione, che muore in croce di indigestione, un rutto in vece di ultimo respiro, dopo aver divorato una ricotta. Pensai alla fame come disincanto e risveglio: politico. In un celebre seminario, Lévinas parlò dell’incantesimo che Don Chisciotte subisce nel cap. XLVI: sapere di essere vittima di un sortilegio, dice Don Chisciotte, «basta alla tranquillità della mia coscienza», ma mi sentirei vile «a stare in questa gabbia defraudando del mio soccorso i tanti bisognosi». Non c’è sordità, aggiunge Lévinas, che permetta di sottrarsi alla voce degli afflitti e dei bisognosi, voce che è il disincanto stesso, se il suo agente è «l’umiltà della fame». Ecco come la privazione per eccellenza è porta alla responsabilità per l’altro uomo; come la fame, che è quasi morte, sia un “di più” di vita. Ed ecco, ricordo, perché un digiuno contro la guerra, per la pace.
Nel marzo 2003, mercoledì delle Ceneri, aderii a un digiuno per la pace. Anche se ero solo un turista della fame (la realtà del morire di fame è ben altro), fu un’esperienza mentale e morale. E’ anche così che si scopre l’evidenza che «siamo quello che mangiamo», e che viviamo nell’eccesso di un’opulenza ottusa e aggressiva – come nel bellissimo apocalittico poema di Carlo Bordini (Mangiare), dove «il mondo / si disintegra / negli stomaci / di giganteschi / roditori». Quel giorno lessi il giornale su una panchina del parco, e mi colpirono le parole di un monaco camaldolese sull’Unità: «digiunare significa essere vuoti perché qualcun altro ci riempia». Per il filosofo Emmanuel Lévinas «la fame d’altri risveglia gli uomini dal loro torpore di sazi e dalla loro sufficienza».
A volte quando scrivo dimentico di mangiare, come se vi fosse una disgiunzione tra il cibo e la parola. Feci una ricerca a partire da questa idea di opposizione. Oltre al canto di Ulisse (il XXVI° dell’Inferno), che il deportato Primo Levi baratta ad Auschwitz nella «rabbia quotidiana della fame» contro una zuppa di cavoli e rape (Se questo è un uomo), citavo le lettere di Kafka, oltre al suo racconto del Digiunatore; pagine di Paul Auster e frasi del filosofo Gilles Deleuze, soprattutto sul libro di Louis Wolfson (ora in Critica e clinica), l’incredibile diario di uno studente di lingue schizofrenico e bulimico, e insieme trattato sull’alchimia psicotica di parole e cibo, la loro integrazione e traducibilità; e perfino Alice di Lewis Carroll: «il burro non serve per i movimenti». Ma quel giorno, mentre mi girava la testa dalla fame, quest’idea mi sembrò troppo astratta. Pensai invece ai mangiatori di arance in Conversazione in Sicilia, la loro dignità, perché il genere umano è più umano nella fame, scrive Elio Vittorini. Pensai agli affamati del Pataffio di Luigi Malerba, e a quel povero cristo affamato di comparsa, nella Ricotta di Pasolini, a interpretare Barabba di fianco a un Gesù bello e biondo in un film sulla Passione, che muore in croce di indigestione, un rutto in vece di ultimo respiro, dopo aver divorato una ricotta. Pensai alla fame come disincanto e risveglio: politico. In un celebre seminario, Lévinas parlò dell’incantesimo che Don Chisciotte subisce nel cap. XLVI: sapere di essere vittima di un sortilegio, dice Don Chisciotte, «basta alla tranquillità della mia coscienza», ma mi sentirei vile «a stare in questa gabbia defraudando del mio soccorso i tanti bisognosi». Non c’è sordità, aggiunge Lévinas, che permetta di sottrarsi alla voce degli afflitti e dei bisognosi, voce che è il disincanto stesso, se il suo agente è «l’umiltà della fame». Ecco come la privazione per eccellenza è porta alla responsabilità per l’altro uomo; come la fame, che è quasi morte, sia un “di più” di vita. Ed ecco, ricordo, perché un digiuno contro la guerra, per la pace.
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