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12/07/2014

Teatro e fantasmi. Per salutare Mario Prosperi e ricordare il Politecnico

Mentre apprendo adesso della scomparsa di Renato Mambor, io sono ancora rimasto al 19 novembre: ero già in India quando è morto Mario Prosperi, uomo di teatro - attore, regista e drammaturgo - intellettuale colto e impegnato. Mi dispiace molto, e mi dispiace immensamente anche per Rossella Or, colla quale Mario ha vissuto un lungo sodalizio nel lavoro e nella vita. 
   Ritrovo, per ricordarlo, un articolo che scrissi su una passeggiata con lui lungo l'itinerario dei teatri fantasma di Roma, i teatri chiusi e scomparsi.  Il fenomeno mediatico del "Valle occupato" doveva ancora esserci, pochi si curavano della fenomenologia della sparizione dei teatri, del fatto che il numero dei morti superasse di gran lunga quello dei vivi. Dove vanno le memorie dei teatri? Pensateci: come si presenta un teatro fantasma, che già al suo nascere è un caravanserraglio di fantasmi?
   Mario Prosperi fu molto abbattuto dallo sfratto, cioè dalla scomparsa, del Teatro Politecnico che lui per anni generosamente aveva gestito e fatto vivere, o sopra-vivere. Al punto che la scomparsa di Mario e la scomparsa del Politecnico nella mia testa quasi adesso si sovrappongono, anche se i suoi ultimi anni sono stati intensissimi di lavoro, di idee, di teatro.
   Quello che segue è l'articolo istigatomi da Mario che uscì l'11 ottobre 2008. Il titolo redazionale fu: "Addio Politecnico, ultimo palcoscenico di un'avanguardia poetica e gioiosa". Per Mario.


   Scrissi anni fa in un racconto: «Avevo dimenticato il Teatro Politecnico, e gli alti, vertiginosi palazzi che ne circondano il cortile d’entrata. Ci andavo tanti anni fa a prendere un’attrice, giovane quasi come me e già orfana di un mondo, l’avanguardia teatrale degli anni '70. Lei recitava ragazza al Beat 72, io volevo essere un poeta beat (...) e forse pensavo a lei quando più tardi dissi questa frase: sei un prato di periferia che è sopravvissuto. Quando imparai che a brillare di più sono le stelle spente. Anche il Politecnico ha l’aria di uno spazio superstite, e dimenticare, oggi, si dice “salvare in memoria”...». L’attrice in questione è Rossella Or, che ha percorso ogni via: il “teatro immagine”, concettuale, quello analitico-esistenziale e il teatro di parola, e da anni va in scena al Politecnico. Lo aprì nel 1974 il coltissimo drammaturgo, regista e attore Mario Prosperi (già sceneggiatore de l’Odissea e l’Eneide televisive), con un testo dal titolo Frantz Fanon psichiatra in Algeria (da un capitolo de I dannati della terra). Ristrutturato negli anni, è nell’elenco dei teatri storici da salvaguardare. Ieri vi sarebbe iniziata una rassegna dal titolo “L’Islam e noi”, patrocinata dal Comune di Roma (primo spettacolo, I fiori del Corano di Marc-Emmanuel Schmidt). Ma la sala di via G. B. Tiepolo (Flaminio) è stata sigillata dall’ufficiale giudiziario dieci giorni fa. Mario Prosperi non può rientrare a recuperare le sue carte. Non scompaiono solo gli insegnanti, le scuole, forse i giornali, ma da anni i teatri. Il loro elenco sul giornale, un tempo, era una pagina. Ora si dà quasi per scontato che il teatro non esista più. Sparito quello “di ricerca”, le “cantine” inventate negli anni Sessanta sull’esempio di Carmelo Bene. Ora, se fare teatro è già in sé avere a che fare coi fantasmi, che ne è di quelli spenti, chiusi e abbandonati?
   Da tempo pensavo di commemorare i teatri scomparsi, i teatri fantasmi, non in cerca d’autore, ma di destino. Ma teatro è anche da sempre simbolo di democrazia, come la piazza. Cosa resta di quella democrazia proliferante, disseminata, dei teatri che hanno fatto il fervore di un' epoca, quegli anni Sessanta e Settanta che non furono di piombo ma di carne? Lo scorso maggio, all’università la Sapienza, un convegno coordinato da Silvia Carandini era dedicato alle “Memorie dalle cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ‘60 e ‘70”, con la partecipazione di testimoni e protagonisti, Mario Prosperi e Rossella Or compresi. Ironia della sorte, il convegno si teneva al glorioso Teatro l’Ateneo (vi venne tra gli altri il Living Theatre), oggi chiuso e spento.
   Oltre al Politecnico, sono chiusi o in procinto di esserlo il teatro di Ostia Lido, il Tordinona, forse il Vittoria. Che si aggiungono a un elenco molto lungo. Eppure, dal Teatro Laboratorio di Carmelo Bene - nel cortile al n. 23 di Piazza San Cosimato, chiuso nel '63 dalla polizia per atti osceni - i teatri ricavati da cantine, cortili e garage furono una sperimentazione vitale di espressioni e linguaggi senza cui non si sarebbero sviluppati la poesia, il cinema, la danza. Personalmente conto tra i primi incanti estetico, sorta di risveglio, l’odore di sandalo emanato dal corpo di un’attrice in scena, che mi rivelò l’evidenza della natura fisica, erotica del teatro.
   È nei piccoli teatri che si percepisce il volto - mi dice Prosperi - «il primo piano degli attori come al cinema, il loro respiro e tremore». Il nostro pellegrinaggio inizia col Beat 72, al civico 72 di via G. B. Belli, di fronte al Visconti Palace. Lo inaugurò nel '66 Carmelo Bene con Nostra Signora dei Turchi, Rossella Or vi debuttò in Pirandello chi? di Memè Perlini nel ‘73. Lo gestivano Simone Carella e Ulisse Benedetti, organizzatori del primo festival di poesia a Roma. Chiuso nel ‘91, ora c’è uno studio di architetti, leggo sotto il citofono. Ricordo i muri bianchi e la moquette rossa. Rossella si ricorda il buio, e nel buio il palcoscenico prospettico e i tre piccoli archi. Lì vicino c’era l’Alberico. «È nato un altro teatro a Roma, è in via Alberico II, prima il locale era un garage, adesso è un luogo doppiamente usabile: al piano terreno una sala grande, sotto, nella buca che serviva per lavorare sotto le automobili, è scavato un altro spazio...». Così, il 30 dicembre 1975, il critico de l’Avanti! salutava il debutto teatrale di Roberto Benigni. Nella “buca”, detta Alberichino, Benigni recitò il monologo Cioni Mario, di Giuseppe Bertolucci. Oggi è un ristorante con musica dal vivo, funky e dance, bancone hitech. Vi vennero lo Squat Theatre di New York con Andy Warhol, Last Love, e tanti protagonisti del teatro d’avanguardia. Frazione del Beat 72, era gestito da Bruno Mazzali e Rosa de Lucia. La chiusura dell’Alberico, ricorda Prosperi, fu voluta scandalosamente nell' 82 dall' allora ministro dello Spettacolo, il democristiano D’Arezzo, per farne lui un banale ristorante. Mazzali e De Lucia aprirono il Trianon, con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, e il gruppo Odradek di Gianfranco Varetto (allievo di Ripellino). Oggi il Trianon è un cinema multisala, come l’Intrastevere – anch’esso un tempo teatro dove Remondi e Caporossi fecero cose importanti. Ma finché è il cinema a soppiantare il teatro, in fondo è una cosa “naturale”, e forse una nèmesi per chi, come Memé Perlini, faceva teatro pensando in realtà al cinema. Siamo ora in via Benzoni 53, una rientranza della strada che costeggia le ferrovie, sotto la Garbatella. Qui c’era La Piramide, aperta da Perlini alla fine degli anni Settanta, chiuso dieci anni dopo. Per un lungo periodo in quell’ex garage non vi fu nulla. Ora è una palestra. E a proposito di nèmesi: pare che lo storico palazzo sul Lungotevere Tor Di Nona, che ospita ora l’Istituto della Provincia per le case popolari, di fronte al Palazzaccio, diventerà un albergo di lusso. È la ragione dell’annunciata chiusura del Teatro Tordinona, sul retro del palazzo, via degli Acquasparta. Chi voglia provare qualche sensazione legata ai vecchi teatri scenda le scale e assapori la qualità del silenzio. Questo luogo appartato, inaugurato da Pirandello, dal '79 è diretto da Renato Giordano. Vi andò in scena Paul Newman. Vide prime mondiali di Tennessee Williams e di Fassbinder. In via Sicilia 57-59, traversa di via Veneto, c’è la palazzina bianca, stile razionalista come la Sapienza (è della stessa epoca), del Teatro delle Arti. Fu qui che il giovane Carmelo Bene presentò il Caligola di Albert Camus nell’ottobre 1959, sotto lo sguardo entusiasta di Anton Giulio Bragaglia, geniale artista che condusse il teatro dagli anni ‘30 (e prima ancora il Teatro degli Indipendenti). Il Teatro delle Arti è stato chiuso negli anni 90, e da allora abbandonato al nulla.
   «Il teatro è un mistero», mi dicono Mario Prosperi e Rossella Or alla fine della passeggiata. «Quando pensi che sia morto rinasce. Riappare e diventa popolare quando la società è a pezzi. Non ha continuità, esiste a sprazzi, come i temporali. Come a Weimar, un paese morto e un teatro che mai fu così vivo. Il teatro è importante nei momenti di crisi. Non ha bisogno di grandi mezzi produttivi come il cinema, è libero, immediato, anarchico, straordinariamente fresco e vicino agli eventi».

1/05/2012

La carne dei fantasmi (un frammento buttato e ritrovato)

Un frammento ritrovato che vi offro e mi offro, così, per festeggiare non so bene cosa... Lo chiamerei "quando eravamo fantasmi", oppure anche "La carne dei fantasmi"

   ... Come lo spazio senza confini del sogno, o del sonno, solo la fusione dei corpi mi alleggeriva la mente, allargava l’orizzonte e mi allagava il cuore. Solo l’abbraccio, il dilatarsi e fuoriuscire del corpo in tutti i suoi umori, la perdita dell’appartenenza fisica – ginocchio, volto, culo, pancia, mani, fica; saliva, sperma, lacrime, sudore, battito del cuore - mi davano respiro, l’affaccio su un oltre che intuivo spazioso e immenso, e a cui anelavo come le foglie alla luce.
   Mi ripugnava scorgere negli altri il loro essere se stessi, il loro penoso discernimento, tanti piccoli punti di vista a oscurare tutto il resto, ognuno un fascio limitato di luce e di ombra, un cono ottico e spirituale. Non sopportavo gli individui, né l’individuo che essi ricordavano ed esigevano in me. Provavo il desiderio di sparire non appena mi rendevo conto con orrore di essere anch’io tutt’uno con me stesso, copia e replica di altri esseri umani singolari e asciutti, distinti, sazi, con un modo personale di guardare al mondo e agli altri, invece di precipitarsi a compiere l’unica cosa auspicabile per annullare un po’ questa condizione - perdersi, confondersi, sbavare, uscire da se stessi e riversarsi fuori - fottersi, fottere, essere fottuti.
   L’orrido punto di vista in cui si riduce una persona era un'espressione, spia di un libero arbitrio, meschinità di scegliere un atteggiamento, segno di una pretenziosa presenza, un esserci parziale, un altro oppure un io. La realtà: un metaforico masticare di chewingum, uno sguardo pensoso oppure ebete, una parola detta o un’altra, un silenzio mai davvero muto. Il senso di un io presente a se stesso, viltà di un’esclamazione o di un’impassibilità, risata che si spegne o battere di ciglia, mordersi le labbra, volto che si atteggia a volto, avviso di presenza come il fruscio di un pensare, fruscio della serpe tra il muro e la siepe. Una finzione comunque sia, un voler sopravvivere, pensare un pensiero che valuta, misura, soppesa, considera, attende, miserabile avanzare passo dopo passo, esistenza singolare gelosa di sé e del proprio indivisibile conato di esistere, confermare se stessi.
   L’unica uscita, estasi, era così l’abbraccio, quando non era più mio il sesso che zampillava gocce acute e dense di anima e penetrava nella carne rosa e buia nuotando fino allo sfinimento nelle sue tiepide secrezioni, quando quella carne umida non era estranea ma altra, capace di rendere altra la mia stessa carne. Bocche mischiate alle bocche fino a coincidere nel comune sussulto, l’esultare fisico e chimico che come un’esplosione ci disgregava in molecole per proiettarci e ricomporci (puri spiriti?) in un altro Spazio. Perdersi e fondere la propria anima alle altre, l’anima dei corpi, dissolvere l’io in una nebbia, al di là delle forme e dei contorni, universo privo di individualità e libero da peso, gravità, distinzione - una beatitudine vegetale e animale, bestie e piante essendo le sole creature ad avere un’anima anche nella vita terrena. Quando in silenzio, finalmente indistinti come morbide ombre che potevano lambirsi o sovrapporsi, respiravamo lo stesso respiro rosa madreperla: non più ‘lontani da casa’, ma al di là di ogni lontananza e di ogni vicinanza fluttuando finalmente senza storia. (...)

3/01/2011

Il "teatro dei sogni" di Claudio Bonichi - bellezza, rifugio, sovversione

   Domani a Milano in via Appiani 1, presso la galleria Federico Rui Arte Contemporanea si inaugura, col titolo "Il teatro dei sogni", una mostra di Claudio Bonichi.
   Figlio e nipote d’arte (il celebre Scipione della “scuola romana” era suo zio), padre d’artista (la figlia Benedetta, nota per le sue “radiografie” e i suoi tableaux vivants con scheletri), Claudio Bonichi è un grandissimo pittore di origine piemontese che da decenni vive e lavora a Roma - ora nello spazio che fu la Casa della Cultura (che ospitò tra l’altro la salma di Pier Paolo Pasolini nelle sue prime commosse esequie civili). Amo molto il suo studio, il cui silenzio resiste perfino allo sferragliare novecentesco del tram sotto le finestre, e ho con lui una lunga frequentazione. Ho perfino abitato per un breve periodo della mia vita al cospetto di alcune sue tele, quelle più fantasmatiche, della sua preziosa collezione privata. Ma altra cosa è scrivere dei suoi quadri: parto allora dal bianco del foglio (virtuale), che come il bianco della sua tela è, dice Bonichi, “la pagina perfetta”, capace di accogliere ogni idea confusa (tutt’altro che meno degna di un’idea chiara), e che può portare assolutamente ovunque.

   Il mio primo tratto è il brano di un filosofo, non ricordo quale, che ammoniva di non rimproverare ai concetti metafisici (all’utopia?), e neppure a quelle teologici, di non corrispondere alla realtà, ma di criticare piuttosto la realtà, che è inadeguata a quei concetti. Il secondo tratto è un’esperienza recente: mi sono beatamente perso guardando la sua ultima antologica a Cava de’ Tirreni - Il viaggio metafisico di Claudio Bonichi – trovando rifugio nei suoi dipinti, come se potessi entrarci e permanere nella dimensione color nebbia, color ghiaccio e perla, color terra, dei suoi fondi; non come le contemplazioni degli arabeschi sul tappeto nei racconti che sconfinano nel delirio in Poe, o nel metaromanzo in Henry James, ma come ci si rifugia magicamente dentro i quadri, dimensioni vive e parallele, nei romanzi salvifici di Stephen King.
   Dice Claudio Bonichi che quei fondi sono il suo autoritratto, e gli oggetti in primo piano nello spazio, spesso minuscoli, sono i suoi trucchi, giochi, le sue maschere - poetiche e meravigliose contingenze. Non li chiamerei “nature morte” - per quanto con la morte e l’oblìo dialoghino intensamente al modo di un Luciano di Samosata (i suoi Dialoghi coi morti); ma “nudi” di pere, nudi di cocomeri o d’uva, nudi di cenere e foglie d’autunno, nudi di rosa (le strazianti rose recise in un bicchiere), oggetti deperibili quanto i bellissimi corpi di donna, con o senza maschera,di altre sue tele. Tutto muore, ma tutto ciò che è dipinto è salvato.
   Immaginate lo spazio mitico, costruito dalla sapienza delle luci, del set di un fotografo pubblicitario. Claudio Bonichi usa solo disegno e pittura, e nel vuoto luminoso preferisce immortalare una mela marcia che una collana di Cartier. Il grande critico Maurizio Fagiolo dell’Arco osservò che i fondi delle sue tele, che enfatizzano, isolano e quasi inghiottono l’oggetto in primo piano, sono un caso unico nella storia della pittura. La verità è che Bonichi è pittore di fantasmi, spettri nel senso più puro, revenants che tornano senza essere mai stati presenti, ci visitano da un altrove come clandestini. Infine, ultimo tratto di questa breve pagina, il ricordo delle nostre conversazioni politiche, l’orrore che ci ispira da anni la realtà, la sua confessione di visualizzare i personaggi del regime pubblicitario in Italia come esseri mostruosi dalla cui bocca fuoriescono immondi scarafaggi. Le sue tele, la loro bellezza, quei fondi dipinti colmi di luce trattenuta, terre promesse e imperturbabili, madreperlacee, sono una delle critiche più vigorose e sovversive che si possano rivolgere alla nostra realtà indecente.
Claudio Bonichi, olio su tela, 2010

(articolo scritto per l'Unità di mercoledì 2 marzo 2011)

10/05/2010

Il corpo del fantasma ("Spettri di Derrida")

   Sono usciti per gli Annali dell'Accademia del disegno di Valerio Adami gli atti del convegno "Spettri di Derrida" tenutosi a Napoli, Istituto di Studi Filosofici, l'ottobre dello scorso anno. Impossibile pubblicare qui il mio intervento-relazione (oltre 25 pagine), ma un brano iniziale sì, e anche l'ultimo breve paragrafo...
   Il testo ha per titolo "Il corpo del fantasma", ed è un percorso a tappe, una "hantologie", la chiamo, cioè un'antologia di fantasmi, quelli che ritrovo nel mio percorso testuale e di pensiero, letterario o filosofico che sia, ma da sempre e ogni volta anticipato dall'opera di Derrida...
Ecco comunque l'estratto da: Il corpo del fantasma:

[...]
In un’epoca in cui sempre più nettamente e violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura, il suo ingegno e la sua fama una sorta di barriera difensiva - sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello “contro la guerra all’intelligenza” lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso – disse Derrida - “designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia”. Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del “presente vivente” con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes [...].

[...]
  Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che “The time is out of joint” (W. Shakespeare, Amleto I. v.). Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo - dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e “della specie” - si traggono soprattutto oggi le conseguenze. E’ il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli “Stati-fantasma”, come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida:
   “[I]l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto”. Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare, anch’esse “out of joint. Per quanto corrette e legittime, [...] sono tutte disaggiustate”. Fino a quella magniloquente di Gide, “Cette époque est déshonorée”. Altrettante versioni esistono in italiano.
   Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint (senza l’articolo). Interessante è la variante del traduttore italiano (Gianni Pannofino) per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: “Tempo fuori luogo”. Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria (diciamo l’Unheimlich di Freud) del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Ma il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei “mondi possibili”, è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell'homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come “sentirsi” a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, “infestare”, è una delle non tantissime modalità.
   Il “fuori luogo” dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. E' lo spirito (Geist), del tempo. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come quelli sull’ospitalità, appunto, o sul “dono”); l’essere clandestini come condizione ontologica (per di più, oggi in Italia, criminale, poiché “essere clandestini”, oltre a un pleonasma, è un reato). Il fuori luogo è il sempre altrove, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (e forse è per questo che abbiamo bisogno di una home page). E’ una dislocazione (o “delocazione”, come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e con le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla specularità, o spectrum, o speculazione e, da qui, dalla scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il “tempo fuori luogo”, dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, “faticosamente, dolorosamente, tragicamente, [di] un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia”. Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, forse anche leggendo Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un “guest-writer”.
   Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma – revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite. [...]

   [...]
   Accennavo prima a una nuova esperienza dell’abitare, che, mutuata da Derrida, è anche una nuova es   perienza del linguaggio, quella del revenant, testimone, forse homme des lettres. In realtà è un’esperienza molto antica. E’ quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del “parlare con i morti”, su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, “romanzo”, e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita - in différance - in Derrida (per esempio, nel primo straordinario capitolo di Spettri di Marx).
   Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
   Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è “la vita più intensa che sia possibile” (cfr. intervista a le Monde del 19/8/2004).
   Ma penso ora, in particolare, al Canto Undicesimo dell’Odissea. Penso a un testo come Circonfession.
   Parlare con i morti, incontrare fantasmi, è ciò che accomuna l’esercizio della filosofia e della letteratura fin delle origini. Per dirlo in una frase, una frase che compendi in un comune avvenire gli spettri di Derrida e i miei, né Ulisse né Dante, né Amleto, né Shakespare, né Marx, né Jacques Derrida, sarebbero stati capaci di ritornare a casa, se prima non avessero parlato con dei fantasmi. Né Enea, l’eroe della nostalgia irrimediabile e senza ritorno, sarebbe stato capace di reinventarsela. [...]

5/06/2010

Parlando di fantasmi sulla nave

C'è qui un'intervista a me fatta dalla bravissima Alessanda Casella su booksweb.tv, registrata a poppa della nave per Barcellona poco tempo fa. Ho un strano accento napo-parmigiano, sarà la svogliatezza della nave senza tempo e senza luogo, di fronte alla scia lasciata nel mare...
Dice una didascalia ritagliando alcune mie parole: "Ogni personaggio letterario è uno che vuole tornare a casa. E anche gli scrittori scrivono, forse, perché vorrebbero tornare a casa..."

4/11/2010

Il volto che s'offre (etica e fantasma)

“Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa”. Ripenso a questa frase del filosofo Emmanuel Levinas a proposito della nuova Ostensione della Sìndone a Torino, meta di pellegrinaggio. Perché è importante? In un mondo in cui si fanno guerre per non guardarsi in faccia, e si trasformano le singole vite in cifre statistiche o “danni collaterali”; dopo secoli di fisiognomica, ossia tentativi razionali di assoggettamento e annullamento del volto (dell’alterità) dell’altro, la contemplazione dell’impronta di un volto non può che dare speranza.
Si sa, la Sìndone non raffigura Cristo, ma un povero cristo, il lino è medievale, ma che importa: la sua eccezionalità, disse Papa Woytila nel 1998, è nel testimoniare le più intime e private delle impronte, gli umori del dolore (sudore e sangue) che la morte ha fissato sul lino: “icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi”. La Sindone commuove per la sua nudità inerme: volto che soffre, che s’offre. Testimonianza, non reliquia, aggiunse Woytila: “la contemplazione di quel corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e l’egoismo (…), ricorda all’uomo moderno distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita a interrogarsi sul mistero del dolore”.
La Sìndone è una ghost story che ammonisce alla sacralità assoluta del volto del prossimo, dello straniero; che ricorda i volti dei morti e dei dispersi, e l’obbligo dell’accoglienza; fino allo scandalo dei volti velati delle donne, o coperti dal burka, oggi per noi la nudità più inerme, ma inaccettabile. E’ l’archetipo del volto che sfugge all’imposizione poliziesca e razzista dell’identità, e che, agli antipodi del ritratto, è tanto più volto quanto più è sfuocato, frontale, fantasmatico, e soprattutto anonimo [proprio come nelle immagini di volti di morti, sgranate e ingrandite, cui ci ha abituati da anni Christian Boltanski].
Questo della Sìndone ci commuove.

(L'immagine riportata sopra è della mostra di Christian Boltanski Après appena conclusasi a Vitry-sur-Seine, Parigi)

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità dell'11 aprile 2010)

per un approfondimento sul tema del volto, in opposizione al ritratto, cfr., tra l'altro, questo articolo apparso su l'Unità del 27/3/2003)

2/28/2010

Donne, voltità, visioni, anni Settanta, femminismo


Per spiegare cosa sia “poesia”, il linguista Roman Jakobson raccontava l’aneddoto dell’antropologo che soggiornando presso una tribù africana chiese a un indigeno come mai, loro, andassero in giro nudi. “Anche lei è nudo in una parte del corpo”, rispose. “Sì, ma si tratta del volto”, replicò l’uomo bianco. “Beh, in noi tutto è volto”, disse l’indigeno. Ripenso a questa storiella mentre cammino nella sale della mostra “Donna: avanguardia femminista negli anni ‘70”, in corso alla Gnam di Roma (dalla Collezione Verbund di Vienna). Non tanto perché “la donna è il negro del mondo” (come cantavano John Lennon e Yoko Ono); ma perché nelle circa 200 opere, soprattutto fotografie, di Marthe Rosler, Ketty La Rocca, Renate Bertlmann, Hannan Wilke, Cindy Sherman, Francesca Woodman e altre, si capisce come siano le donne ad avere aperto la strada alle ricerche dell’arte contemporanea. Mentre l’elaborazione teorica femminista allargava la nozione di significato ai contesti, al corpo e alla soggettività, l’area dell’arte si allargava alle nozioni creative oggi indispensabili di testimonianza, archivio, documentalità, fino a mostrare la visibilità dell’invisibile, la carne del fantasma, e conferire il carattere etico di “volto” a ogni cosa offerta alla visione. Le donne (almeno negli anni ’70), non avevano paura dei fantasmi, non copiavano dagli occhi, non facevano differenza tra interno ed esterno (come Kubrick nei suoi Eyes wide shut, ovvero “occhi spalancati ma chiusi”). Nel cinquantennale de La dolce vita (Fellini) e de La vita agra (Bianciardi) nel trentennale degli anni di carne (non di piombo), quei ‘70 che si protrassero fino alla prima metà degli ’80, noi siamo agli antipodi, dove anche il visibile non si vede più. Per questo l’energia della mostra è così politicamente attuale, negli anni de “la vita nulla” in cui stancamente galleggiamo.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità, 28/2/2010)

2/15/2010

The Others (poesia ritrovata mentre cercavo uno dei miei testi sul "fantasma")

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bisognerebbe scrivere un'apologia
degli altri,
i nostri testimoni i nostri
martiri.
Ohh,
I apologize


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febbr. '95

12/24/2009

"Oggetti smarriti" su Alias (recensione di Alessandra Sarchi)

Volentieri pubblico qui la recensione di Alessandra Sarchi (autrice che molto stimo), apparsa oggi su Alias (il manifesto). Titolo: "Il Novecento degli oggetti perduti" (Ah, buon natale e voi e a me).

Oggetti smarriti e altre apparizioni di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano (2009, 9,50 euro), parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nello spazio di un breve incontro, nell’approssimazione di situazioni di precarietà - la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni - di tracce lasciate più o meno consapevolmente che l’autore interroga come indizi, come gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma e poi è stata in qualche modo abbandonata, per proseguire altrove, o tramutarsi in altro. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose,’ raccontato con presenza critica ed emotiva, alternando scene schiettamente narrative a brani di vero e proprio réportage letterario, in un equilibrio sottile tra autoriflessività della scrittura e neutralità descrittiva. Colpiscono i dati: l’impressionante numero di carte di identità perse - che l’autore legge come desiderio di fuga e cambiamento della popolazione, il ritmo dei verbali di consegna all’ufficio oggetti smarriti di Milano, più di 1500 al mese, una cinquantina al giorno. La lettura di questi verbali e la visione degli oggetti traccia una mappa sociologica della popolazione, dei suoi costumi, della composizione demografica. Ma lo sguardo dell’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde, o lascia traccia. Fantasma è ciò che ci manca, ciò che abbiamo intravisto e subito perso, proiezione di un’interiorità che si nutre di assenza più che di presenza.
Il filo rosso che lega momenti e contesti molto diversi fra di loro è costituito dalla predilezione per ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce, come linea in continuo movimento. L’attenzione letteraria e umana di Sebaste rivela di aver profondamente assimilato la lezione di Derrida - Nulla di meno marginale della questione dei margini - e di Godard - É il margine che fa la pagina - . Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia - anche se la nostalgia come essere altrove è sempre presente - ma è soprattutto stupore, interrogazione e riflessione sulla dialettica tra significanza e insignificanza dei gesti e delle cose, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Per Sebaste è il frammento che può dare l’idea del tutto, un tutto che è inafferrabile per definizione. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, in cui si sente l’eco dei moralisti francesi del Sei-Settecento (ma anche di Leopardi), solo che alla rovina, al resto delle civiltà passate come scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito, il frammento di quel vaso rotto che come metafora di una precisa poetica era già stato indicato dall’autore nel suo romanzo Tolbiac. Tuttavia l’inseguimento di luoghi e oggetti apparentemente banali non si risolve mai in intimismo, piuttosto attinge a una dimensione che si potrebbe definire di resistenza culturale, di memoria come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso il canale della rimozione, della dimenticanza, dell’occultamento. Questo lavoro di ricognizione tra le macerie e gli interstizi dello spreco e del presente attuale che non conosce passato né futuro, è prima di tutto un lavoro linguistico: l’autore ci ricorda come l’ufficio degli oggetti smarriti, abbia in Francia il suo corrispettivo in un luogo che, all’opposto, si chiama Bureau des objets trouvés, al quale se fosse possibile l’autore preferirebbe addirittura il vecchio fermoposta che consentiva di ritirare in qualsiasi città la propria corrispondenza; in francese si dice poste en souffrance, ed è la sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano una destinazione, delle persone e dei luoghi che vengono cancellati. E ancora: la visita a una fabbrica che produce palloncini gonfiabili - oggetto per definizione effimero e per questo molto in consonanza con gli intenti di certa arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons - dipana una riflessione non solo sull’uso propagandistico di questi oggetti - nelle campagne elettorali ad esempio - ma anche sul paradosso insito nell’affidare a poco più che fiato le proprie sorti, sapendo che ciò che si gonfia e si gonfia è prima o poi destinato a scoppiare, lo dice la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.
Se gli oggetti e i luoghi si lasciano percorrere nei loro multi-strati linguisitici e funzionali, perché sempre provvisoria è la loro aggregazione, anche le persone tendono a dissolversi o meglio a vivere in osmosi con l’ambiente che le circonda, come nelle fotografie di Francesca Woodman che Sebaste mette in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica della sparizione, dell’essere altro, del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di essere gesto umano e artistico, anziché idiozia politica, avrebbe forse impresso una svolta diversa alla storia del nostro paese. Il libro si conclude con il catalogo degli oggetti del volo IH 870 Bologna-Palermo abbattuto su Ustica, i cui resti sono stati allestiti in un progetto di grande impatto dall’artista Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di oggetti, di passeggeri, il bagaglio, gli effetti personali riportati alla loro radice etimologica e universale - poiché ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota - le parole hanno il pudore di fermarsi, di lasciare parlare il silenzio. E a chi si domanda per quale ragione esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.

(Alessandra Sarchi, da Alias (il manifesto) del 24 dicembre 2009)

Post scriptum: http://www.radiocittafutura.it/ViewMedia.aspx?mediaID=4cbed0e4f5174c1fbf3d5cf9df3bcd4e&s=0

12/14/2009

Christian Boltanski e la scommessa col diavolo


Se oggi quando si parla di arte spesso si parla di memoria, testimonianza, archivio, documentalità, e a volte ci si confonde tra un deposito di “oggetti smarriti” (o ritrovati) e un’installazione, tra un’opera e la vetrina di un Banco dei Pegni, credo che molto sia dovuto al lavoro ininterrotto ed esemplare di Christian Boltanski, che come i grandi artisti e i grandi scrittori ci ha dato occhi per vedere il mondo in modo diverso. E ci si chiede quindi: dove comincia un archivio? E dove finisce?
Iniziò giovanissimo esponendo bacheche di oggetti personali e fotografie, inscatolando frammenti della propria vita, anche l’infanzia, a testimoniare il lutto di ciò che non è più (“abbiamo tutti un bambino morto dentro di noi, è la prima cosa che muore”, mi ha detto una volta). Ha esposto per anni nei musei di tutto il mondo foto ingrandite e sgranate di morti, rigorosamente primi piani, anticipando le struggenti carrellate di volti dei desaparecidos di Plaza de Majo e delle Torri Gemelle dopo l’11 settembre: scoprendo una qualità elegiaca allo stato latente nelle fotografie più comuni, volti qualunque, volti del nostro prossimo, il cui ingrandimento, evacuando il contesto, li rende assoluti. Ha ostentato “sìndoni” (volti fantasmatici proiettati o impressi su lenzuola o su lastre), assemblato abiti e oggetti, ammassato elenchi telefonici di tutto il mondo, grandi biblioteche coi nomi di tutti quelli che sono collegati sulla Terra contemporaneamente (ancora un’idea di “fratelli umani”). Per non citare che alcune delle sue mostre. Ho collaborato con lui all’installazione permanente (cosa nuova per lui) del Museo per la Memoria di Ustica, a Bologna, col relitto dell’aereo colpito da un missile nel 1980, e abbiamo fatto insieme un libro, “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri dell’aereo IH 870”. Ora Boltanski sta preparando per il Giappone una grande installazione che prevede la registrazione di una moltitudine di battiti di diversi cuori, e si appresta a inaugurare, il prossimo gennaio, un’altra grande mostra al Grand-Palais di Parigi. Ma la sua ultima opera – l’opera “di una vita” - del tutto coerente coll’insieme del suo lavoro e al tempo stesso “ultimativa” - è riassunta in un contratto “di cessione” “en l’état futur d’achèvement”, cioè prima del suo compimento.
Boltanski lo ha stipulato col singolare proprietario e curatore del MONA (Museum of modern and old art) costruito a Hobart (Tasmania, Australia). Ovvero David Walsh, collezionista, amatore d’arte e professionista del gioco. E’ un uomo sui quarant’anni lievemente autistico (la sindrome di Rain Man), e la sua ingente ricchezza proviene da scommesse e da giochi d’azzardo. L’opera consiste nel fare filmare il proprio atelier in permanenza, ovvero 24 ore su 24, da due o più telecamere, che il collezionista può contemplare a distanza. Non c’è un obbligo di presenza da parte dell’artista, né un calendario prefissato. Ma si tratta appunto del suo luogo di lavoro. I materiali registrati, ovvero i film, saranno conservati in un annesso del Museo creato appositamente, una caverna scavata nella roccia. Verranno proiettati secondo modalità e scansioni scrupolosamente stabilite dall’artista, quindi incisi su DVD e tenuti in un apposito armadio fatto nelle pareti della caverna.
Naturalmente è Boltanski ad avere concepito l’idea. Invece di cedere alla richiesta di un’opera, Boltanski propose al milionario David Walsh l’acquisto di una “messa in scatola” della propria vita d’artista, e la conservazione delle sue tracce, come testimonianza, in una “tomba” molto distante dal luogo in cui vive. (In Tasmania ci sono pochissimi abitanti, e la regione del Museo è difficilmente accessibile, oltre che priva di centri d’arte). Boltanski ha ottenuto di convertire la somma pattuita per la “Cessione nello Stato Futuro di Compimento” dell’Opera in un vitalizio annuale, poi ripartito in mensilità. La registrazione - l’Opera - inizierà il 1° gennaio del 2010. Fino a quando? Il preambolo lessicale del contratto, tra le tante voci, definisce la “Data di Compimento” dell’Opera, o realizzazione finale, “il giorno della morte dell’artista”. Ma quando, appunto?
La passione per le scommesse del collezionista (“non ho mai perso”, ha detto più volte all’artista) non poteva astenersi in questa occasione. Per questo, come mi ha allegramente confidato, Boltanski ha la sensazione di avere fatto una scommessa col diavolo, come il Parnassus dell’ultimo film di Terry Gillian. (Dio invece, mi ha detto tante volte Boltanski, per lui coincide invece con il “caso”). Dunque l’addizione delle mensilità del vitalizio indurrebbe il collezionista ad auspicare la morte dell’artista tra otto, massimo dieci anni, oltre il cui limite lieviterebbe la somma inizialmente pattuita (che qui non rivelerò). Naturalmente, l’artista scommette di vivere più a lungo. A confortarlo, giustamente, la considerazione che in fondo quasi in nessun caso il collezionista perderebbe (ogni anno di vita dell’artista accresce il suo archivio di “vita d’artista”, accumulando materiali).
I giornali del mondo che finora hanno parlato di questa singolare opera hanno solo accentuato l’aspetto sensazionalistico, da “Grande Fratello”, senza rendersi conto che il contratto d’opera ricalca ciò che Boltanski come artista ha fatto fin dagli inizi nelle sue “vetrine”: mostrare la (propria) vita, con quell’elemento di artificio e di finzione che l’arte comporta sempre; mostrarne i documenti, quello che resta, gli attestati di quanto è accaduto, mischiando magari lettere d’amore con altre burocratiche e di lavoro. L’autobiografia, per Boltanski, è universale. Mi ha detto: “Quando ne leggiamo, o anche quando si legge Proust, la vita di chi scrive diventa la vita di chi legge. Il sé diventa gli altri, che vi si riconoscono coi propri ricordi. E’ la funzione dell’arte. Ogni foto di bambino può far dire: ‘sì, mi ricordo di quando ero alla spiaggia’, oppure: ‘mi ricorda mia nipote’… L’artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri, non ha più esistenza propria, ma solo lo sguardo altrui. Non si può creare che scomparendo. Non si può ritoccare il proprio quadro. Se c’è Dio, Egli è scomparso nella creazione. E se Dio è assente, tocca agli uomini di fare…”
Quanto alla morte, essa è evidentemente da sempre presente nel suo lavoro. Del resto testimoniare (qualità del superstite, insegna l’etimologia) significa essere consapevoli del carattere testamentario di ogni iscrizione (e di ogni testo), esibire la nostra mortalità. Significa anche, al limite, incarnare l’aporia o il paradosso de Lo strano caso del Signor Valdemar di Edgar Allan Poe, colui che dice “io sono morto”. Penso allora che Boltanski abbia riversato nel fare arte quello che solo un filosofo-scrittore come Jacques Derrida ha propugnato con coerenza nei libri e insegnamenti di tutta una vita (e oltre): l’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire. Testimoniare è trasmettere, cioè sopravvivere. Al limite, diventare fantasmi.


(uscito su La Stampa, 13 dicembre 2009)

10/06/2009

Spettri di Derrida



http://www.iisf.it/derrida_spettri.htm

11/24/2008

Acchiappafantasmi n. 4 (All you need is love)

“Quando chiudi la porta con la chiave, sai quello che chiudi fuori, ma non sai quel che chiudi dentro”. Questa frase tutt’altro che rassicurante risuona nel buio della stanza più alta del maniero in un vecchio giallo inglese. Gli altri ospiti sono già tutti morti, e la persona sopravvissuta si trova ora al cospetto dell’assassino: chiusa insieme.
E’ un apologo che ho raccontato spesso, a commento della fobia e della criminalizzazione degli “altri”, gli stranieri, in seguito agli innumerevoli delitti nelle ville mono e bi-famigliari che hanno fatto la nostra Italian beauty. Ma gli assassini erano sempre i propri simili, famigliari o vicini di casa: The Others siamo noi. Un anno fa lessi su un muro del centro storico di Cagliari: “Immigrati, salvateci dagli Italiani”. Leggo ora del tristissimo omicidio-suicidio di Verona, una famiglia agiata, tre bambini, madre avvocato e padre commercialista. Nella pagina accanto leggo che la paura degli Italiani è passata, quella che ha alimentato la vittoria della destra, i pogrom contro i Rom, la Carta della Sicurezza e i sindaci sceriffi. Paura e insicurezza non ci sono più, in compenso si teme per la crisi economica planetaria e l’implosione del capitalismo. Ma è proprio adesso che a me viene paura: la deflazione dei sentimenti. Paura di ciò che può accadere quando gli italiani smettono di avere paura degli altri, quelli visibili, e ne alimentano di invisibili (le retoriche fasciste e hitleriane sono questo). Paura di chi si guarda allo specchio senza accorgersi che sia uno specchio, e viceversa guarda l’altro come se lo fosse, senza empatia, in una solitudine senza desideri. All you need is love, si cantava. Intanto questa claustrofobica normalità nutriva i delitti di Alfred Hitchcock, che avvenivano in cucina o in camera da letto, e sul senso della "normalità" insorgeva l’istrionico Orson Welles ne La Ricotta di P.P. Pasolini, se vi ricordate…
(uscito su l'Unità del 23/11/'98)

10/17/2008

Spettri e denaro

Si parla e si è parlato molto di soldi, di valore, di crisi economico-finanziaria. Perfino il Papa, che non paga l'Ici sugli immobili, che percepisce l'otto per mille degli Italiani, ecc. I soldi non sono solidi, ha detto. Anch'io sto pensando, non da oggi, al fantasma dei soldi. Ma è un fantasma su cui un altro vecchio fantasma, che degli spettri ha sempre avuto - dal suo primo apparire - la facoltà di tornare e di aggirarsi, ha ancora da dire. Per esempio questo, per cominciare:

"Il denaro, che possiede la proprietà di comprare tutto, la proprietà di appropriarsi di tutti gli oggetti, è l'oggetto in senso eminente, il cui possesso è il possesso più eminente. L'universaltà della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere; esso è considerato l'ente onnipotente. Il denaro è il mediatore - il mezzano - tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi serve come mediatore della mia vita, mi fa mediare di conseguenza anche l'esistenza degli altri uomini. Il mio prossimo, è il denaro.
Scrive Shakespeare, in Timone di Atene:
'Dell'oro! Dell'oro giallo, prezioso, scintillante! No, Dei del cielo, non è la mia una frivola supplica. Un tanto di oro fa nero il bianco, bello il brutto, buono il cattivo, giovane il vecchio, valoroso il vile, e nobile l'ignobile... Questo oro fa allontanare i vostri preti dai vostri altari; fa strappare il cuscino sotto il capo dei moribondi; questo giallo schiavo scioglie e annoda i legami più sacri e i sermenti, benedice i maledetti, rende amabile la lebbra, onora i ladri e dà loro il titolo, gli omaggi e le lodi del banco dei senatori; conduce i pretendenti alla vedova avvizzita. Questo oro ringiovanisce come balsamo e trasforma in un fresco giorno d'aprile colei che ripugnerebbe con nausea in un ospedale per le sue piaghe purulente. Maledetto metallo, comune puttana dell'umanità, che metti la discordia tra i popoli..."
Shakespeare dipinge magistralmente il denaro e la sua natura [...] Ciò che è mio, ciò di cui posso appropriarmi mediante il denaro, ciò che posso - cioè può il denaro - comprare, ciò sono io, il possessore del denaro. Le proprietà, qualità del denario sono le mie qualità e forze essenziali. Ciò che io sono e posso non è affatto determinato dalla mia individualità. [...] Sono cattivo, disonesto, senza scrupoli senza ingegno, ma il denaro è onorato e così lo sono anch'io, suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono. Il denaro mi dispenda inoltre dalla pena di essere disonesto, e mi si presume onesto. Io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa, come potrebbe dunque il suo possessore essere senza spirito? Inoltre può comprarsi gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è più ricco di spirito dell'uomo ricco di spirito? Io che posso avere, grazie al denaro, tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo allora tutti i poteri e le facoltà umane? Il mio denaro non trasforma tutte le mie impotenze nel loro contrario?
Se il denaro è il legame che mi connette alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è il legame di tutti i legami? Non è anche ciò che può separare e spezzare ogni legame? [...]
Shakespeare fa risaltare soprattutto due proprietà del denaro: è la divinità visibile, la metamorfosi di tutte le qualità umane e naturali nel loro contrario, la confusione e perversione generale delle cose, la conciliazione delle incompatibilità. E' la prostituta universale, l'universale mezzana di uomini e popoli".
(Karl Marx, "Il denaro", appunti contenuti nei Manoscritti economico-filosofici del 1844), responsabilità della traduzione mia, b.s.)
P.S. "Oh Lord, want you bay me a Mercedes Benz..." (Janis Joplin)

9/14/2008

"Mi manca chiunque"

E' morto lo scrittore David Foster Wallace, più o meno mio coetaneo. Copio e incollo la notizia da0 un giornale qualsiasi di oggi (on line):
"Lo scrittore americano David Foster Wallace (46 anni, nella foto) è stato trovato morto nella sua abitazione di Clermont, nel sud della California. L’autore di Infinite Jest - romanzo colossale, monumento del postmodernismo - e di altre importanti opere letterarie e reportage è stato trovato impiccato dalla moglie; la polizia sembra propendere per l’ipotesi del suicidio. Wallace aveva conquistato la notorietà col suo primo romanzo nel 1987, La Scopa del sistema, per poi pubblicare la sua opera principale nove anni dopo, con le oltre mille pagine di Infinite Jest. Attualmente insegnava scrittura creativa e letteratura inglese al Pomona College, sempre in California. Raggiunto dalla notizia della morte, il preside del college, Gary Kates, ha sottolineato come lo scrittore si curasse «con estrema attenzione» dei suoi studenti; col suo lavoro «ha trasformato la vita di molti giovani, è una grande perdita per la nostra facoltà», ha detto il preside. Molto apprezzato dalla critica, il suo esordio venne salutato con estremo favore dal quotidiano New York Times che, a proposito della Scopa del sistema, parlò di un interessante tentativo «di raccontarci la follia dell’America contemporanea con una combinazione di stili che va dai giochi di parole alla Joyce alla parodia letteraria e al picaresco». La sua grande opera Infinite Jest venne inserita dalla rivista Time tra le 100 migliori opere in lingua inglese tra il 1923 e il 2005. Oltre che come romanziere, Wallace era attivo come giornalista e reporter e collaborava regolarmente con riviste come Esquire, GQ, Harper’s, il New Yorker e anche Paris Review..."
Il sito dell'amico Giuseppe Genna dice cose molto più interessanti, e raccoglie alcuni articoli su Foster Wallace. Aggiungo che a Capri, quando fu invitato, fece una lezione, tra l'altro, sul tema del "fallimento".
Se ne dò anch'io notizia (non basta essere lettori o amare qualcuno per farlo) è perché ancora mi emoziona nella sua semplicità la piccola frase, quasi un esergo, che lessi ne La scopa del sistema: "Mi manca chiunque".

7/31/2008

Agosto (coi soldati nelle città)

Ultimo giorno di luglio, e io sono tornato in città. Roma. Un caldo bestiale e un sacco di penseri (uno tra tutti: un trasloco da fare entro settembre). Sembra l'inferno, spero che sia solo il purgatorio. Prossimi spostamenti: presentazione di libri (HP e Panchine insieme) a Courmayeur il 7 agosto, e il 10 le Panchine alla rassegna Pralibri, sopra Torino, a cura della libreria del Gruppo Abele. Per il resto sempre qui, a Roma - lo dico agli amici superstiti, tipo messaggio nella bottiglia. Spero nelle piscine e nelle arene estive...
Ma per dirla in modo più serio, pare davvero che le città siano piene e popolate, come se non fosse estate. Il motivo è semplice e drammatico: siamo tutti poverissimi. A questo proposito un signore incontrato ieri sera, che si intende, e molto, di rifiuti e smaltimenti, mi ha detto che i cassonetti delle città sono praticamente vuoti rispetto al passato: specchio dell'attuale miseria degli Italiani. Ancora, sempre sotto questa luce, si possono interpretare in un modo diverso le ultime vicende del governo, come l'abnorme proliferazione di soldati nelle città, stile Spagna franchista, di cui stupisce che nessun giornale si stupisca, che nessuno protesti. Quindi, oltre a fomentare la paura, oltre a usare armi e uniformi dei soldati come "armi di distrazione di massa" (contro chi, del resto? gli zingari? i lavavetri? i giudici?), e per presunti motivi di prevenzione del crimine, nell'ossessione securitaria attuale, si tratterebbe di prevenire future rivolte eventuali di cittadini, esasperati e forse affamati. "Prove di antinsurrezione": così si intitola un' e-mail ragionato e inquietante che sta circolando in questi giorni su Internet. In questo scenario, auguro comunque un buon agosto a tutti.

4/15/2008

Straparlare, stravagare, extraparlamentare

Dunque, vediamo un po' che cosa è successo, due anni fa ero di notte nello spiazzo sotto il palazzo dell'Ulivo a Roma, alle due di notte un Prodi abbastanza provato e sudato annunciò una vittoria e una legislatura lunga, ero con un amico giornalista parigino, avevamo incontrato un altro amico, Fabrizio Gifuni, tutti stanchissimi abbiamo preso un caffé e un cornetto, mi pare, in un bar aperto a Piazza Venezia, e già dopo qualche giorno Prodi era tanto autorevole sul suo governo quanto il direttore generale di un ufficio ministeriale (che so, quello della Pubblica Istruzione), poi col tempo una ancora più generale opacità, Prodi sembrava un brav'uomo ma non si capiva bene cosa c'entrasse il suo operato con le aspettative della campagna elettorale precedente, col conflitto di interessi del precedente primo ministro, con le leggi personali sulla giustizia ecc., poi - stacco - ricordo manifestazioni contro il governo fatte da partiti del governo, ricordo quell'esponente di un partito di sinistra (quello che ha lasciato il proprio posto in lista a un operaio ma ha fatto l'ultima campagna elettorale esponendo la sua faccia col sigaro e l'espressione pensosa, perfino una mano sulla fronte), ricordo un'intervista del presidente della camera ed esponente di un partito della sinistra anch'esso oggi extraparlamentare (tutta la sinistra, la parola "sinistra", è ora extraparlamentare, come si diceva negli anni '70 per i gruppi a sinistra del Pci), ricordo quell'autorevole esponente della sinistra oggi dimissionario definire in un'intervista il governo Prodi che pure sosteneva con ministri usando le parole con cui si ironizzava un tempo su un poeta crepuscolare (il più grande poeta morente), ricordo un esponente della peggiore politica o meglio della peggiore e più diffusa italianità dimettersi e fare cadere il governo Prodi per interessi e isterie personali, ricordo la conta e l'incubo ovattato di non avere più questo governo comunque bonaccione e dai peccati veniali, come una famiglia un po' fessa ma onesta (le due parole ormai in Italia sono sinonimi), e poi via quasi senza pensarci il carosello e carrozzone elettorali, spettatore sempre un po' attonito di una campagna che sembrava a tratti 'giovani contro vecchi', e che alla fine mi ha dato pure qualche piccolo brivido di partecipazione (sono uno di quelli che ha votato Pd), sembrava facile o possibile fermare gli altri, come si poteva credere davvero alla macchina del tempo che riporta tutto indietro all'incubo, ma come fanno gli italiani, ecc. ecc., poi stamattina mi accorgo che il governo Prodi non c'è più, non c'è mai stato, c'è un governo Berlusconi, e mi sento stanco, molto più stanco di cinque anni fa, non so se ho voglia di andare all'estero come si dice in giro, mi accontenterei di vivere in campagna, meno male, ho pensato, meno male che il libro che sta uscendo, il mio ultimo libro, si chiama Panchine, sottotitolo: come uscire dal mondo senza uscirne, ma anche questo è un déjà vu, perché il giorno in cui vinse le elezioni il primo Berlusconi con capelli, contro il povero Occhetto e la sinistra, andai a Milano da Feltrinelli a firmare le copie staffetta, come si dice, di un mio libro di racconti (oggi introvabile) dal titolo Niente di tutto questo mi appartiene - in fondo era come una grande metaforica, metafisica panchina. La vita è altrove, si dice, ci credo, però l'infelicità ha la caratteristica di saper collegare tutto con tutto, il privato col pubblico e viceversa, e io sento un po' di claustrofobia, "solo l'amore conta e il resto è scorie", questo è un verso di Ezra Pound che mi riaffiora, non so cosa c'entri, c'entra tutto e niente in questo divagare, estravagare, straparlare, extraparlamentare, battre la campagne, però ero abbastanza contento che la politica la facessero altri, quelli che ne hanno la vocazione e una buona dose di generosità, ho altre ritmiche del tempo, cosa fanno gli scrittori in questi casi, io vorrei continuare a fare le mie cose, che pure sono "politiche" in molti modi diversi, la domanda è se me le lasceranno fare.

3/17/2008

Fantasmi (ancora), caso Moro, arte, filosofia

Sono sull’autobus, guardo la città dal finestrino: le strade, i negozi, i bar, il solito traffico di auto. E’ quasi ora di pranzo, la gente si accalca per tornare a casa, donne e studenti soprattutto. Io sono un ricercato, terrorista in clandestinità, uno di quelli che per rapire il presidente della Democrazia Cristiana ha sparato e ucciso cinque persone della scorta. Vado in via Montalcini, strada di una periferia residenziale. Lì, al piano rialzato di una palazzina di tre piani, teniamo prigioniero in un bugigattolo Aldo Moro. Tutti parlano di noi, le Brigate Rosse, anche sull’autobus. Come mi sento? E che cos’è la gente per me, le persone comuni che ho a fianco? Non è facile essere uno di loro, vestirsi con anonima cura, né troppo dimesso né elegante. Specchio la mia riuscita nell’indifferenza degli altri. Ma mi accorgo dei confini tra quello che recito e quello che sono divenuto? [continua a leggere].

Quello sopra è l'inizio della versione "reportage" di un mio articolo apparso ieri su la Repubblica, sul paradosso dell'equazione BR=fantasmi. Qualche giorno fa su Venerdì è uscito invece un mio articolo su Bruno Munari, di cui evoco l'incontro a dieci anni dalla scomparsa (e la mostra che è in corso a Parma). Sempre venerdì ho avuto piacere a presentare a Roma il bel libro di Brunella Antomarini, Pensare con l'errore. Il bersaglio mobile della conoscenza, con Giacomo Marramao, Domenico Parisi e Franco Voltaggio (io mi sentivo un pesce fuor d'acqua, tutto sbagliato, ma per un libro sugli errori, mi hanno detto, che io fossi tutto sbagliato era molto chic). Un libro sulla conoscenza come bersaglio, che si stupisce dell'indovinare giusto e non degli errori, oltre che dire la verità è nella propria ombra, non è così distante da mio pensare col fantasma di cui ho scritto spesso, no? (posterò il pezzo che ho scritto sul libro di Brunella).