2/16/2013

Propaganda


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Propaganda 
(quello che segue è il testo che ho scritto per la mostra di Carlo Miccio che si inaugura il prossimo giovedì 21 marzo a Roma, come riportato nell'immagine a fianco)

   Quando mi sono trovato per la prima volta in una sala coi muri ricoperti dai manifesti di “propaganda” di Carlo Miccio, dopo pochi istanti ho sorriso, sentendomi piacevolmente galleggiare in una strana dimensione: quella di una macchina del tempo che mi avesse trasportato in un mondo parallelo. Forse è proprio così l’utopia, ho pensato, un luogo cioè in cui si perviene con un duplice viaggio, uno spostamento simile alla mossa del cavallo negli scacchi: all’indietro nel tempo – quello lineare, di questo mondo – e un salto laterale in un altro mondo, uno dei tanti possibili, spesso desiderabili, fra quelli dell’infinita pluralità dei mondi.
   E’ un mondo che trasforma le contraddizioni in sinonimi, per questo provoca beatitudine, costituito fin dalla radice di ossimori e di rovesciamenti: la propaganda è al servizio della bellezza, per esempio, e non il contrario. Un mondo a volte out of joint, fuori asse, nel senso non tanto di Shakespeare ma di Philip K. Dick, cioè letteralmente de-siderante, fuori dalle stelle (de-sidera), ma dove “se accendono le stelle / vuol dire che qualcuno ne ha bisogno”. Un mondo in cui l’immaginazione, se Dio vuole, non è “al potere” (non c’è nessun regime di pubblicitari), ma è pura potenza, e concilia la vita coi sogni. Un mondo dove il comunismo non sacrifica né bellezza né poesia, dove forza e lavoro sono valori senza guerra né omofobia; un mondo in cui nessuna generazione “ha dissipato i suoi poeti”, in cui nessuno ha suicidato Majakovskij.
   Ora, fare una poetica e un’estetica della propaganda è da subito un paradosso, anche se il connubio dell’arte che si fa propaganda, o la propaganda che si fa arte, è in realtà molto antico. Ma è nel Novecento, con le sue guerre e i suoi futurismi, che il rapporto si fa più stretto e conflittuale, mentre nuovi esperti di ciò che si chiamerà “comunicazione”, come Walter Lippmann nel ‘22 o Edward Bernays nel ’23, codificano la propaganda come tecnica di persuasione, anzi manipolazione della coscienza. Democrazia, spiega Bernays, significa che la nostra coscienza e percezione sono governate da altri, e “le nostre menti vengono modellate” (figuriamoci la dittatura). La propaganda crea la realtà.
   Che la macchina del tempo e dei mondi possibili decolli allora tra futurismo e nuovo realismo, e la grafica sovietica, con un tocco di Malevic, incontri i muri del ’68 francese e le risate e i risotti del ’77 bolognese (così anche la nostra generazione non avrà miracolosamente dissipato alcun poeta). Che la propaganda non propaghi altro che humour, rivolta, passioni, la fecondità del dubbio e l’innamoramento; e soprattutto la felicità – per propagandare la quale non può che essere essa stessa felice.

2/14/2013

"L'inferno sta salendo a voi"




“L’inferno sta salendo da voi…”
(Un’intervista a Furio Colombo sulla sua ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, trent’anni dopo - l’Unità, 1 novembre 2005 - e che rileggo e pubblico qui sette anni dopo che avergliela fatta)


   Nell’emozionante collage di testi di Pier Paolo Pasolini portato in scena da Fabrizio Gifuni (‘Na specie de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci), alcune delle frasi cruciali provengono dall’ultima intervista rilasciata dal poeta a Furio Colombo l’1 novembre 1975, ovvero l’ultimo giorno di vita di Pasolini. E’ un’intervista dura e intensa, con frasi che suonano inevitabilmente testamentarie. Non è l’unica ragione per cui ho proposto a Furio Colombo di commentare l’unanime, forse troppo unanime commemorazione di Pier Paolo Pasolini a trent’anni dal suo assassinio. Furio Colombo ha rappresentato in questi anni una evidente “scomodità”, condivisa del resto col giornale da lui diretto fino a qualche mese fa (un giornale di Cassandre, come ha detto qualcuno).
   Parliamo della plurinvocata “mancanza” di Pasolini oggi, che dovrebbe presupporre una diagnosi severa sulla distorsione della nostra democrazia. Perché così tanti, anche quelli pienamente organici alla “società dei consumi” (che Pasolini chiamava barbarie), e alla sua espressione ultima (il berlusconismo, diciamo pure) scrivono che “manca” Pasolini? Cosa c’è dietro questo coro?
   “Se dovessi rispondere con una scena, ne illuminerei tre. La prima scena è questa: l’assenza o mancanza di Pasolini è quella illustrata da Nanni Moretti quando, allegro, giovane e disincantato, faceva dire al suo personaggio: “mi si noterà di più se vado o se non vado?” Ovvero, mi si noterà di più se sono presente o se sono assente? Egli notava cioè come la realtà si stesse trasformando in puro atto di presenza. In questa scena si invoca quindi la mancanza di una figura che ha occupato un ruolo di grande rilievo nella storia del Paese, così come l’assenza di qualcuno a un party. La sua assenza viene “notata”, ma il vuoto o la mancanza avvertita dai commentatori è superficiale e mondana, è un’assenza sociale. Sulla seconda scena di questa”mancanza”, come dici tu invocata, compare invece l‘intellettuale importante, l’autore di successo, con la sua valigia di valori originali, con quelle caratteristiche immortalate da Giorgio Gaber: non è di destra e non è di sinistra. Qualcuno che crede in un mondo fondato da lui stesso, da cui può uscire e andarsene in vacanza. Se sulla prima scena c’era un’assenza sociale, qui si tratta di un’assenza culturale. Ma Pasolini non si concedeva mai vacanze, e anzi aveva una tendenza e una concezione dell’impegno che oggi, molti, definirebbero ossessiva. La terza scena è occupata da coloro che pensano che farsi notare sia dire sempre la cosa inaspettata, che stupisce. Se sei di sinistra, dire una cosa di destra (il caso contrario è molto raro, d’altronde quelli di destra non hanno molte cose da dire). Per gli altri si tratta di parole che meritano attenzione, e su cui riflettere. Così si sente la “mancanza” per contrasto. Ma Pasolini diceva sì l’inaspettato, ma lo faceva pagando un prezzo molto alto. Un prezzo che lo allontanava un po’ di più da tutti e non lo avvicinava a nessuno. Qui invece si tratta di osservare un rigoroso sistema della moda: ‘io voglio essere quello che dice sempre cose interessanti, anche (o meglio) contro la sua parte’. Ecco come interpreterei la “mancanza” di Pasolini: un triplo vuoto, nel quale si sente all’improvviso e quasi come un capogiro la mancanza del fortissimo senso di responsabilità che Pasolini si portava addosso. Lui che era e viveva fuori dalle strutture della società organizzata e dell’establishment per bene, parlava come se avesse la responsabilità di governare, invece di andare in televisione come se avesse tempo libero da buttare.”
   Anche se molti lo accusavano di nostalgia, la denuncia di Pasolini della “trasformazione (degradazione) antropologica della ‘gente’” era frutto di un’attenzione acuta allo stemperarsi delle differenze, al livellamento di idee e comportamenti, cosa molto attuale. Cosa ne pensi?
   “Nel denunciare lo stemperarsi delle differenze Pasolini era molto più profetico di quanto si credesse e si dicesse, ben oltre quel senso di nostalgia che gli si attribuiva incorniciandolo in una definizione dell’antiquato, di una società arcaica, del paesaggio coi mulini o delle lucciole, ecc. Quella rappresentazione della nostalgia pasoliniana conteneva un’intuizione profetica che sfuggiva anche ai più intelligenti, mai capita a suo tempo nemmeno da noi che eravamo nel Gruppo ’63, che pure lo ritenevamo un maestro anche se lo discutevamo polemicamente in nome di un maggior dinamismo. Ovvero l’aver capito che lo sfaldamento delle intelligenze stava portando non a delle successive trasformazioni e promozioni sociali, ma a quello che è successo: il contadino che non è più niente, l’operaio che non è più niente, il quadro di fabbrica che non è più niente, il dirigente d’azienda che non è più niente, un annullamento generale dove resta soltanto un’unica, barbara e drammatica modalità di identificazione sociale: il povero e il ricco, chi è sopra e chi è sotto. Con in mezzo i cortigiani (quelli che stanno nelle tv), gli avventurieri (per esempio gli immobiliaristi) e tutti gli altri, sottomessi e spaventati, nel lavoro precario. E non trovi più nulla per distinguere una persona da un’altra perché nessuno è nessuno, salvo i ricchissimi. Pasolini ha rimpianto le lucciole prima che le differenze tra l’uomo più ricco e l’uomo più povero nello stesso Paese (stiamo parlando del mondo industriale avanzato) si moltiplicasse all’improvviso per mille volte. Vorrei inserire qui, se me lo permetti, un ricordo personale del tempo in cui, molto giovane, ho lavorato con Adriano Olivetti. Poiché lo assistevo per la questione del personale, nel periodo in cui stavo a Ivrea lui mi chiedeva di raccomandare ai contadini diventati operai di non vendere la loro terra; se necessario era disponibile a fare loro dei prestiti, affinché il contadino diventato operaio restasse anche contadino. In questo caso, nei momenti difficili avrebbe avuto altre risorse. Quando stavo in America e avevo la responsabilità del personale americano di quell’azienda, ricordo questo ammonimento: il più alto in grado di noi non deve guadagnare più di dieci volte dell’ultimo entrato nella fabbrica, altrimenti si perde ogni legame umano. Ecco, se Pasolini era un nostalgico, lo era di questo mondo”.
   Vorrei ragionare con te sul senso di “letteratura civile”, fatta di attenzione alla memoria, di un farsi “parte civile”, cioè testimoniare affinché certi crimini non cadano mai in prescrizione. La “mancanza” di Pasolini è spesso alibi per non riconoscere l’esistenza di altri scrittori civili, altri testimoni oggi attivi…
   “Sì, ma non vorrei che ci avventurassimo in classifiche sulla presenza degli scrittori civili, cosa che apparterrebbe all’effimero televisivo. Nel cinismo e opportunismo che attraversano il presente, incoraggiati dalle convenienze, succedono ancora cose esemplari. Per esempio dare il premio Nobel a Dario Fo, oppure darlo a Harold Pinter. Vuol dire – ed è un’anomalia grandissima e benefica – non solo che esistono i Dario Fo e gli Harold Pinter, ma che c’è chi, lontanissimo dai loro luoghi, se ne accorge e vuole prenderne atto. Pinter è l’unico scrittore di teatro che si sia accorto dei desaparecidos, dei crimini spaventosi del fascismo argentino e cileno, che non vengono messi in alcun conto, né hanno accreditato alcun “libro nero”. Gente che veniva gettata viva da aerei in volo affinché tacessero per sempre, opposizioni che venivano stroncate uccidendo giovani madri e dando i loro bambini in regalo a gerarchi del tempo. Ecco, il fatto che ci siano stati scrittori che di cose del genere si sono fatti testimoni, ci rassicura. Le voci civili non sono mai una folla, ma ci sono sempre. Il fatto che in momenti successivi e non lontani alcuni professori se ne accorgano, le riconoscano e le premiano, ci dice che su questa strada disselciata la civiltà va avanti, e nonostante il cinismo e l’opportunismo, gli indici di gradimento e la forza della pubblicità, cose che contano e che lasciano il segno accadono ancora. Nel nostro stretto panorama Italia, c’è chi ha pagato e continua  a pagare prezzi alti per non rinunciare a rendere testimonianza, benché continui a essere sconveniente e rischioso come nel tempo e nel destino di Pasolini”.
   Analizzando la situazione politica italiana, poi parlando di sé, nella tua intervista disse Pasolini: “Perché dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità? Voglio dirvelo fuori dai denti: io scendo all’inferno e vedo cose che – per ora – non disturbano la vostra pace. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi…” Al che gli chiedesti che cosa sarebbe stato ancora possibile fare per difendersi dall’inferno. Pasolini disse che ci avrebbe riflettuto, e ti promise una risposta per il giorno dopo. Quella notte morì.
   “Io non credo che Pasolini avrebbe risposto con una formula di salvezza. Se c’era una cosa in cui un uomo come lui non avrebbe creduto, se c’era una predicazione da cui si sarebbe astenuto, scartato, se c’era una formula rituale di cui avrebbe avuto orrore, sarebbe stata certamente quella di una formula di salvezza.  Ma questo non significa affatto che Pasolini sarebbe stato un intellettuale del pessimismo e della condanna. Al contrario la sua poesia, la sua scrittura, e anche in parte il suo cinema, erano una predicazione con un alto contenuto non solo di rappresentazione delle cose così come sono, non solo del mettere in guardia, ma anche del dire con fermezza almeno una cosa: ‘questo è il pericolo, ma non è necessario che esso si realizzi in tutta la sua forza, e che noi si assista e si subisca inutili e impotenti’. Abbiamo parlato di molte cose in cui Pasolini credeva. Ecco una cosa in cui non credeva: mettersi sottovento, accettare le cose così come stanno, e poi sperare che l’uno o l’altro di noi in qualche modo se la cavi. Lui immaginava un destino, un’epoca, e un modo in cui quell’epoca può divenire barbara o può invece essere un’altra cosa. La martellante denuncia che nei frammenti di Petrolio diventa molto più esplicita e non più solo indiziaria come negli Scritti corsari, ci dice di un progetto o almeno di un chiaro oggetto verso il quale avremmo dovuto tentare di dirigerci. Qualcosa che ha a che fare con la dignità, con l’integrità e con la capacità di non perdere un doppio prezioso contatto - che lui ci indica continuamente - con noi stessi e con la Storia, con ciò che siamo e che possiamo essere, e con tutti gli altri. Strano caso di artista quello di Pasolini, che non parla mai di una persona sola o di un destino solo, ma parla di tutti. Che non immagina niente per se stesso, ma immagina per una generazione, e poi per un’altra, e un’altra ancora. Ecco, io non so che cosa mi avrebbe detto in quella risposta mancante, ma credo di sapere che quella risposta che manca si sarebbe ambientata in questo percorso, perché corrisponde a tutto il suo scrivere e a tutto il suo vivere”.
(uscita su l'Unità del 1° novembre 2005, prima pagina e pagina 22)