Claustrofobia è un concetto che a torto si usa poco in politica, eppure è proprio questo che provocano i regimi chiusi e totalitari, a diversi gradi del loro insediamento. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: chiusura, appunto (v. The Dome di Stephen King), omogeneizzazione, irregimentazione, ripiegamento sulla propria identità; identità che, a diversi livelli di fascistizzazione, si basa sulla comunanza del suolo oppure del sangue. L’appartenenza religiosa ha pure un ruolo importante in questa marca di identità, pur ovviamente non avendo più nulla di spirituale né di religioso. In Svizzera, storicamente terra d’asilo e di rifugiati politici e religiosi, dove un referendum populista ha proibito l’edificazione di minareti, ovvero i templi religiosi degli “altri”, nel 1990 il grande scrittore svizzero Frederich Durrenmatt pronunciò un discorso d’indimenticabile e feroce ironia contro la politica claustrofobizzante del suo Paese, subito entrato nella storia e nella sua opera. Fu durante la cerimonia per la cittadinanza svizzera onoraria al dissidente ceco Victor Havel.
Iniziò coll'esprimere stupore, di fronte ai politici impietriti, che si desse la cittandinanza a un dissidente come Havel quando, in patria, cittadini svizzeri venissero arrestati perché non aderenti all'"ideologia nazionale" (per esempio obiettori di coscienza, o renitenti alla leva obbligatoria). Descrisse poi la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli Svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, “per dimostrare la propria libertà”. In tale prigione, disse, “gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti”. Ma vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Durrenmatt:
“C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli Svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri”.
Le parole di Durrenmatt valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale “Popolo delle libertà”, guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.
(commento uscito su l'Unità del 1° dicembre)
3 commenti:
Mi viene in mente una frase di Jackie: “Quando uno stato non rispetta il diritto al segreto, il diritto alla differenza o al sentirsi straniero, diviene minaccioso.”
grazie, illuminante... sul paradosso del sedicente "popolo delle libertà", a mio avviso, non è stato ancora detto abbastanza: non ho ancora letto una disanima esaustiva di tale rovesciamento che, più che paradossale, a me pare mostruoso...
dario
ricorda la società di "1984" di Huxley, in effetti. distorsioni linguistiche comprese. come ho scritto spesso, l'horror è la categoria che spiega meglio l'attualità politica...
(beppe)
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