3/29/2009

Un incubo hitleriano (rubrica acchiappafantasmi)

C’era una canzone di Giorgio Gaber, nell’album Far finta di essere sani del 1973, meno ironica e introspettiva delle altre, “La presa del potere”. Fa un po’ paura: ritmo incalzante - “sono una razza superiore / sono bellissimi e hitleriani. / Chi sono? Chi sono? / Sono i tecnocrati italiani” - interrotto da passi marziali e frasi in tedesco (Eins zwei, eins zwei, alles kaputt!), e un ritornello ballabile e sognante: “e l’Italia giocava alle carte / e parlava di calcio nei bar...”, falso cioè come una moneta da tre euro. L’ho pensata molto, ieri, al risveglio di uno di quei sogni opprimenti da tubo catodico. C’era un immenso contenitore con le luci artificiali, come uno stadio coperto, gremito di persone tutte uguali come il Mr. Anderson in giacca e cravatta contro cui lotta l’eroe di Matrix - solo più volgari. C’erano anche dei giovani, e perfino una ragazza che sembrava un angelo biondo del Correggio, dalla cui bocca uscivano per contrasto parole violente, come programmate, pre-registrate. Parlava della Storia, che gli altri, i nemici, avevano cambiato. Diceva di pensare con la propria testa. Nel sogno sapevo benissimo che era tutto il contrario, ma non avevo voce, era come se io e quelli come me avessimo rinunciato per sempre a dire che tutto è falso, che anche le loro menti erano artificiali, come i simulacri che in Matrix coprono una realtà di rovine ormai fredde. Finché è apparso il Capo, un concentrato senza età di cicatrici e chirurgia plastica, e si capiva che quella moltitudine era lì ad adorarlo. Ha parlato a lungo, alternando violenza contro gli Altri, e sorrisi al proprio esercito incravattato di Mr. Anderson. Dalle sue parole, come da quelle dei suoi soldati, si capiva che le parole non avevano più un senso, o meglio il loro senso si forgiava lì, in quel momento. Era il mondo a non esserci più. Avevo paura.

(su l'Unità del 29 marzo 2009)

3/25/2009

Con un piede impigliato nella storia (o negli anni Settanta): sul libro di Anna Negri.

Il titolo, Con un piede impigliato nella storia (Feltrinelli), viene da una frase sul proprio disagio che un giorno lei rivolge al padre, dal quale fatica non solo a emanciparsi, ma a farsi ascoltare. Il genere di narrazione è quello che chiamerei “autobiografia del testimone”, che in questo caso è una ragazzina (solo alla fine del libro compie diciott’anni). E, come scrisse il poeta Paul Celan, “nessuno / testimonia / per i testimoni”. L’epoca è quella amata e odiata (la questione è aperta e bruciante) degli anni Settanta e Ottanta, il loro crinale. L’ambientazione è il movimento, “culturale prima ancora che politico”, come ricorda giustamente l’autrice, di quella che oggi si direbbe sinistra antagonista, ma che allora era semplicemente (a volte allegramente) extraparlamentare, simile in ogni città italiana. La ragazza, che a casa ha inalato fin troppa politica passiva, si affaccia alla politica attiva al liceo, quando l’onda lunga, euforica, spavalda, ricca di idee e passioni, si sta ripiegando ormai sconfitta: gli anni ’80, a cui dedica osservazioni semplici e intelligenti, assistendo al moltiplicarsi di bar e luoghi di consumo, droghe pesanti a gogò, un’ubriachezza generale che anticipa la globalizzazione della sbronza delle attuali happy hours, la nascita degli yuppies e la trasformazione dei giovani ribelli (siamo a Milano) in valenti pubblicitari, prodromo dell’attuale regime (semiotico e politico). La ragazza che scrive questa storia personale si chiama Anna, il padre Toni Negri, e la madre, devota, concreta e appassionata, e che come si addice a una donna, anche a sinistra, viene per ultima, si chiama Paola: è lei l’unica adulta per cui il personale è davvero politico, come si diceva allora.
Anna Negri aveva 12 anni quando apre la porta alle forze dell’ordine che coi mitra spianati vengono ad arrestare il padre, per quel tristemente famoso “teorema-Calogero” (dal nome del giudice istruttore di Padova) che voleva fare del professore di Scienze politiche, esponente dell’Autonomia ed ex cattolico militante, addirittura il capo delle Brigate Rosse. Erano gli anni delle leggi d’emergenza, di una sospensione della democrazia e dei diritti così flagrante che ancora oggi si è imbarazzati ad ammetterla (a destra come a sinistra). Quando la carcerazione preventiva poteva durare, e durò, anche quattro anni: tanti quanti furono gli anni in cui la famiglia Negri si disgregò, il padre in galera in attesa di giudizio, la madre a soccorrerlo, e la dodicenne Anna promossa capofamiglia del fratello più piccolo, tra angosce, bulimie e solitudini.
Non stupisce che Anna Negri sia diventata una regista di cinema e tv. La bellezza di questa narrazione, che letteralmente si divora, è forse nel confronto del suo sguardo con quello degli adulti, soprattutto quello maschile, come se la fanciullezza fosse un espediente per dire e mostrare l’evidenza taciuta dai grandi. I quali non escono molto bene dalla storia. Verso la fine del libro lei chiede a uno dei tanti reduci amici del padre, esule riciclatosi in ristoratore a Parigi, se avessero davvero creduto di fare la “rivoluzione” (e che altro se no, dopo tutto quel casino, agli occhi di una ragazzina?). La spiazzante risposta è no, “in quegli anni volevano che l’Italia fosse un laboratorio di lotta di classe permanente”, così, “grazie al movimento, il paese sarebbe andato sempre più a sinistra. Invece, con la lotta armata, era arrivata la repressione”.
La memoria dei figli è pericolosa per i grandi, perché ricordano frasi e situazioni impietose. Come quando il padre Toni, astratto e distante, che vede i figli come una specie di alieni, ironizza sulle letture della moglie (L’io diviso di Ronald Laing, padre dell’anti-psichiatra inglese), e dice alla figlia che se continua a leggere quei libri sua madre diventa matta davvero. O come quando, in una delle ultime visite al carcere di Rebibbia, dopo che Anna gli racconta lo sconfortante riflusso e la riconversione dei valori nell’unico valore consentito, il denaro, il padre, ideologo operaista, le risponde con un certo cinismo di approvare il desiderio di facile guadagno dei “figli”, gli yuppies, rispetto alla fatica dei “padri”, gli operai). L’orizzonte del padre Toni è quello dell’autonomia della politica, che nonostante tutto accomuna chi fu allora accusato di insurrezione armata contro lo Stato e chi, ancora oggi, dichiara dall’alto delle istituzioni dello Stato di lasciar fare ai professionisti della politica. Occorre essere (o restare) fanciulli, paradossalmente, per denunciare la distanza della politica dalla vita. Per svelare che sono i mezzi a giustificare i fini, mai il contrario.
Per il resto gli anni Settanta, che si protrassero almeno fino ai primi anni Ottanta, e di cui questa autobiografia è un ottimo scorcio, risultano davvero anni di carne, più che di piombo. L’autrice ricorda il film di Margarethe Von Trotta, che di quel lemma così amato dai giornalisti italiani detiene il copyright, Anni di piombo appunto (del 1981). Ma per la regista tedesca, come precisò in un’intervista, gli “anni di piombo” non erano quelli che per i giornali italiani divennero sinonimo di “anni del terrorismo”, cioè delle pallottole, ma quelli grigi e noiosi della sua adolescenza, quando non succedeva niente. Ricordiamocelo, questo equivoco semantico, mentre la memoria scompare e la storia si annacqua, mentre il vento gelido e omologante del conformismo spazza via ogni differenza e ogni passione.

(uscito su l'Unità del 25 marzo 2009, insomma oggi)

3/20/2009

Prego, signori, entrate pure nel Vuoto (una mostra al Beaubourg di Parigi)


Al quarto piano del Centre Pompidou, quello delle mostre importanti, i visitatori percorrono da un mese nove sale firmate da altrettanti artisti, da Yves Klein a Stanley Brouwn (in ordine cronologico). Sono le nove opere della mostra - che si vuole “retrospettiva” – intitolata “Vides” (vuoti). Tema della mostra collettiva (che ha ben sei curatori, tra cui Laurent Le Bon, conservatore del Beaubourg, e l’artista svizzero John Armleder), è uno degli scandali ricorrenti dell’arte (e non solo): il vuoto. La spiritosa maschera all’ingresso non scherza quando dice a chi entra “non c’è niente da vedere”, però si sbaglia. Le sale sono vuote, sì, ma ognuna diversa dall’altra, e piene di spazio, luce, volume e confini – pareti, porte, finestre, i corpi delle persone. Senza bisogno di scomodare il solito fraseggio metafisico che evoca la presenza dell’assenza, o l’equivalenza di “vuoto” e “forma” nel buddhismo Zen, il fatto è che per la prima volta in vita mia ho scattato delle foto (col telefonino) in un museo. Anche una coppia di ragazzi faceva lo stesso, indugiando nelle sale luminose col parquet senza nessuna fretta di esaurire la visita. Come se il vuoto delle opere rendesse più acuto il nostro sguardo.
Ripensare il senso dell’oggetto artistico e del suo contesto, e il concetto stesso di esposizione, così come ripensare lo spazio, lo sguardo, la materialità dell’opera, sono il compito e le coordinate che l’arte contemporanea si dà da molti decenni. Vale a maggior ragione per “Vides. Une retrospective”: nove opere “datate” e riattualizzate (storiche e astoriche insieme) sul “vuoto”, che dovevano essere presentate simultaneamente in tre Paesi diversi (ma solo il Pompidou ha accettato). Come non riconoscere la tempestività di questa mostra (che spero sia accolta in Italia)? Nell’epoca dell’inattesa implosione del capitalismo delle merci e dei consumi, materiali e immateriali, ci induce a ripensare insieme, alla radice, il valore dell’arte e del suo “uso”. I nostri vuoti.
Il percorso cronologico inizia dalla sala di Yves Klein, che riprende la mostra del 1958 alla galleria Iris Clert intitolata (traduco) “La specializzazione della sensibilità allo stato di materia prima in sensibilità pittorica stabilizzata”, famosa però come “la mostra del Vuoto”. Successiva ai “monocromi”, per l’occasione Klein dipinse di bianco l’interno della galleria, per creare “un ambiente e un’atmosfera pittorica sensibile e per ciò stesso anche invisibile”. Fu questa mostra a segnare l’avvento come opera di uno spazio interamente “vuoto”. Perché lo scrivo tra virgolette, allora? Perché il vuoto non esiste, cioè non esiste allo sguardo e ai sensi, non esiste in fisica né in estetica, proprio come il silenzio, quello dell’omonimo, celebre e scandaloso concerto del compositore John Cage (peraltro amico e sodale di molti artisti del “vuoto”). Continuo il percorso.
Il collettivo Art & Language, con “The Air-Conditioning Show” (1966-67), enuncia l’equivalenza tra la descrizione scritta di un’opera e la sua realizzazione nello spazio. Robert Barry, per il quale lo spazio espositivo è luogo di riflessione, titola la sua sala (presentata nel 1970 alla galleria Sperone di Torino) citando Marcuse: “luoghi in cui essere liberi di pensare ciò che stiamo facendo”. Segue “Experimental Situation” di Robert Irving (Ace Gallery, Los Angeles, 1970), Laurie Parsons, che come nell’originale alla Laurence-Monk Gallery di New York del 1990 non mostra nulla, neanche il proprio nome. C’è il vuoto di Bethan Huws (Haus Esters Piece, 1993), che omaggiava la bellezza dello spazio espositivo dell’edificio di Mies van der Rohe a Krefeld; quello di Maria Eichorn, finalizzato a far conoscere e finanziare la Kunsthalle di Berna in crisi di fondi (“Money at the Kunsthalle Bern”, 2001); quello capzioso di Roman Ondàk, “More Silent Than Ever” (v. immagine qui sopra), presentato a Parigi nel 2006, che insinua che nella sala ci sia un sistema acustico nascosto. Infine l’inedito di Stanley Brouwn, “Uno spazio vuoto nel Centro Pompidou”, 2009.
Si chiedeva in questi anni il grande artista Claudio Parmiggiani, la cui ultima mostra si chiama “Apocalisse con figure”: “Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? [...] significa non solo porsi il problema di un spazio formale, estetico, ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”. Ecco, che lo sappia o no, questa mostra che articola una pluralità di “vuoti” è un’apocalisse senza figure, nel senso di Parmiggiani. Apocalypsis significa rivelazione, svelamento. Di che cosa? Del fatto – penso mentre percorro le sale guardando il pulviscolo di luce che esce dalle vetrate luminose nello spazio vuoto – che la vera opera è (sempre) il luogo, che da fisico diventa mentale, e al tempo stesso pulsa di vita (con una voce e un cuore, direbbe ancora Parmiggiani, che battono dentro lo spessore dei muri).
(La mostra si conclude il 23 marzo. Il voluminoso catalogo è edito da Ringier (Zurigo) in coedizione col Centre Pompidou)
(articolo uscito su l'Unità del 21 marzo 2009)

3/13/2009

Intervista a Fred Vargas (in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo Un luogo incerto)


“Scrivo gialli per annullare la morte, e non sopporto la violenza, neanche al cinema. Il giallo è un genere arcaico, tocca la letteratura epica dell’antichità, cose come il concetto greco di “catarsi” e l’angoscia vitale della mitologia – il Minotauro, il labirinto, ma anche il Drago, la que^te medievale dei cavalieri senza paura, un universo di storie in cui conta la scoperta, la risoluzione finale, dove si uccide il mostro e si salva la fanciulla, oppure si trova il tesoro, cioè la conoscenza. Faccio romanzi a enigma, o meglio a soluzione. E anche se lo statuto della verità e della colpa nei romanzi noir è più sociale, io amo anche i gialli inglesi, e in particolare di Agatha Christie. C’è una complessità simbolica dietro la loro semplicità che mi piacerebbe un giorno spiegare”.
Sto parlando di gialli con Fred Vargas, continuazione di un dialogo avviato anni fa. Come ogni scrittrice che si rispetti passa la maggior parte del tempo in cucina, ed è lì che siamo seduti, tra fogli, libri, computer, tazzine e caffettiera. Tradotta e amata in tutto il mondo, i lettori già sanno che il suo nome è uno pseudonimo, di professione è archeozoologa, e la sua sorella gemella straordinaria pittrice. Tuttavia è imminente in Francia l’uscita di un libro dal titolo Il mistero Fred Vargas (che, dice, lei non leggerà). Ciò che colpisce è la sua modestia. Riluttante a dirsi scrittrice - forse perché, con un padre surrealista amico di Breton, gli scrittori erano in casa qualcosa di troppo alto – mi confessa che anche il suo rifuggire le interviste è un timore di inadeguatezza. “Se un giornalista mi si rivolge dicendo: ‘Lungo la sua opera, Fred Vargas, ci si accorge che...”, io vorrei esclamare: chi? quale opera? Non mi sono mai data questo come scopo, mi occupo d’altro e la nozione di opera è troppo astratta. Non mi definisco in un essere, ma in un fare. Fabbrico storie. So di avere successo, ma in nessun momento della giornata mi riconosco nell’immagine che gli altri hanno di me. Non è cambiato nulla nella mia testa e nel mio modo di vivere, e provo lo stesso piacere nel giocare con le storie. Forse scrivo quello che vorrei leggere, senza presunzione, come qualcuno che si cucina un piatto che ha voglia di mangiare”.
La cinquantenne Fred Vargas ha esordito nel 1986. Ci fu chi ironizzò sui suoi gialli “infantili”, senza capire che erano proprio la libertà e freschezza l’aspetto più innovativo dei suoi libri. Ha sempre avuto la passione della ricostruzione della verità, prima come archeologa, poi come studiosa dell’epidemiologia della peste, e di recente di quella dell’influenza aviaria, di cui ha progettato una protezione e continua ad aggiornarsi sulle mutazioni del virus. Con lo stesso spirito analitico (alla Danglard, dice, il vice del commissario Adamsberg) si è impegnata nell'analisi delle carte processuali del caso Cesare Battisti. Una vita di ricerca di soluzioni, come i detective dei gialli. E il conto torna, anche nel suo ultimo romanzo. Al centro, anche qui, la propagazione di un contagio, quello dei vampiri, e la violenza contro il capro espiatorio. Best-seller assoluto in Francia, parla di tombe e di vampiri. E’ anche per questo che andando a casa di Fred Vargas, in questi giorni, ho visitato più volte il cimitero monumentale di Montparnasse, cercando celebri tombe senza trovarle, per quanto indicate nei cartelli? Non sarà che si spostano, come i non-morti del suo romanzo?
Un luogo incerto si ispira a una storia vera e documentata, quella di un vampiro del 1725 su cui disquisirono intellettuali e regnanti, da Voltaire a Luigi XV. “Era un fatto molto noto che rilanciò in Europa il gusto e la problematica del vampirismo, fino a Bram Stoker, che l'ambientò in Romania. Ho fatto molte ricerche storiche – mi dice Fred Vargas – senza però localizzarlo. Avevo praticamente già scritto il libro quando ho scoperto che non solo il villaggio, Kisilievo (in austriaco Kisilova), ma anche la tomba del vampiro Petros Plogojowitz sono in Serbia, e ci sono andata. Ho però mantenuto la mia descrizione: se non invento non mi diverto. Il vero nome del vampiro era Blagojowitz, ma avevo già inventato nel romanzo un gioco con la parola plog, un intercalare, come il suono di ‘una goccia di verità che cade’, che nel corso della storia scandisce le intuizioni del commissario Adamsberg.
E l’idea del vampiro come le è venuta?
“Mio padre mi fece leggere Dracula quando avevo 13 anni, oltre a tutta la letteratura barocca. Esistono tantissime variazioni letterarie. La mia non è una storia di vampiri normale, ma dal punto di vista di chi ha l'ossessione di ucciderli. Il fatto è che ho sempre avuto molta difficoltà a dire perché si uccide, a capire e rendere credibile la pulsione e il movente di un assassino, anche se è d’obbligo. E' la parte più lontana da me dei miei gialli. Coi vampiri ho giocato con la paura che si aveva da bambini. Per scriverlo sono andata via da Parigi quindici giorni, in testa avevo solo la scena iniziale, il cadavere del vecchio fatto a pezzi, e l’idea di fare una storia basata sulla figura di Plogojowitz. Non sapevo nulla di quello che ci sarebbe stato in mezzo. Ho studiato tutto sui vampiri, compreso l’elenco delle maniere per neutralizzarli, come tagliare o legare i piedi dei loro cadaveri per impedirne la deambulazione. La storia era così complicata che avevo paura di non saltarci fuori. A volte conto troppo sulla mia spontaneità”.
A noi lettori piace dei suoi romanzi soprattutto la descrizione della vita quotidiana e l’humour che la pervade. E’ come una magia buona, una magia bianca, contro la magia nera dell’irruzione del male, e che dà consolazione...
“Consolano la nostra naturale ‘anormalità’. Ne L’uomo dai cerchi azzurri anche il cattivo non è così cattivo, e mi sono spesso detta: Fred, devi imparare a scrivere un personaggio davvero cattivo e credibile! Ci ho provato col giudice di Sotto i venti di Nettuno. Persino il cattivissimo colpevole di Un luogo incerto, mentre lo costruivo, diventava simpatico. Come autore devi sapere subito chi è l’assassino, ma siccome lo devi presentare dall’inizio e costruirlo via via, alla fine è difficile abbandonarlo al suo destino di malvagio. I buoni sono facili da scrivere, i malvagi no. Ho scoperto poi che i miei libri sono considerati degli antidepressivi. Ricevo lettere da chi si dichiara consolato dalle mie storie, e c'è perfino una psichiatra che dice di averli prescritti ai suoi pazienti. Beh, allora funziona quella vecchia catarsi dei nostri maestri greci!”
Le chiedo se si identifica in qualcuno dei suoi personaggi.
“Ci sono credo due categorie di scrittori, quelli che inventano personaggi in cui si identificano e quelli, come me, che sono piuttosto degli scrittori-lettori, e non trovano se stessi nel libro. Certo, sono presente nei dialoghi, nei modi di giocare e di guardare la vita, ma rispetto ai miei personaggi sono come un lettore che prova simpatia per l’uno o per l’altro. Sento il fascino di Adamsberg, mi piace, ma mi è molto lontano, e mi annoierei a cena con lui, è troppo silenzioso, non ride, non sa fare le battute. Quando scrivo spesso mi fermo e guardo in alto, come se vedessi un film in cui si svolgono le azioni che devo poi trascrivere. A volte vivono di vita propria e ne sono stupita”.
I suoi libri sono anche forse i primi ad avere come personaggi dei precari, persone che inventano la propria vita, come i pazzi guariti dei racconti di Robert Walser...
“Sono quelli che vengono presi in giro, i poveri, gli anziani, quelli in cerca di giustizia, o come Émil di Un luogo incerto, delinquentello da quattro soldi col suo cagnolino puzzolente, a cui mi sono affezionata molto. Marginali ma non perdenti, rimandano alle figure primitive delle favole, i beati, gli idioti, i vagabondi, che dicono apparentemente delle banalità che invece assumono poi un senso che tutti comprendono. Ci sono i marginali proletari come Émil, o il marinaio bretone, o i normanni di Nei boschi eterni, e quelli intellettuali come gli storici o l’archeologo, fino agli abitanti delle panchine che formano una rete investigativa in Un po’ più in là sulla destra. So che anche lei ama molto le panchine, io non smetterei mai di parlarne”.
E' curioso, lei che è una “scienziata” non scrive gialli positivisti né realisti, ma quasi dei romanzi di cappa e spada contemporanei.
“Non amo il realismo, amo il reale. Né faccio storie che si svolgono in altre epoche, ho bisogno di una storia che cominci mercoledì e finisca sabato. Ma i dialoghi veri che accadono nella vita, nella scrittura sono noiosissimi. Per me è importante il suono delle parole, e i miei personaggi sono reali senza essere realisti. Riguardo allo stile, il primo insegnamento venne da mio padre, che mi fece leggere Nerval troppo presto. Gli dissi che lo trovavo scritto molto bene. Mi rispose: se un libro è scritto bene non diresti mai che è scritto bene; se dici che è scritto bene vuol dire che non è scritto bene. A 14 anni quella frase era un enigma, col tempo mi è divenuta evidente. Così è per la vita, che deve sembrare tale anche se è completamente ricreata nella scrittura. Il giallo è spesso, dietro la sua patina realista, profondamente onirico. Amo molto Hammett, Chandler, amo Camilleri. Non amo i romanzi tristi, in cui i personaggi fanno una vita deprimente e noiosa. E la noia è per me il demonio supremo”.
I suoi romanzi sono il contrario di tristi, questo è un fatto.
“Ma questo aspetto non è valorizzato, non è considerato intelligente. Guardi Alexandre Dumas, emarginato anche dai programmi scolastici. Il Conte di Montecristo ha una potenza incredibile, ci sono frasi e dialoghi memorabili. Edmond Dantès, che si sottrae a una giustizia ingiusta ed esce dall’inferno, è l’eroe che mi ha più sedotto. Lui e Athos, il più etico dei Tre moschettieri”.

[L'intervista appare sul magazine Venerdì di Repubblica in edicola oggi. Il romanzo di Fred Vargas, edito da Einaudi Stile Libero, è in libreria da oggi]

3/07/2009

Jacques Derrida, acrobata sulla corda del pensiero


Quello che segue è un mio omaggio, uscito oggi su La Stampa-Tuttolibri, a un'opera iperbolica, il cui primo volume è Jacques Derrida, Séminaire. La Bête et le Souverain. Volume 1, 2001.2002, Galilée, 480 p., 33 €
Questo è il box sul libro:
Jacques Derrida ha consacrato la maggior parte della sua via all’insegnamento, prima alla Sorbona, poi per vent’anni all’Ecole normale supérieure della rue d’Ulm, e ancora all’École des Hautes études en Sciences Sociales dal 1084 alla sua morte. Ha insegnato anche in molte università del mondo, soprattutto negli Stati Uniti.
Molti suoi libri hanno preso avvio dal suo insegnamento, e la pubblicazione dei suoi seminari all’EHESS, dal 1991 intitolati “Questioni di responsabilità”. Il primo volume, che raccoglie il seminario del 2001-2002, “La bête et le souverain”, è dedicato a concetto di sovranità, e riprende da una parte i motivi politici di Spettri di Marx e Politiche dell’amicizia, dall’altra la riflessione sul tema molto problematico di “animale”, ciò che “resta” da quando, all’inizio della filosofia, è stato definito un “proprio dell’uomo”. Dalla favola di La Fontaine del “Lupo e l’agnello” a Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Lacan, Deleuze ecc., Derrida ha tentato “una sorta di tassonomia delle figure animali del politico”, svelando le analogie inquietanti tra la “bestia” e il “sovrano”, così come tra il sovrano e Dio.

E questo è il mio omaggio:
Penso che Jacques Derrida (1930-2004) non sia stato solo un grande filosofo, ma in un certo senso l’ultimo dei filosofi, in un’epoca, la nostra, distante come poche da questa pratica, questo modo di stare nel mondo. Si ama Derrida (o lo si detesta) anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul serio la filosofia. Non c’è dubbio quindi che chi condivida anche solo un po’ questa serietà, questo uso del tempo – una serietà e un uso del tempo che abbracciano il destino di tutte le pratiche dell’intelligenza non sottomesse a scopi e profitti a breve termine – abbia sentito come una solitudine il suo sparire dalla scena dei viventi. L’importanza di Derrida non è solo nell’avere creato un linguaggio e un “sistema” di pensiero così nuovi e spiazzanti che l’americano Hilary Putnam esclamò che “discutere con lui era come fare a pugni con la nebbia”, e un altro, Richard Rorty, quando non sapeva che pesci prendere, poneva Derrida nell’ambito della letteratura, come una specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e proteggersi così dal coinvolgimento perturbante del suo pensiero. Sì, nella sua opera c’è una “eccedenza” della filosofia, come ebbe a dire lo stesso Derrida a proposito di uno dei suoi maestri, Emmanuel Levinas; eppure tutta la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell’eredità e del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. In questo legame, in quella dedica, c’è onestà, rigore, coerenza, sobrietà, e anche un’intrinseca, dissimulata umiltà, che la si sappia o no vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante virtuosismo dei suoi testi e lezioni. Infine, lui che ha ingaggiato – in nome della scrittura e della traccia, e quindi dell’assenza - un definitivo conflitto contro il mito della presenza, cuore della metafisica, ha saputo impegnarsi fino in fondo in una riflessione sul presente, come mostrava l’ultima sua intervista a Le Monde. Dove parlava della propria morte imminente, ma anche di politica, dell’Europa, di diritti, della pace, di disarmo. Del resto, negli ultimi vent’anni Derrida volse il suo pensiero all’esame di atti e oggetti “sociali”: il dono, il perdono, il segreto, la promessa, la religione, l’ospitalità, ecc., aprendo la filosofia alla necessità dell’etica.
Ora, l’annunciata e già avviata pubblicazione presso Galilée dei corsi e seminari di Jacques Derrida, che si protrarrà per una quarantina d’anni, non è solo un evento editoriale iperbolico e controcorrente, ma un evento filosofico. Prolunga senza di lui (in assenza del mittente e destinatore) la pratica di una gigantesca riflessione che il filosofo nato ad Algeri ha dedicato ai temi della sopravvivenza, della filiazione e trasmissione, dell’eredità, del debito, dell’assenza, e soprattutto della scrittura come pratica della disseminazione – la cui essenza testamentaria è ribadita in tutta la sua opera come contestazione del mito della voce e dello “spirito” (della presenza, come dicevamo). Se l’evento editoriale ha dunque un’analogia con la forma e gli esiti del suo pensiero, esso è anche l’occasione di ripercorrerne la struttura sinuosa, quasi labirintica, soprattutto nei suoi atti di parola.
Derrida, di cui posso testimoniare una sostanziale equivalenza tra lo stile orale e quello scritto, era celebre per smontare ogni volta il tema o l’occasione di ogni sua conferenza o intervento pubblico, per ricomporli poi richiamando e incorporando nel discorso il “qui e ora” della circostanza in cui prendevano forma. I suoi corsi e seminari presentano lo stesso metodo: cucire, tessere in un pensiero vivo e in movimento, di cui si mostrano trama e tessuto, la rilettura dei testi della filosofia occidentale (è questa la sua famosa “decostruzione”, quasi una psicanalisi della tradizione filosofica) e insieme la loro “attualità”. Decostruzione, parola nota e abusata, significa in fondo la pratica della filosofia stessa: esaminare qualsiasi oggetto disincrostandolo dalle abitudini di senso accumulatesi fino alla nostra cecità e assuefazione, ma al tempo stesso rendere conto di quelle attribuzioni di senso che costituiscono la storia della filosofia, il suo corpus testuale interattivo. La pratica dell’interpretazione portata all’estremo dei margini, allude forse a una sorta di “semiosi illimitata” (per dirla col Peirce caro al nostro Umberto Eco). O, detto con una celebre formula di Derrida, la cui radicalità non è stata ancora veramente accolta e prolungata dai suoi pretesi discepoli, il n’y a pas de hors texte (“non c’è un fuori (del) testo”).
I suoi corsi e seminari in boulevard Raspail (sede dell’Ecole des Hautes Etudes, celebre grande Ecole parigina, dove Derrida insegnava le “Istituzioni della Filosofia”) erano più che affollati: nel grande anfiteatro erano molti quelli che occupavano i posti a sedere in anticipo. Spesso anche cameraman e operatori di qualche televisione d’Europa o del mondo venivano a riprendere l’evento del mercoledì. Le tre ore di seminario non erano come un sottofondo di musica su cui ritagliare pensieri propri - come spesso, confesso, sono per me le conferenze. L’argomentazione serrata, paziente e spesso imprevedibile di Derrida era godibile come un “teatro della teoria” (due parole che non a caso hanno la stessa origine), ma con un suspense del pensiero non minore di quello del trapezista che danza su una corda tesa. Esiste infatti un brivido della filosofia, quando essa viene praticata col coraggio della sua radicalità). Poteva capitare che il boato di una risata scaturisse da un’osservazione “teorica”. Nel mensile seminario “ristretto” (quasi altrettanto affollato) si svolgevano anche relazioni di “studenti” (spesso a loro volta docenti altrove). A qualcuno che ripeté più volte l’aggettivo “fallico” nell’analisi di un racconto di Henry James (The figure in the Carpet, molto caro al filosofo), Derrida sbottò contro l’inflazione del termine chiedendo a voce alta: “Ma dove comincia il fallico?” Questione non banale, coerente con un insegnamento che invita a ripensare i margini e i dualismi del pensiero e delle istituzioni. Come nel seminario “politico” pubblicato nel primo volume, La Bestia e il Sovrano: dove comincia l’animalità? E l’umano?

(vedi anche, qui sul sito: http://www.beppesebaste.com/articoli/In%20morte%20di%20Jacques%20Derrida.html)

3/01/2009

La cattiva "Onda" (dove comincia il fascismo 2)

Ho visto il film del giovane tedesco Dennis Gansel, L'Onda, già presentato al festival del cinema di Torino e ora nelle sale. Come è noto riprende un esperimento didattico degli anni ’60 in California, e ambienta ai giorni nostri un gioco di ruolo e di simulazione avviato da un insegnante: per spiegare l’autocrazia (“governo di pochi”) con pochi espediente da pubblicitario fa entrare la classe in un delirio di cui perde via via il controllo. Il film mostra come in una società sazia, anestetizzata e senza memoria, l’irregimentazione e il totalitarismo siano sempre potenzialmente risorgenti. E’ la tentazione di far parte di un “noi”, che ha bisogno di nemici - quelli che non sono come noi – per fortificare la propria identità. Come in ogni fascismo, la responsabilità individuale si perde a favore del gruppo, così come si dissolve ogni giudizio, ogni senso del “giusto”. Nei passaggi veloci della sceneggiatura, efficaci forse proprio per la loro verosimile povertà linguistica, la classe autodenominatasi “l’Onda”, camicia bianca come vessillo di un’appartenenza, l’ignaro insegnante come leader carismatico, esporta con violenza graduale e sistematica la propria identità, prima taggando i muri della città, poi impedendo l’accesso a scuola ai non appartenenti all’Onda e delegittimando i presunti avversari. Poco importa che non abbiano alcun valore o ideale da affermare tranne se stessi: la violenza consolatoria del fare gruppo ripaga ogni “vuoto”, ogni “crisi”, ogni anestesia dell’anima. L’aspetto più raccapricciante e realistico è la miseria delle argomentazioni e la sordità a ogni giudizio critico: non importa quello che dici, se ci critichi vuol dire che hai altri motivi inconfessabili, vuol dire che sei geloso/a di noi, che sei in malafede. Dò per scontato che tutto questo vi debba allarmare e ricordare qualcosa di molto attuale.
(uscito su l'Unità, rubrica domenicale "acchiappafantasmi")