12/27/2012

"Brucia tutto ciò che puoi" (per Ledo Ivo, tradotto da Carlo Bordini)

La persona della fotografia qui a fianco è Carlo Bordini, grande poeta e grande amico, ritratto mentre sta leggendo per me una anzi due poesie di un poeta brasiliano che altrimenti avrei continuato ad ignorare. Si chiama Ledo Ivo. Le due poesie le traduceva impromptu Carlo stesso, dopo averle a lungo assaporate, suppongo. Ero così toccato dalle poesie, ma anche dall'offerta di Carlo (eravamo a tavola nel mio ristorante preferito a Monteverdevecchio, era giugno ed ero da poco stato dimesso dalla riabilitazione in seguito a un'operazione di "chirurgia maggiore"), che l'ho fotografato. Carlo dal canto suo leggendole si era letteralmente, fisicamente commosso mentre le leggeva.

Mentre mi trovo in India, ricevo la notizia della morte del poeta Ledo Ivo, del quale così scrive Carlo in un e-mail agli amici: "è considerato uno dei massimi poeti contemporanei del Brasile. Di lui è stato pubblicato in italiano Requiem (un poemetto ed altre poesie) per l'editrice Besa, nella traduzione di Vera Lucia De Oliveira. Io l'ho conosciuto quest'anno a Lima, al primo festival di poesia di quella città. Era amato da tutti e circondato da un'aura di sacralità. Mi ha regalato un libro di poesie tradotte in spagnolo pubblicato da un editore cileno. Ne ho tradotte un paio che vi mando".

Ecco, non voglio farla lunga, anche se un ricordo tira l'altro (e questo senso di epifania del ricordo, l'idea che ogni istante è già storico, è una delle definizioni del senso di scrivere poesie). Ecco la folgorante, bellissima poesia Brucia, tradotta da Carlo Bordini: ricopiarla e offrirla qui, da dove mi trovo ora, mi fa un ulteriore effetto, come un irradiarsi e prolungarsi di altri sensi, perché non posso dimenticare quanto il bruciare sia qui così importante da riguardare il corpo stesso del poeta, le sue spoglie. Bruciare, sinonimo di "dire la verità". Ringrazio il forte raffreddore che mi ha costretto in una stanza (fortunatamente dotata di wifi) per avermi dato il modo e l'occasione di testimoniare questa poesia, questi poeti, questa verità che (si) brucia.


BRUCIA (poesia di Ledo Ivo, traduz. di Carlo Bordini)

Brucia tutto ciò che puoi:
le lettere d'amore
le bollette telefoniche
la lista dei vestiti sporchi
le scritture e certificati
le confidenze di colleghi risentiti
la confessione interrotta
il poema erotico che ratifica l'impotenza e annunzia l'arteriosclerosi
i ritagli antichi e le fotografie ingiallite.
Non lasciare agli eredi famelici
nessun ricordo di carta.

Sii come i lupi: vivi in una caverna
e mostra alla canaglia delle strade soltanto i denti affilati.
Vivi e muori chiuso come una chiocciola.
Dì sempre di no alla scoria elettronica.

Distruggi le poesie interrotte, i bozzetti, le varianti e i frammenti
che provocano l'orgasmo tardivo dei filologi e glossatori.
Non lasciare ai raccogliori della spazzatura letteraria nessuna briciola.
Non confidare a nessuno il tuo segreto.
La verità non può essere detta.

e questo è Ledo Ivo:

12/22/2012

Buone Feste, Season's Greetings, Nathar Puthu Varuda Valthukkal, Shub Naya Baras, Feliz Navidad etc.



Domani, massimo dopo domani mattina, l'impatto sarà con questi colori, più o meno. E' qui comunque che mi troverò, a Chennai (Madras). Camminare, riposarsi, scrivere, pregare. Ridere, guardare. 
                      

Dopodomani dovrei condividere questa pace, sulla spiaggia di Mamallapuram (Mahabalipuram) - pace che dedico a tutti con tantissimi auguri:

Buone Feste, Season's Greetings, Nathar Puthu Varuda Valthukkal, Shub Naya Baras, Feliz Navidad, Merry Keshmish, Mo'adim Lesimkha, Chena tova, Joyeux Noel et bonne année, Milad Majid, Vesele Vanoce, Kala Christouyenna! etc. etc.



12/21/2012

Il souvenir, Tartaglia, il caimano

Il souvenir: praticamente è un'anticipazione, poiché si tratta di frammenti di uno scritto in corso pubblicati sul Venerdì di Repubblica di oggi, 21 dicembre 2012, un bel numero della rivista dedicato alla "fine della fine del mondo". Dunque eccola.


"Quando il signor nessuno ferì il corpo del re"

   Ricordo il primo istante in cui vidi l’immagine: Berlusconi colla bocca insanguinata e lo sguardo truce, come un pugile ferito. Sembrava un fotomontaggio, la parodia di un film di zombi. Cliccai su un giornale on-line per trovare conferma, e rividi quel primo piano che era già un’icona pop, un evento estetico prima che politico e di cronaca. Abituati al flusso continuo di pose, studiate e intinte di cerone, il volto offeso e per questo inaudito dell’uomo più potente d’Italia, intriso di sofferenza e di odio, e soprattutto di sangue rosso e comune, ci colpiva più della più stramba installazione d’arte, più del meteorite di Maurizio Cattelan che schianta e mette in ginocchio papa Woytila, o del cavallo conficcato nel muro. Il volto di Berlusconi era per una volta nudo, un volto che soffre (s’offre), utopia di una comprensione (una conversione?) che non sarebbe ahimè mai avvenuta. Anzi, la paura che provai guardando quelle foto era per la violenza ulteriore che quel volto sembrava promettere, paura di scorgere nella smorfia della sofferenza un soffio algido di vendetta. (Più tardi mi fece paura il non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e associazioni di idee che quella sequenza di immagini mi suscitava, paura della mia autocensura; come se la politica e soprattutto il pensiero, forieri di conflittualità, dovessero cessare in forza di quell’evento).
   Abbinata a quella del potente insanguinato cogli occhi stretti a fessura, anche dell’aggressore dilagò in tutto il mondo una foto che ne fissava i lineamenti bonari stravolti dallo spasmo per divincolarsi dalla folla, gli occhi atterriti - da sé, dal proprio atto, ma anche dall’altro, come se fosse al cospetto della Medusa. Alla fine di un comizio gremito, nonostante le guardie del corpo, un uomo assolutamente ordinario aveva gettato in faccia a Berlusconi un souvenir (!) del Duomo di Milano. Sotto il peso e la pressione dei corpi che lo sommersero, quando gli agenti lo portarono via salvandolo dalla piazza, l’uomo aveva ripetuto una frase indimenticabile: “Non sono niente, io non sono nessuno”.
   Lessi che era un ingegnere di 42 anni (in realtà aveva solo il diploma di perito elettronico), in cura da anni per problemi psichici, e che quindici anni prima aveva avuto un momento di relativa notorietà per aver brevettato dei “quadri musicali”: “Coniugando la passione per l’elettronica con il gusto per l’arte astratta, M. T. realizzò piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica”. Che l’aggressore avesse rapporti con l’arte astratta - quella che il fido ministro dei Beni culturali Bondi, come aveva ripetuto spesso, e a volte addirittura con candore, non capiva e disprezzava - era forse un’aggravante. Malgrado la sua arma improvvisata a me sembrava inerme, mi sembrava anzi la vittima assoluta.


   Tre anni dopo cammino a Milano nella piazza del Duomo, che non è solo il davanti sterminato invaso dai piccioni, quello di Totò e Peppino col colbacco nel famoso film, ma è anche il lato sinistro col severo Arcivescovado, il lato destro colle vetrine della Rinascente e degli stilisti, e si chiama Piazza del Duomo anche lo spazio sul retro, dove l’antica chiesa di S. Maria Annunziata in Camposanto fronteggia l’abside del Duomo. Mi siedo qui, in un caffè fighetto ma riscaldato, vicino al negozio di articoli sportivi e magliette delle squadre di calcio, Milan compreso, tra il negozio Intimissimo e la libreria San Paolo, dove sotto l’insegna FOOTBALL TEAM Silvio Berlusconi la sera del 13 dicembre 2009 stava in piedi con la faccia ferita tra le auto della scorta a scrutare nel buio. In questa parte di piazza arrivano nuvole di suoni ovattati che ricordano il brusio delle spiagge d’estate: è la folla solitaria dell’ininterrotto shopping nella luce livida di un sabato d’inverno, dispersa in mille rivoli di solitudini ma omogenea nei consumi; e penso alla folla adorante che si radunò quella sera di dicembre ad ascoltare Berlusconi alla festa del Popolo della libertà. Fu un comizio intenso e aggressivo, inaspettatamente contestato da un gruppetto di giovani: anche nella folla più uguale possono esserci variabili “impazzite”. Quando il presidente scese dal palco sul retro, dove si formò il capannello di intimi e audaci, nel brulichio di braccia e di corpi spuntò per caso Massimo Tartaglia, che si trovò di fronte al Presidente. Il modellino del Duomo l’aveva comprato lungo la strada…
   Sappiamo come è andata: Massimo Tartaglia è colui che ha lanciato contro il re un giocattolo, come un bambino contro il padre o la madre. A questo si riducono la protesta politica e la critica? Il fatto che, come qualcuno scrisse, “siamo tutti Massimo Tartaglia”, penso che non significasse propensione alla violenza, ma la messa al bando della politica. Si è infantili oppure malati, e ai bambini si danno le sculacciate, ai matti le pasticche: così, da anni, viene gestito il conflitto, o quel poco che emerge, mentre la politica abdica a se stessa e alla conflittualità. Ma ogni tanto trovo su Internet questa domanda carica di dietrologie: “che fine ha fatto Massimo Tartaglia?” Nessuna fine, ma una quotidianità umile e ordinaria, fatta di rinunce, libertà vigilata, degenza e cura in una comunità terapeutica, dichiarazione di “pericolosità sociale”, obbligo di residenza in un comune dell’hinterland milanese (i “domiciliari”), frequentazione obbligatoria di un centro diurno psichiatrico. Nel frattempo (Galeotto fu Tartaglia), a causa del suo gesto Berlusconi ha incontrato alla clinica San Raffaele, dove si curava la bocca l’igienista dentale Nicole Minetti, che ha intrapreso da allora una certa carriera politica e dalla quale consegue parte delle vicende che hanno portato allo scandalo della prostituzione minorile, alla rivelazione del bunga-bunga e al processo per concussione del presidente, forse addirittura alle sue dimissioni. E al suo conseguente recentissimo revenir, come in francese si dice dei fantasmi: revenant, colui che ritorna (mi piacerebbe molto intervistarlo su questo).
   In effetti non sono andato a Milano soltanto sul luogo raffreddato del delitto, ma per far visita a Massimo Tartaglia a Cesano Boscone, paese per certi versi struggente alla periferia di Milano, dove lui vive. La sua storia mi ha distratto, per empatia, dalla stesura finale di un romanzo horror, dandomi il desiderio di raccontarla. (Poi ho pensato che in fondo non sono opere dissimili – entrambe, l’horror soprattutto, descrivono l’iperrealtà del nostro presente).
   Assolto il 29 giugno 2010 perché giudicato non imputabile, Massimo Tartaglia sta ora molto meglio, e dice di sé: “nella malinconia e nelle mie restrizioni, io sto bene”. La sua condizione di libertà vigilata e di “pericolosità sociale” mi avevano impedito di incontrarlo. Ci siamo scambiati lettere sui suoi quadri (“stile Pollock”, come dice lui), sulla mostre che visitavo io e quelle che visitava lui col centro diurno (“Renoir a Pavia, poi pranzo in un agriturismo”), sulla speranza di abbassare il dosaggio dei suoi farmaci, sui laboratori che frequenta, dalla lavorazione della creta alla psicoterapia di gruppo. L’ultima udienza ha sancito che il sabato e la domenica è libero di girare nel comune di Milano e in quello di Cesano Boscone (tutto il resto della provincia, e del mondo, escluso).
   Eccomi con Massimo Tartaglia in via Dante, nell’unica strada pedonale e lastricata di porfido del minuscolo centro storico di Cesano, silenziosa come una domenica svizzera, in un bar che offre una varietà di caffè con la cioccolata che beviamo parlando di fronte a due vetrine, quella dell’estetista “Le vie del benessere”, col manifesto che reclamizza “L’alba della bellezza”; e quella del negozio di abiti e confezioni con dei cappotti grigi appesi. C’è un sole pallido da qualche parte, come la voce pacata di Massimo, sfibrato dai farmaci, che parla con parsimonia, nessuna parola inutile. Non ha mai fatto politica. Ma nel periodo precedente al suo gesto “sentiva di vivere come un film nella realtà, un film della realtà”: serate passate a indignarsi davanti ai talk-show politici in tv. Riteneva come tanti che il responsabile della spettacolarizzazione della politica fosse lui, Berlusconi, un leader immorale che faceva cose indegne del suo ruolo istituzionale e internazionale, come certe battute contro le donne, le offese agli Italiani quando diede dei ‘coglioni’ a chi non lo votava. Era come se il successo, la ricchezza, l’arroganza e il disprezzo delle regole che Berlusconi ostentava, lo avessero sfregiato, perché Massimo Tartaglia è, all’opposto, un onesto e talentuoso perdente la cui vita è costellata di insuccessi, dal voto minimo alla maturità (per problemi di salute), al non trovare lavoro.
   Verso i trent’anni costituì con un amico una società di assemblaggio elettronico che si occupava anche di riparazioni di macchine timbra biglietti, nastri inchiostrati, schede elettroniche, con la supervisione del padre. Nel 2005 registrò il brevetto italiano di invenzione industriale coi suoi “quadri musicali”, esteso nel 2006 all’Europa: “il peggiore investimento della mia vita”, dice. Oggi quei brevetti sono scaduti, ma considera i suoi quadri musicali “una pacchianata superata dalla tecnologia: non so nemmeno come ho fatto a crederci tanto allora, forse per via del riconoscimento avuto dall’Obiettivo ICT (del Politecnico di Milano), che mi selezionò dandomi l’input per proseguire, ma senza investitori è stato tutto fumo e niente arrosto”.
   In dicembre 2009 aveva abbandonato la “presa della Pastiglia”, scherza Tartaglia, era quindi scoperto e ipersensibile. Quel giorno era nuvoloso, e lui depresso e nervoso, la ragazza conosciuta da poco gli aveva dato buca, era andata in montagna con un altro. Seppe dalla tv dell’adunata per il tesseramento del Popolo della Libertà, e quasi senza accorgersene si incamminò verso il centro. C’era una musica a volume altissimo che intontiva, come nelle vendite multilevel che aveva conosciuto frequentando corsi e incontri di tecniche di vendita, le stesse adottate nei comizi. Ma si stufò presto di ascoltare, stava per andarsene alla metro facendo il giro del Duomo quando lo richiamarono le urla dei contestatori. Tornò passando dietro al palco, di fianco all’abside del Duomo. “Non l’avessi mai fatto: c’era la macchina del Presidente già disposta per andarsene, e Berlusconi giù dal palco a farsi un bagno di folla, dare la mano alla gente, proprio verso di me; e io, lì in mezzo alla folla, la musica che inneggiava al Popolo della Libertà portata all’apice, io mi sono suicidato…”
   Tartaglia scrisse in seguito una lettera di scuse a Berlusconi, dicendo tra l’altro di avere compiuto quel gesto come atto simbolico nei confronti di una persona che avrebbe potuto essere suo padre. “Una sorta di suicidio rivolto alla causa presunta dei miei problemi”.
   Sulla main street di Cesano Boscone, che sfocia sulla Vigevanese, una strada trafficata e rumorosa coi marciapiedi larghi, supermercati con parcheggio e grandi pizzerie, Massimo mi confida il suo sogno di fare volontariato al Centro Recupero Animali Selvatici del WWF: “dare un aiuto ai più deboli, a chi è in difficoltà, per esempio aiutare a restare nella natura un rapace sparato a cui abbiano rotto una zampa”. Il problema è che è ancora in libertà vigilata, e il servizio sarebbe in un bosco fuori dal suo comune di residenza. Mi parla di un’aquila reale a cui un cacciatore aveva sparato alle ali, che “invece di essere stata soppressa è nella gabbia didattica, come un pollo, senza un’ala, anche se le zampe e gli artigli sono ancora robusti”.
   Nel nuovo parco Pertini, una grande distesa d’erba cinta da alberi che mi ricorda il parco di Blow up, mentre i bambini giocano sui prati Massimo continua a raccontarmi: “Subito dopo il mio gesto, i nostri sguardi si sono incrociati una volta, quello di Berlusconi era molto minaccioso…” “…In Questura ho ripetuto che non ero nessuno, poi sono scoppiato a piangere”... 

Venerdì di Repubblica, 21-12-2012, Beppe Sebaste (frammento di un romanzo in corso)

11/06/2012

Le infinite cornici del mondo

   “La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi” (Luigi Ghirri). “Ogni mia opera, per estensione, è una fotografia: implica un’ottica fotografica, anche quando non lo è materialmente (nel senso che fotografa un gesto, una distanza o perfino un’assenza), tende cioè ad illustrare il momento di eternità dell’immagine. Fotografia e disegno sembrano insomma condividere l’attitudine - che vorrei chiamare vocazione - a far trasparire: la trasparenza non ha fine, tende all’infinito, non fa ‘immagine’ ma  fa ‘immaginare’, vedere sempre al di là del limite contingente” (Giulio Paolini).
   Luigi Ghirri, fotografo reggiano che l’anno prossimo avrebbe settant’anni (ma è morto nel 1992), e Giulio Paolini, artista quasi coetaneo, genovese trapiantato a Torino, non ebbero mai l’occasione di conoscersi, e ora per la prima volta si incontrano, e felicemente, in una mostra a Milano, La soglia dell’invisibile”, nell’appena inaugurata galleria Repetto Projects, via Senato 24 (fino al 17 novembre).
   Le citazioni riportate sopra, suggerite del curatore Daniele De Lonti (già assistente di Luigi Ghirri), guidano il visitatore: 12 fotografie di Ghirri tratte dal ciclo Kodachrome (1978), suo primo libro (di cui si annuncia una nuova edizione), si combinano sapientemente, rivelando allusioni “casuali” e illuminanti, con 12 collages di Paolini, sia recenti che degli anni ’70. Il non ultimo senso di questo incontro, per noi ammirati spettatori, è anche nel ricordare e affermare, oggi, la comune origine concettuale, d’avanguardia, dei due artisti. In un’epoca di eclissi del pensiero, dove tutto è possibile a patto che sia superficiale e senza impegno, sul modello di fluidità narrativa della fiction, la loro rigorosa riflessione linguistica sull’immagine è più che salutare: necessaria. La loro pensosità - più nota ed evidente in Paolini, occultata dal successo e dal retorico cliché che ha fatto di Ghirri un fotografo del “paesaggio” – denuncia in modi non dissimili l’omologazione del visibile e quella del territorio (nessuno è più capace di vedere niente del mondo esterno, diceva Ghirri alla fine degli anni ’80).  
  La mostra è un dialogo tra due artisti che non esitano a interrogare e trasformare di continuo sia i propri tradizionali strumenti di lavoro che la storia dell’arte, la storia delle immagini del mondo, travalicando i confini di fotografia e pittura. Due maestri del vedere, nel senso stretto e autentico della parola, due maestri del dire e immaginare mondi, d rendere cioè infinito il mondo nella finitezza dell’immagine. Entrambi amici di scrittori (di Paolini ricordo il bellissimo libro einaudiano anni ’70, Idem, col testo di Italo Calvino, e il recente L'autore che credeva di esistere, edito da Johan & Levi), proprio come la scrittura inquadrano e racchiudono pezzi di mondo nelle loro opere-cornici, sapendo che esse stesse sono mondo. “Non c’è nulla fuori dal testo”, enunciava con serissima ironia Jacques Derrida nel 1971: per quanto fare arte sia fare cornici, non c’è un fuori dell’immagine, come non c’è un fuori testo, e l’infinito è lì, se lo sai vedere, appeso a una parete o nella pagina di un libro. 
(articolo pubblicato su l'Unità di domenica 4 novembre 2012)

10/26/2012

Per Tim Willocks, e per i suoi Re macchiati di sangue


   Quella che segue è la versione appena più lunga del pezzo uscito oggi 26-10-2012 su Venerdì di Repubblica ("Il mio western da veri duri che combatte il male a colpi di tenerezza", dedicata a Tim Willocks).

   Ha scritto Linwood Barclay che non si è mai pronti a leggere un romanzo di Tim Willocks più di quanto lo si possa essere prima di salire sulle montagne russe, e questo vale soprattutto per Re macchiati di sangue, appena uscito per Revolver (trad. di Katia Bagnoli,  pag. 432, euro 14,50). Anch’io sono un ammiratore di Tim Willocks. Lo sono non perché lui sia autore di polizieschi e thriller (Bad city blues, Il fine ultimo della creazione), romanzi storici (Religion, primo di una trilogia), ma perché ne evade i confini per rifondare un’epica contemporanea con una lingua contemporanea. Se dovessimo poi definire un genere, credo che la parola “western”, nella sua ambiguità, sia la più idonea a descrivere i romanzi di Tim Willocks.
   L’eroe dunque di questo western contemporaneo che è Re macchiati di sangue e si svolge in Louisiana, è uno strano doc, uno psichiatra depresso e fuori posto che, tra esplosioni di cieca violenza umana e fiumi di sangue, trova il tempo di ricucire le orecchie di un enorme cane lupo del quale è l’unico a non avere paura, e dalla cui amicizia sarà ricompensato. Come nei migliori romanzi sono infatti le pause e gli interstizi dell’azione che più ci emozionano. Il male è esattamente ciò che vuole cancellare “la beatitudine della tenerezza”. Per togliere il sangue rappreso sul volto di un uomo ferito a morte “dovette inumidire il fazzoletto con la saliva, proprio come faceva il padre con lui da piccolo”. Un po’ come l’eroe di quel capolavoro che è Religion, che nel bel mezzo della guerra più cruenta mai raccontata (l’assedio di Malta del 1565), ferito e febbricitante si perde a guardare le infinite sfumature di rosa nell’ordito di un tessuto, e in quel rosa riscopre le connessioni universali di tutto con tutto, e sarà questo a salvagli la vita.
   Tutte le storie di Willocks ridonano senso a parole come bene, male, eroe, padre, madre, figlio, guerra, amore, odio. Non vi si descrive solo la banalità del male, incarnato da temibili personaggi, ma la futilità della sofferenza, l’illogicità della violenza e della pretesa di capirla. A volte si spera in un ordine superiore (“Hai ragione, c’è troppo odio nel mondo. Ma dovrà pure servire a qualcosa, altrimenti non esisterebbe”). E c’è infine la qualità della scrittura. Mentre oggi i romanzi “di genere” sembrano sceneggiature, scritte goffamente “con” delle parole, la lingua di Tim Willocks è ricca, duttile, e coprotagonista delle storie. Sa raccontare i gesti di un fabbro che costruisce un coltello, descrivere una battaglia disperata e un amore struggente come musica jazz. E il pacifico paesaggio delle pianure alluvionali del fiume Ohopee, prima che esploda la violenza.
   Inglese di Manchester, cintura nera di karate, Tim Willocks scriveva già racconti durante gli studi in medicina, sfociati nella professione di psichiatra specializzato in dipendenze da droga. E’ un lavoro che ha lasciato alle spalle, così come la permanenza negli Usa dove lavorò come sceneggiatore con, tra gli altri, Spielberg, Michael Mann e Dennis Hopper, e da cui è tornato portandosi addosso la fama di una love story con Madonna (ciò di cui gli amici parlano rigorosamente alle sue spalle), e di essere stato coautore del Discorso per il Nuovo Millennio di Bill Clinton. Vive in un posto isolato dell’Irlanda, ma per fortuna (nostra) viene spesso anche in Italia, a Roma e soprattutto al festival del blues di Piacenza, dove si trovano ogni anno musicisti e scrittori che-non-se-la-tirano, e che amano appunto il blues. Ed è lì che ci siamo conosciuti anni fa...

9/15/2012

Per Roberto Roversi

Due parole a caldo, se no non le dico più. Di Roberto Roversi leggerete ,spero, nei luoghi appositi, tutte le opportune informazioni (grandissimo poeta, ma anche per esempio direttore responsabile del giornale Lotta continua in anni difficili). Io vi dico che Roberto Roversi era proprio come lo vedete in questa foto, era così, così limpido. Era uno degli ultimi amici anziani, maestro di fermezza, di sincerità. Di serietà, vorrei dire, nel vivere. Ma non lo vedevo più, non ho risposto ai suoi inviti di questi ultimi anni e mi dispiace molto. (Ma è lui ad aver scritto: "E' inutile chiedere "resta" / se qualcuno vuole partire"). Lo conobbi che avevo 19 anni e stavo a Bologna, e lo andavo a trovare nella sua libreria, soprattutto quando ero triste e desolato, quando mi sentivo troppo solo. Lì potevo restare anche in silenzio, anche a lungo. Accompagnai da lui l'amico Carlo Bordini col manoscritto di Strategia con la  sua storia pazzesca alle spalle (all'origine del suo poema che divenne libro), e fu l'inizio per loro di una bella relazione... Una sera a casa sua mi parlò del suo amore per la pittura di Pollock, eccetera eccetera. Ma basta ricordi personali. Leggetelo, leggete le sue poesie: anche se era uno dei più importanti poeti italiani dell'ultimo secolo ha sempre rifuggito gli editori importanti e valorizzati, e quindi non sarà facilissimo trovare la sua opera, ma cercatela e la troverete. Nel 2008 per l'editore luca sossella è uscita, a cura di Marco Giovenale, una raccolta di suoi testi magnifici, dal 1059 al 2004, col titolo così splendidamente suo e così assurdamente umile: "Tre poesie e alcune prose".

9/07/2012

Questa guerra mondiale chiamata "crisi" (un appello a trovare le parole per dirla)


   Nel suo film Il primo uomo, Gianni Amelio attribuisce al bambino Albert Camus questa domanda alla madre: “Chi sono i poveri?” Lei: “Sono quelli come noi”. Il bambino è sollevato: “Se i poveri siamo noi, allora va tutto bene”. Non mi soffermo sulla portata etica immensa di questa bellissima frase. Sto cercando di capire la portata di questa famosa crisi economica che investe l’Europa e che nessuno sembra saper descrivere fuori dal pensiero unico e dal lessico tecnocratico finanziario.
   Alcuni giorni fa, parlando della crisi con l’amico Tim Willocks, scrittore inglese che abita in Irlanda, ci siamo accorti con disagio di non trovare le parole. Come se tra gli effetti della crisi (o i suoi moventi?) ci fosse anche annichilire il senso critico e l’immaginazione; come se la finanza non avesse fagocitato solo l’economia, ma anche la politica, la democrazia, il linguaggio. Ma è il compito degli scrittori coniare parole, immaginare mondi possibili, dare nuove diverse declinazioni di “realtà”. Idea, allora, di lanciare un passaparola, se non un appello, agli scrittori europei: scrivere ognuno qualcosa su questa “crisi” che sta modificando il mondo.
   Intanto John Berger, scrittore inglese che vive in Francia, su le Monde (20/7/12) ha definito la “crisi” una tirannia mondiale, distinta da quelle passate per l’assenza di un volto del tiranno. E’ un nuovo dispotismo, conferma il filosofo Jean-Clet Martin, sovranazionale come vuole la globalizzazione: da quale luogo virtuale o trascendentale le agenzie di rating danno e tolgono ai Paesi europei le loro famose triple A? In tutti i casi da un luogo immune dalla politica. Forma linguistica di questo dispotismo è l’imperativo contraddittorio (double bind, direbbe Gregory Bateson), cioè “una regola di fronte a cui la situazione si aggrava quando le si obbedisce, e per effetto di averle obbedito”. Un Paese che seguisse i criteri dell’agenzia Standard & Poor’s per meritare la AAA colerebbe a picco, creando disoccupazione e impoverimento. Come la Grecia, modello per gli altri Paesi detti pigs. Tener conto delle ingiunzioni del dispotismo finanziario porta a una spirale infernale che glorifica gli interessi della speculazione contro quelli dell’economia “reale”, basata sull’azione degli uomini.
   Cosa c’è di più temibile in questa crisi? Che saremo tutti più poveri? No, il problema è che i poveri sono sempre gli “altri”. Allora “crisi” è un eufemismo, e quella “rivolta dei ricchi contro i poveri”, come definì schiettamente gli anni ’80 il grande scrittore Max Frisch, è diventata ora una guerra mondiale.

(articolo uscito sull'ultima pagina - "zona critica" - di Venerdì di Repubblica del 7 settembre 2012)  

8/10/2012

L'ultimo sogno di Theo Angelopoulos

(Fotodal set di Ardalan Nabavinejad)
"Storia del film interrotto sulla crisi girato su un set in piena crisi". Articolo scritto con Valerio Jalongo, uscito su Venerdì di Repubblica il 10 agosto 2012.

 Una volta il regista Theo Angelopoulos raccontò di essere andato al cinema la prima volta a 5 o 6 anni, e di avere visto Angeli con la faccia sporca di Michael Curtiz, in cui James Cagney interpreta il ruolo di un gangster condannato a morte. “Il cinema entrò nella mia vita con un grido, quello di un uomo che non vuole morire e che invece muore. Ho spesso pensato che fu questa forse l’origine della mia vocazione, del mio amore per il cinema”. La confessione aderisce come una didascalia estetica e politica all’ultimo progetto di Angelopoulos, perseguito con accanimento tra mille difficoltà, un film incompiuto e privo di finanziamenti sulla crisi economica. La sua morte sul set, tragedia nella più ampia tragedia della Grecia, è avvenuta mentre un intero popolo stava perdendo la possibilità di autodeterminarsi, figuriamoci quella di raccontarsi.
   Quando un film non è un documento, ha scritto Ingmar Bergman, allora è un sogno. Nel caso del film di Angelopoulos si tratta di entrambi: un sogno la cui fragilità è documento della crisi profonda che sgomenta l’Europa, e a cui anche gli eredi di Bertolt Brecht, pur riconoscendo il grande valore dell’opera di Angelopoulos, hanno inferto un duro colpo negandogli il consenso di usare brani de L’opera da tre soldi, a cui il film era ispirato. Anche se è noto che i diritti di Brecht non vengono dati quasi a nessuno, Theo era convinto che sarebbe riuscito a convincere gli eredi, e andò avanti nelle riprese.
   A raccontarci questa storia è Ardalan Nabavinejad, assistente alla regia di Angelopoulos in questo film, iraniano, laureato Dams e neo-diplomato all’istituto Cine-Tv Rossellini di Roma. Un buon luogo per evocare questa storia emblematica del presente, che riguarda il destino della cultura, del cinema e di altre cose inutili e necessarie. In questo ex studio di produzione Ponti-De Laurentis furono girati celebri film, da La Strada di Fellini a Il Caimano di Moretti, e non a caso da qui Mario Monicelli perorò due anni fa gli studenti a ribellarsi, a fare le barricate contro i tagli alla cultura.
   Poco prima del colpo di stato dei colonnelli, Theo Angelopoulos tornò in Grecia dalla Francia. Fu coinvolto nelle manifestazioni e nella violenta repressione poliziesca, ricevette perfino delle manganellate, e decise di restare perché qualcosa di importante stava accadendo nel suo Paese. Per il suo ultimo film sentì la stessa urgenza storica di testimoniare una situazione forse altrettanto grave, e provò analoghe difficoltà, come girare un film senza mezzi o senza il permesso (lo fece per La Recita, suo capolavoro), anche se stavolta la costrizione era dettata da condizioni economiche. Ma si possono separare le condizioni economiche da quelle politiche? La trama del film tocca l’immigrazione: la Grecia come terra d’arrivo di immigrati da Iran, Afghanistan e Pakistan. Il protagonista, interpretato da Toni Servillo, è un funzionario corrotto che specula  sull’immigrazione clandestina, la cui figlia è invece un’attrice che sta mettendo in scena L’opera da tre soldi di Brecht, va alle manifestazioni di estrema sinistra a favore dei diritti degli immigrati e si fidanza con uno di loro. Ma è difficile parlare di un film di cui è stato girato solo un terzo del totale, conoscendo inoltre le doti di improvvisatore di Angelopoulos.
   Fuori dal film, intanto, mentre la situazione greca precipita, i finanziamenti da parte del produttore greco e quello turco vengono meno, ma Theo decide di andare avanti lo stesso, con un’ostinazione struggente nonostante il moltiplicarsi di segnali negativi. Quasi nessuno nella troupe è pagato, ma tutti pensano che sia importante fare questo film, e comunque non c’è lavoro. La produzione poggia sempre di più sull’economia personale del regista, mettendone in pericolo il patrimonio. La tensione nella sua stessa famiglia è palpabile, ma Theo si sente vivo solo quando è sul set. Il set è una casetta ricostruita nel porto del Pireo. La moglie del proprietario di un piccolo chiosco del porto cucina per la troupe: un panino con la frittata. Orari massacranti, Theo pretende il massimo, come se fosse un film “normale”, pienamente finanziato. Entrare nel set è come entrare in casa sua: la moglie e la prima figlia lavorano nella produzione, un’altra figlia alla scenografia e la più piccola collabora alla regia. Abituato a produzioni ricche, all’inizio Angelopoulos non accetta la penuria di mezzi. Una notte mezza troupe è completamente fradicia e gelata per i tentativi di fare un effetto pioggia, ma Theo si rifiuta di girare perché il risultato non è soddisfacente, e pretende una troupe italiana specializzata nella pioggia artificiale. Il direttore della fotografia e i macchinisti lo conoscono bene, sanno che il regista può essere molto creativo ma anche duro ed esigente, e gli sono fedeli. Persino gli altri della troupe capiscono, lo amano e lo rispettano. D’altronde, ha il rispetto di tutti i Greci. Quando si doveva bloccare una strada provocando ingorghi, camionisti, autisti e automobilisti spegnevano il motore senza protestare e aspettavano in silenzio, sapendo che era per permettere la lavorazione di un film di Angelopoulos. Anche se molti non vedevano i suoi film, era sentito come l’alfiere di una dignità nazionale negata in quel momento di crisi, in cui la sovranità del Paese era ipotecata dalle banche. Ricordiamoci che in quel periodo Grecia, Portogallo, Spagna e Italia vengono definite dal mondo finanziario pigs: porci. La scomparsa di Angelopoulos, nel momento in cui un popolo sta perdendo la propria sovranità, in cui un paese, la sua civiltà, un’intera nazione sono valutate dalle agenzie di rating, assume un significato particolarmente forte, una simbolica perdita della propria voce.
   Tutti avevano sconsigliato al regista la scelta di quel set alla periferia del Pireo in cui avvenne l’incidente fatale. La polizia propose due volte di bloccare il traffico, visto che era all’uscita di un tunnel e prossimo a uno svincolo, e le auto arrivavano a grande velocità. Ogni volta Theo rifiutò, perché quello che lui voleva era il traffico vero.
   Accade dunque nella Periferia Drapetsonos, una specie di circonvallazione veloce a doppia corsia. |Ci sono tre Tir carichi di materiali parcheggiati, e una gru che sta riprendendo un piano sequenza all’inizio di un viadotto; all’improvviso sopravviene una moto di grossa cilindrata che investe il regista scaraventandolo nello spazio interstiziale, la fessura tra le due corsie. Sono le 18,30. Il corpo, nella posa innaturale di un manichino, resta lì in bilico a lungo. Per ovvie ragioni: quel giorno c’è lo sciopero anche delle ambulanze. Circa 40 minuti dopo l’incidente ne passa una per caso (è in riposo), e subito si fa carico di soccorrere il regista. Muore alle 23,30 circa.
   La morte, così come il lavoro o l’interruzione del lavoro, scandiscono e avvolgono tutto il film. La prima scena era già una tragedia greca: la morte di un operaio che si suicida gettandosi dal tetto di una fabbrica, seguita da una manifestazione con la salma del lavoratore nella bara. Il giorno del funerale di Angelopoulos coincide con quello in cui il piano di lavorazione del film prevede un funerale. La seconda figlia di Theo, che già non riesce ad accettare la morte del padre, chiede alla troupe di venire a filmarne il funerale come se fosse parte del film: carrello, macchina da presa, tutto. Il regista amava molto la pioggia: e nel cimitero avviene l’ultimo omaggio estetico, quello degli ombrelli aperti... 
   Guardiamo il video di una festa improvvisata con la troupe, in un alba livida e fredda al Pireo, tutti hanno cappelli o fazzoletti sulla testa, cantano e danzano al suono di un clarinetto struggente e una fisarmonica per commemorare Angelopoulos a una settimana della morte. La casa che ospitava il set ora accoglie dei rifugiati. Ecco, andare oltre il lutto, sarebbe bello fare un film su quel film necessario e impossibile da tre soldi.


[Il cinema di Theo Angelopoulos (1035-2012) ha un’ispirazione politica e marxista, e si rifà all'idea del teatro epico di Brecht, e colpisce che proprio gli eredi di Brecht dovessero tradirlo. Formatosi in Francia, studi di Lettere alla Sorbona, per quanto molto diverso da Godard condivise con lui l’idea di un cinema “difficile”, manifestazione anche di una coscienza politica coinvolgente. Nei suoi film (da Ricostruzione di un delitto, 1970 a La polvere del tempo, 2009) dominano i leggendari piani sequenza, lenti e lunghissimi, all’interno dei quali a volte può succedere che si passi da un periodo all'altro della storia dei protagonisti - come ne La Recita, che intreccia passato, presente e mitologia greca.]

8/05/2012

La finestra sul mare (reportage estivo da Ostia)

(versione corretta del pezzo apparso domenica 6 agosto su Repubblica-Roma, per la serie "Vacanze d'autore")


   Anche se è grande e popolata come una città, mi piace che Ostia sia solo un distretto di Roma col mare. Quella di Lido centro sembra una vera stazione, anche se ci arriva solo il trenino che parte dalla Piramide, e da lì è bello camminare in via della Pineta o nella strettissima via dei Fabbri Navali, nucleo originario di Ostia che ricorda l’atmosfera di Monteverdevecchio o del Gianicolo. In via degli Acilii c’era un’osteria in un giardino, sotto una tettoia di vigna, “da Oscar”, oggi solo rivendita di vino per gli intimi. Sembra di stare in un altro mondo. Suppongo però che devo parlare di spiagge.

   Le più eleganti sono quelle di levante (le più “esclusive” sono ancora più giù, verso Castelfusano, dove le cabine si tramandano in famiglia), ma io vado a ponente, nella cosiddetta “Ostia destra” – a destra del pontile. E’ più povera, il lungomare si restringe e le case sono condomini in puro stile geometrile anni ’60 e ’70, salvo le ex colonie fasciste in cui il sindaco Alemanno vorrebbe fare un casinò, e che per ora ospitano, perfetta nèmesi, una varietà di minoranze e di disagiati: la moschea, la mensa della Caritas, vari alloggi abitati da colorati extracomunitari, e la bellissima biblioteca Elsa Morante, rifugio di quegli speciali disadattati che siamo noi lettori di libri. Il tratto di lungomare chiamato Duca degli Abruzzi, poco più avanti, fino a qualche anno fa era addirittura malfamato, ma ha il privilegio di offrire il sollievo della vista di mare e spiagge libere a chi cammina - sul lungomare appunto, non “lungomuro” come quasi ovunque a Ostia. Alla fine del lungomare di ponente c’è il nuovo porto turistico, e in estate il sole tramonta così esattamente alla fine della strada da farle meritare l’appellativo di Sunset boulevard...

   Dopo il porto turistico c’è l’Idroscalo. Era una sorta di favela sulla foce del Tevere, cosi chiamata per gli idrovolanti che nel ventennio fascista partivano da qui (Fiumicino sarebbe nata più tardi). Ci si arriva lasciandosi alle spalle i palazzoni edificati per i senza casa dal sindaco Petroselli negli anni ’80, si costeggiano i cantieri navali coi lussuosi yachts, e l’oasi della Lipu con il monumento a Pier Paolo Pasolini (nel luogo preciso in cui fu ammazzato), dove volteggiano a volte fenicotteri bianchi e rosa. Sulla destra, in una polverosa distesa, l’ottagonale torre di avvistamento progettata da Michelangelo, detta anche “Torre di San Michele”, abbandonata da anni a non essere vista né ad avvistare più nulla. Finché la strada finisce, tra il mare e il nulla, un nulla non privo di dolcezza dai colori pastello, e una spiaggetta rocciosa dove giocano e nuotano soprattutto bambini. La finestrella di una casetta con le foto dei gelati attaccate al muro rivela l’esistenza di un bar che sembra sopravissuto agli anni ’60. Era, e in parte è ancora, un mondo di estremamente poveri e precari, in case e baracche di materiali di risulta, ma con statuine di Padre Pio, vasi di fiori, decorazioni sulle porte. Sembra uscito dal remake di un film di Pier Paolo Pasolini diretto da David Lynch, se penso agli uomini e donne coperti di tatuaggi che vidi anni fa in festose serate estive alla luce rubata dai pali elettrici, animate dal karaoke, da balli e dall’elezione di Miss Idroscalo. E soprattutto alla devozione quasi pagana, forse per questo ancora più religiosa, della festa dell’Assunta il 15 agosto, detta anche Festa del Mare: quando il barcone con la statua lignea della Madonna, i lunghi capelli sciolti come nella canzone di De André, prende il largo, e i poveri festeggiano a fianco delle autorità in una solennità iperreale e sballata, come i fuochi d’artificio fuori sincrono. Catarsi di una comunità disaggregata degna di essere raccontata in un film, oggi dispersa dalle ruspe e dai progetti immobiliari.
   Ho un amico poeta che abita a Ostia destra, con una terrazza sul lungomare e la spiaggia. Vado spesso da lui a pranzo o a cena (è un ottimo cuoco), poi finisce che resto lì per una breve vacanza. Eccomi dunque qui a guardare il mare e la spiaggia dall’alto nell’ora che preferisco, quella in cui si svuota, gli stabilimenti chiudono come gli ombrelloni e tutto acquista luce e spazio abitabile, una petroliera rossa all’orizzonte, e sarebbe bello scendere a nuotare. Ma ecco che alle 19,15 circa gli stessi stabilimenti balneari si cambiano d’abito per la loro second life, annunciata da prove  di colonne sonore, all’inizio appena accennate, poi continue, dilatate in una poltiglia sonora ad altissimo volume. Quando il sole è ormai atterrato da un pezzo all’Idroscalo, e un argento uniforme confonde cielo e mare, a un certo punto un pianoforte classico rivaleggia con l’immancabile Folle idea di Patty Pravo, e tra i due motivi prevale il basso della voce di Louis Armstrong in What a wonderful world: è il segnale. La concorrenza dei bar della spiaggia non risparmia niente e nessuno: percussioni africane versus tromba romantica, Besame mucho contro rock italiano anni ’60, disco music e perfino una soprano dal vivo tra i tavoli di un ristorante. Un brusio-remix che arriva come aromi di cucina portati dal vento in cui si mischiano tra loro pietanze diverse. In cielo resta un vago alone rosa, il resto è buio, il porto turistico con le sue torrette sembra il profilo di un’Istanbul in miniatura, e il popolo dell’happy hour comincia a fluire e invadere le spiagge come zombi teneri e sonnacchiosi. E’ la globalizzazione della sbronza, nel babelico jukebox della notte rutilante. C’è la spiaggia-balera e il piano-bar, il pub e la discoteca e così via, a ognuno la sua musica. A giudicare dal flusso di corpi che dal lungomare entrano negli stabilimenti, la spiaggia è più gremita che di giorno.
   Poi bisognerebbe descrivere l’incanto del mattino presto, il chiarore terso e pulito del mare. Le spiagge vuote e struccate, senza il belletto notturno, percorse dai trattori che le spianano come tosaerba, sorprendono per la loro freschezza nella luce silenziosa del giorno. Certo, di giorno ci si chiede perché quel bar con le capanne sulla sabbia debba chiamarsi Polynesian Cocktailbar, e cos’abbiano di polinesiano i condomini di fronte. Ma questa, del divario tra le parole e le cose, è un’altra e vecchissima storia.

7/15/2012

Il mare nascosto


Su la Repubblica di oggi, pagine di Roma, per la serie "Vacanze d'autore", è uscito questo mio pezzo dedicato a Capalbio. Mantengo il titolo redazionale perché mi piace: "Il mare nascosto". La foto con cui lo illustro l'ho fatta al folle Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint Phalle.

  
   Il bello di Capalbio è che, secondo i valori dominanti, ci si annoia: niente discoteche, niente struscio, niente ostentazione, solo spiagge selvatiche e (apparentemente) poco organizzate, qualche ristorante non dietetico sparso nella campagna un po’ western o nei diradati paesini, molto spazio vuoto e addirittura silenzio. Insomma, un luogo di vacanza controcorrente come i salmoni, o come leggere un libro, e a cui auguro con tutto il cuore di preservarsi. Com’è rilassante infatti stravaccarsi su queste spiagge silenziose, e ancora di più nell’entroterra, una campagna verde di pini e gialla di campi di grano, che si avvicina con filari di eucalipti alla linea del mare, cioè alle dune di macchia mediterranea...
   Il bello è anche che chi già non le conosce difficilmente le trova - le spiagge. La prima volta che capitai sulla costa maremmana tra Lazio e Toscana, a sud dell’Argentario, feci fatica non solo a raccapezzarmi (non trovavo l’accesso al mare), ma anche a capirne il valore d’uso, come cioè si facesse qui una vacanza. Vittima anch’io di uno sguardo turistico, non capivo che la sua bellezza fosse nascosta dalla sua evidenza: in questa campagna armoniosa con tutte le sfumature di verde e di giallo che si estendeva a perdita d’occhio sotto il cielo azzurro in morbide curve, e che ricorda certe copertine di dischi americani rock e blues anni ‘60 e ’70. Scarsa speculazione immobiliare (almeno fino a poco fa), pochi rurali e casali più o meno restaurati, e una serie di graziose e diradate case tutte uguali, presumibilmente di epoca fascista come la bonifica delle paludi, disposte lungo la stradina litoranea che costeggia la laguna, ora riserva del Wwf.
   Ma per una buffa nèmesi questo luogo della Maremma, forse la regione italiana meno spettacolare e consumistica, il cui paesaggio è rimasto intatto grazie, paradossalmente, al latifondo, è stato per anni mediatizzato e reso celebre dalle cronache e dai gossip più che dalla sua bellezza naturale. Se prima del 1988 quasi nessuno conosceva Capalbio, tranne vagamente la tradizione dei suoi butteri e dei suoi cavalli, quell’anno uscì su Venerdì di Repubblica un servizio fotografico (“Il bacio di Capalbio”) in cui il neo segretario del Partito comunista italiano, Achille Occhetto (colui che per scarsa spettacolarità perse contro il padrone delle televisioni), venne immortalato mentre tra gli alberi baciava con passione la sua compagna Aureliana Alberici. Da allora, il comune della Maremma (inopportunamente chiamato da Alberto Asor Rosa “piccola Atene”), venne identificato come covo vacanziero di quella sinistra romana detta “radical-chic”. Il caso (e la retorica) vuole che questa “sinistra” si concentri precisamente sotto gli ombrelloni dell’“Ultima spiaggia” (si chiama proprio così: nomen omen?), e in effetti sono tanti i volti noti e quelli da salutare se ci si attarda ai tavolini del suo bar. Per fortuna la politica, proprio come le news, è una meteora che si consuma in fretta. Oggi tutti quei riferimenti sembrano appartenere al passato. Perfino Berlusconi, figuriamoci i suoi concorrenti.
   L’oasi del Wwf si trova sulla Strada Provinciale del Chiarone, in direzione Capalbio Scalo (che è poi la stazione ferroviaria, il cui Bar Station è uno dei luoghi mondani della zona). E’ un paradiso di pesci e uccelli, sia rapaci che di palude, tra cui tre specie di falco, cormorani, fenicotteri, aironi, il Cavaliere d’Italia e l’avocetta - e di flora mediterranea (oltre 600 specie, più 60 specie di licheni). Punto d’incontro e di fusione biologica di terra e mare, questo tratto di costa e di orizzonte - le due strisce azzurre del mare e della laguna separate da quella verde delle dune - è di una bellezza incredibile e rasserenante. Dall’altra parte la campagna si alza dolcemente nelle colline rigate e punteggiate dagli ulivi e le vigne, come pagine scritte di un immenso libro aperto e ondulato. Come un segno di punteggiatura, il centro storico di Capalbio è arroccato là sopra: ci si va la sera, a mangiare o a prendere l’aperitivo al Frantoio - che è anche luogo di incontri e mostre d’arte. Ma la mondanità vera si svolge nelle case private.
   Ogni scusa è buona per percorrere, anche in bicicletta, quella campagna, sopra e sotto l’Aurelia che l’attraversa. E a metà strada tra le colline e il mare, e tra Capalbio e Pescia Fiorentina (un paese che non esiste, ma che dà il nome alla parte più bella della campagna, e dove in una corte rurale, una sorta di aia domestica, c’è uno dei ristoranti più amati, il mitico e semplice Tortello), in mezzo alla campagna è anche possibile un’immersione in una dolce e vera follia, annunciata da alcune misteriose chiazze rosse e blu che spuntano sopra il verde degli alberi. Parlo del Giardino dei Tarocchi, le imponenti coloratissime sculture di Niki de Saint Phalle, ispirate ai 22 Arcani Maggiori delle carte dei Tarocchi, che raggiungono anche i 15 metri di altezza.
   E’ un parco che si estende per circa due ettari, costituendo una specie di villaggio di sculture-case circondato da un muro di tufo. Alla realizzazione delle sculture, lavoro che si è protratto tra il 1979 e il 1996, parteciparono numerosi operai, artigiani e altri artisti contemporanei, tra cui il marito di Niki, Jean Tinguely. Dal 1998 è aperto al pubblico, e vale la pena andarci, e lasciarvisi andare come se si fosse sul set di un film di Tim Burton – basta vedere la gioia dei bambini che vi si trovano. Si sale tra le case sculture dalle forme elastiche e improbabili, ricoperte di ceramiche policrome, mosaici a specchio, vetri preziosi, si cammina portati da questa colorata meraviglia che ci riflette tutti, adulti e bambini, tra il cielo azzurro e il verde degli ulivi, finché vediamo il mare là in fondo. E verso Nord, sullo sfondo, incorniciata dal profilo della Luna dei tarocchi, scorgiamo per un attimo la torre cilindrica dell’ex centrale nucleare di Montalto di Castro, simile anch’essa a uno strano, inquietante minareto.








6/29/2012

Passeggiando a Ginevra con Rousseau


da Venerdì di Repubblica del 29 giugno 2012:

"Passeggiando con J.-J. Rousseau a Ginevra trecento anni dopo, tra utopia, spiritualità, banche e orologi"


   Ho vissuto anni sullo sponde del lago di Ginevra, e un lungo solitario inverno su quello di Bienne, cittadina bilingue a nord di Neuchâtel che ha la coincidenza di essere luogo natale di Robert Walser e teatro della Quinta Passeggiata di Rousseau, la più bella delle sue Rêveries, Le passeggiate del sognatore solitario. Al centro del lago di Bienne sorge un isolotto che porta il nome di Rousseau, perché vi soggiornò in esilio. Laghi e isole hanno costellato la vita del filosofo e scrittore ginevrino, costantemente in fuga e affamato di luoghi, tra nostalgia e utopia: isole, les îles, in francese suona come l’esilio, l’exil.
   Anche per questo il terzo centenario della nascita di Rousseau è un tripudio di luoghi di pellegrinaggio “bucolico e romantico”, come recita l’invito alla casa-museo delle Charmettes, nelle Alpi sopra Chambéry, dove Rousseau soggiornò spesso negli anni ’30 del Settecento. Per non parlare del lussureggiante parco di Ermenonville (detto Parco J.-J. Rousseau), non lontano da Parigi, creato dal marchese René de Girardin nel 1765 seguendo la filosofia della natura di Rousseau, e dove questi trascorse le ultime settimane di vita scrivendo le sue Passeggiate. Festeggiare Rousseau è un invito alla vacanza, ma ricordarlo significa passarne in rassegna le numerose, contraddittorie etichette. A Grenoble, una mostra sugli avatars di Jean-Jacques Rousseau ne confronta il ventaglio di presunte reincarnazioni: rivoluzionari del 1789, ecologisti, romantici a vario titolo, resistenti della seconda guerra mondiale, musicisti, scrittori, perfino psicanalisti. Ma Rousseau fu molto di più: il primo dei romantici e il pensatore politico che inventò la democrazia (per alcuni anche lo stato totalitario); l’inventore dei “diritti dell’uomo” (“e del cittadino”: precisazione che li limitò allo Stato-nazione, e quindi al fallimento nel mondo globalizzato) e il fanatico della sincerità, antesignano del mito della trasparenza di Assange e Wikileaks; pedagogista ed educatore civico, fondatore dell’etnologia e dell’antropologia con le sue Confessioni, scrittore ecologista che praticò l’equivalenza del vagabondare coi piedi e con la mente, anticipatore della Wanderung, l’erranza dei romantici tedeschi; infine il critico della civiltà che non anticipò solo la denuncia dell’alienazione di Marx, ma quella della “società dello spettacolo” di Guy Debord, il dominio del tempo libero nel capitalismo maturo. Ci si potrebbe fermare a questo, alla devastante critica di Rousseau all’ottimismo illuminista nel suo primo discorso (Discorso sulle scienze e sulle arti) e nella Lettera a d’Alembert sugli spettacoli, requisitoria sul potere di corruzione dello “spettacolo” come strumento perverso di coercizione. Come molta avanguardia del XX secolo, di Rousseau affascina anche la contraddizione di scrivere contro lo scrivere, denunciare con romanzi il potere di corruzione dei romanzi - così come Debord, ma in fondo anche Godard, hanno fatto cinema contro il cinema.
   Capii meglio Rousseau grazie all’incanto che provavo la sera, a Ginevra, vedendo i poetici riflessi di luce di tutti i colori sull’acqua del lago, seguito dal disincanto del guardare la fonte di quella fantasmagoria, i neon cubitali e aggressivi di banche e multinazionali di tutto il mondo, da Hong Kong a Chicago all’Arabia Saudita. Pensavo all’iperrealtà dei simulacri e alla donchisciottesca lotta di Rousseau contro l’alienazione e l’inautentico, che lo invischiava sempre di più in ciò contro cui si scagliava. Del magistrale studio di Jean Starobinski su Rousseau, La trasparenza e l’ostacolo, restano illuminanti quei due verbi giustapposti, “accusare e sedurre”, con cui spiegò la critica alla società condotta da Rousseau, paradigma di future critiche politiche, ma anche delle avanguardie artistiche. “Accusare e sedurre sembra essere il limite e la condanna di ogni movimento rivoluzionario”, mi ha ripetuto di recente Starobinski. Difficile una resistenza culturale nell’epoca della ragione pubblicitaria che assoggetta ogni linguaggio. “Ricchezza e potenza della società del benessere rendono l’uomo estremamente fragile, al punto di non avere più un’esistenza sensata”.
   Tra tutti i luoghi è quindi giusto ricordare Rousseau passeggiando a Ginevra. Non solo ci è nato il 28 giugno 1712, come ricorda la targa paradossale sul muro di un grande magazzino, sorto al posto della casa natale di Rousseau dopo la sua demolizione. Questa polis, città-Stato, si presta a immaginare utopie, e Rousseau se ne ispirò nel suo Contratto sociale. Ma c’è qualcosa di specifico in questa città, e nella Svizzera in generale (“una repubblica platonico-alberghiera”, la definì Guido Morselli) che riguarda Rousseau ma anche altri illustri svizzeri, da Amiel a Jean-Luc Godard: un misto di pulsioni centrifughe - il viaggio a oltranza, il nomadismo o l’auto-esilio; e centripete - l’autobiografia più estrema, la confessione, il viaggio intorno alla propria camera. Racchiusa da protettive montagne, cosmopolita e provinciale insieme, è una città di una comodità tossica, di una disciplina e ordine nevrotizzanti, ma che spinge a forti avventure interiori. Ci si potrebbe chiedere come mai proprio qui abbiano scelto di stare a un certo punto della loro vita avventurieri come Joseph Conrad, Jorge Luis Borges o Corto Maltese, alias Hugo Pratt. Se io stesso ho resistito anni in questa città è forse per questo, il fascino di essere sradicati-residenti, il gusto del “falso movimento” (come il film di Wim Wenders).
   Nei mesi estivi sembra la Costa azzurra, e le aiuole e i giardini pubblici sono ovunque sgargianti di fiori, dall’Orto Botanico al Jardin Anglais. Si può fare una nuotata nella pausa dal lavoro, prendere il sole e poi tornare in ufficio. E gli alberi secolari nella collina di Cologny tappezzata di ville  sono sontuosi. Nel resto dell’anno però il colore dominante è il grigio nebbioso che unifica lago e cielo in un silenzio freddo e compatto, e sembra che la Svizzera sia solo questo gelo, scandito da un’inflessibile cortesia. La città vecchia, che si arrampica intorno alle guglie della cattedrale, a parte qualche rifugio di avvinazzato diventa così triste che nemmeno la musichina straziante di un carosello per bimbi su una salita può peggiorarla. Soffia la bise, una specie di bora freddissima che raggiunge il culmine se attraversi a piedi la rada su uno di quei ponti silenziosi che attraversano il lago, che poi ridiventa fiume, il Rodano. Uno di questi ponti, di fronte all’Hotel des Bergues, si densifica nell’isola Jean-Jacques Rousseau, con la statua del filosofo seduto su una sedia, a sua volta posata su una pila di libri, e guarda davanti a sé. Ecco, tra le opere per il centenario c’è stato il riposizionamento della statua, che prima dava le spalle alla città guardando il lago e l’aperto, ora è girata. Ho attraversato il ponte e cammino nelle rues basses, il centro commerciale di banche e uffici che alle cinque del pomeriggio è deserto, periferia nel cuore della cité. “Oggi Ginevra è una città fantasma, avvolta da una nebbia bancaria. Le persone escono dalle gioiellerie cariche di diamanti, ma la ricchezza è invisibile, custodita da guardiani protestanti”, mi dice l’amico ginevrino, poeta bilingue, Vince Fasciani. E’ l’essenza del calvinismo: non ostentare, non mostrare il lusso, e nello stesso tempo non mascherarsi (per questo il carnevale qui è proibito). E mi accorgo che le scritte torreggianti dei neon sui palazzi intorno al lago sono cambiate, la globalizzazione è sparita o si è nascosta: tranne Toshiba, Hermès e Chanel, sono solo di banche svizzere e assicurazioni, gioielli e orologi “locali” – Pax Assurances, Piaget, Chopard, Rolex, Patek Philippe, LGT Banque (Suisse). Aspetto di vederne i colori tremolare sul Lemano.