10/26/2011

Commento politico

10/13/2011

Terraferma & Carnage


   Ho visto Terraferma di Emanuele Crialese e l’ho trovato bellissimo. Ho visto Carnage di Roman Polanski e sono stato deluso. Questa critica si rivolge però alla critica (cinematografica), a volte pretestuosa e spocchiosa, che proietta sui film i propri vizi di superficialità e schematismo.

   Penso ad esempio all’accusa di estetismo al film di Crialese: a parte che è il film meno estetico del regista (soprattutto se confrontato all’onirismo di Nuovomondo e al suo celebre mare di latte), perché non mettersi l’anima in pace e riconoscere che sì, i film di Crialese hanno un’intensità pittorica che oggi non ha uguali, e questa sua ricchezza estetica è da ringraziare? Siamo ormai affogati dalle trame, e rischiamo di dimenticare che il narrare è più importante delle storie, che il cinema è soprattutto immagini (in movimento), come la letteratura è fatta di frasi e di toni prima che di soggetti.
   Ma in Terraferma (patrocinato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) c’è altro. Come il dibattito, quasi un’agorà, che a metà film compendia meglio di un trattato di etica la questione dei “beni comuni”. I pescatori parlano del dramma dei “clandestini” che incontrano in mare, del divieto di salvarli. Solo i vecchi dicono la verità e l’evidenza: “le nuove regole sono contro quelle nostre (...), noi dobbiamo rispettare la legge del mare”. Quando un giovane osserva che i clandestini sono una brutta pubblicità per i turisti, ecco la sarcastica risposta del padre: “E’ arrivato il pubblicitario... Secondo te avrei dovuto fare morire gente in mare per la pubblicità?”
   Vengo così alla delusione di Carnage, osannato dai critici. Nonostante la bravura magistrale degli attori e l’eleganza del testo teatrale di Yasmina Reza, scritto in una Francia laica e più che politicamente corretta, appare oggi fuori bersaglio: magari ci fosse ancora qualcosa da smascherare, magari il problema fosse l’ipocrisia, e il napalm della spudoratezza non avesse spazzato via, con le maschere, ogni bene comune e ogni evidenza. L’inferno non sono gli altri, come esclamava Sartre e sottintende Carnage, ma essere condannati, confermati a se stessi. Si ride (moderatamente) finché l’imbarazzo ci sommerge tutt’in una volta alla battuta “dopo aver visto Jane Fonda predicare alla televisione mi è venuta voglia di comprare la camicia del Ku Klux Klan”. E il relativismo della tesi di fondo, che siamo tutti nevrotici e ogni atteggiamento equivale a un altro, è più moralista e falso dell’assolutismo buonista delle magnifiche sorti e progressive.

(articolo uscito per la rubrica "zona critica" su Venerdì di Repubblica del 21 ottobre 2011)

10/11/2011

Biblioteca nomade

  [ Nella primavera del 2003, a Parma dove vissi per un periodo, pubblicai sul giornale locale una descrizione e argomentazione di una rassegna di incontri con amici scrittori che mi ero trovato a curare. Il testo è questo che segue. Lo recupero e lo dedico idealmente all'incontro che si svolge oggi a Roma alla Biblioteca Nazionale, Carte batte forbice ("contro i tagli alla cultura, per le biblioteche come bene comune, per una rivolta del sapere"). E' ancora attuale? Io credo di sì. Il degrado in questi anni è solo aumentato senza cambiare di natura, ma solo di grado, al punto che la realtà è un film horror. Ma l'antidoto resta il medesimo.
   Come autore di Panchine aggiungerei questo: che se il teatro (il Valle occupato, ma ogni teatro) è una grande panchina, la biblioteca è un immensa panchina con dentro una machina del tempo: nulla di più meravigliosamente nomade di una biblioteca.]

   Biblioteca nomade
   Sollecitato da alcuni lettori di questa città [Parma, N.d.R.], vorrei imbastire due o tre pensieri in pubblico a proposito della “letteratura” e del suo ascolto, della sua, detto con una brutta parola, “fruizione”.
   Primo. Biblioteca nomade è il titolo di una serie di incontri con autori che da qualche tempo avviene sotto mio stimolo in un caffè del Parco Ducale di Parma. Scrittori italiani e non solo parlano e leggono brani dei loro libri, e ne “rispondono” al pubblico. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione delle biblioteche civiche del Comune di Parma. Ma cosa significa “biblioteca nomade”? E’ un paradosso, anzi un ossimoro? In realtà è esattamente il contrario, quasi un pleonasma: non esistono libri che non siano in movimento, e lo stesso fenomeno recente del “bookcrossing” (libri abbandonati per essere trovati da lettori fratelli) è ciò che da sempre il concetto di biblioteca pubblica presuppone. Anche senza risalire all’etimologia di biblìon, che significa rotolo e lettera (scrittura quindi destinata e itinerante), “biblioteca nomade” è la biblioteca tout court, il libro che si avvicina al lettore, si offre, condivide il vagabondaggio e l’erranza da sempre presenti nell’atto di scrivere. Qualcosa che accorcia ulteriormente le distanze tra chi scrive e chi legge: comunità di lettori e di scriventi.

   Secondo. Ora, questo ritrovarsi a parlare e ascoltare - in un parco, in una piazza, con le parole giuste, con le parole che non servono a niente, cioè a nessuno di preciso, a nessun progetto definito, solo per il piacere di dire, dire l’autenticità; questo trovarci a raccontare storie, poiché di questo si tratta, è davvero un bel segno, no? Per esempio a Roma, Massenzio, “Festival delle Letterature”, Alice Sebold, l’autrice di Amabili resti. Oppure a Parma, Parco Ducale, “Biblioteca nomade”, Emanuele Trevi che parlava dei suoi Cani del nulla, o Lidia Ravera di La festa è finita. O nei cortili e palazzi di Mantova, al festival settembrino della letteratura… Non è solo perché ci si trova all’aperto, tra tigli, gelsomini e secolari ippocastani (Parma), o pini marittimi, cespugli di bosso e di pitosforo (Roma), ma a me viene in mente Boccaccio, e la sollazzevole compagnia di giovani donne e uomini su a Fiesole durante la peste a Firenze del 1348: “parlare a cospetto della morte”, scrisse un illustre interprete del Decameron. E’ la funzione consolatrice e creativa della letteratura, la sua fecondità, il suo coraggio. E dove si trova oggi, precisamente, la morte? Nella prosecuzione strisciante della guerra in Iraq dopo che sono state ammainate le bandiere dell’iride, nel terrorismo botta-e-risposta di Palestina e Israele, nel nostro sazio stare a guardare, nelle strade delle vacanze, nei cantieri del lavoro, nella violenza dei “giusti”, in quella dei tabaccai che sparano alla schiena dei rapinatori, quella dei rapinatori che sparano al petto di tabaccai e gioiellieri? È dappertutto la morte, come la vita stessa? Un anno fa scrissi in un articolo che l’espressione del nostro più ovvio consenso e assenso, cioè della nostra sovrana indifferenza, ha a che fare con la rimozione della morte: Ok, che nel codice militare significava “nessun morto” (per oggi), zero killed. Okay, il prezzo è giusto, diciamo invece oggi, sottintendendo che non c’è nessun problema, che va bene così, che tutto procede nel giusto verso. Giusto nel senso che tutto torna? E’ poi vero? Ma c’è un resto, c’è sempre un resto, qualcosa che non torna. Per abbreviare: affermo che la letteratura dice quel resto, quel residuo, quell’elemento eterogeneo e inassimilabile che continua a essere, sussistere, forse a disturbare. E che già essere, vivere, significa restare. La vita è resto, letteratura è l’altoparlante, anzi bassoparlante, di tutto ciò che resta, tutto ciò che resiste (è la stessa parola, la stessa origine). Allora è in nostro nome, finalmente, che ci affolliamo a volte ad ascoltare le parole degli altri, gli scrittori, parole così ampie, così inutili, e per questo importanti.

   Terzo (e ultimo). Ma nonostante tutto (e contro i miei stessi interessi) continuo a trovare strano che gli scrittori diano spettacolo (di sé) fuori dalle loro pagine. Trovo stupefacente che abbiano un pubblico per il loro apparire in carne e ossa. Se Thomas Bernhard aveva il vezzo di dire che non esistono autori, ma soltanto libri, io penso invece che non esistano opere che non siano di circostanza, nate in un contesto e radicate in un corpo. E capisco il desiderio di diventare “amico per la pelle” dell’autore che si ama, come diceva Holden-Salinger. Ma, al contrario che nella lettura silenziosa, nella parola viva degli scrittori è impossibile identificarsi: Alfredo Giuliani paragonò lo spettacolo di chi legge i propri versi a quello del trapezista senza rete. E’ una bella immagine, danzare su una corda tesa, suspense adattabile a ogni vero scrivente. Che poi i poeti si riconoscano perché là in mezzo sono quelli che balbettano, questo l’ho già scritto un sacco di volte (la balbuzie come forma matrice della poesia).
   Ancora meno spiegabile è per me che vi siano persone che pagano per frequentare corsi di scrittura. Scrivere è di per sé diventare altro, anzi divenire e basta, senza diventare mai. E allora? Forse è proprio la ricerca di quell’”altro”, di quel “resto”, il movente infinito della loro ricerca. Ogni volta che ho “insegnato” a “scrivere” ho parlato di tutto fuorché di quello: del volto, dell’abitare, di musica, del mondo esterno, della noia. Sarebbe come insegnare a vivere o a morire: si va avanti a tentoni, a metafore, contrappassi, equivalenze. Più si cerca di avvicinarsi all’argomento e affrontarlo di petto, più ce ne si allontana (più guardo una parola da vicino, più essa mi guarda da lontano, avrebbe detto Benjamin citando Karl Kraus). Meglio parlare “d’altro”. L’importante è invitare a dire l’esperienza, qualunque sia, quella che arriva al midollo, senza autocensura. Ma per arrivarci non ci sono “tecniche”, tantomeno verbali. Alla domanda “come stai?” occorrerebbe rispondere una storia, non un avverbio o un commento. Bukowski, quel “vecchio zozzone”, diceva che per scrivere bene “occorre scopare un sacco di donne”, avere la cucina in disordine e vincere alle corse dei cavalli (vincere, non giocare e basta). Un amico poeta ha scritto che non bisogna scrivere per nessuno, oppure scrivere totalmente per qualcuno (forse per questo mi piacciono le lettere e le preghiere). La storia della letteratura, Dante compreso, mostrerebbe che scrivere serve a rimorchiare le donne (o a rimorchiare gli uomini): conversione attraverso la lettura. Tutto il resto è pubblicità (e allora preferisco la politica). Per concludere sui corsi di scrittura, che sempre più spesso vogliono insegnare a raccontare storie, forse l’esempio migliore di equivalenza, di quel parlare d’altro, lo ha dato Raymond Carver: comunque vada a finire la tua storia – disse commentando il racconto di qualcuno – ricordati sempre di non far mancare il latte ai bambini, la mattina.

Ecco perché “biblioteca nomade” è una vacanza dalle parole di tutti i giorni, sì, ma non dalla responsabilità di continuare a vivere e narrare la nostra vita ordinaria.
(Giugno 2003)

10/05/2011

Diario d'ottobre (1). Le prostitute di Reggio

[E' un esperimento, in attesa del nuovo sito-blog, che è pronto da tempo ma ancora non mi decido ad attivarlo. Un diario. Che mentalmente mi sostituisce la rubrica che non scrivo più sull'Unità. Privato-pubblico. Un brogliaccio di note. Senza nessuna censura. Né, spero, autocensura.]

1° ottobre (Reggio Emilia)
   “Si prostituiscono per comprare la casa in Romania”.
   E’ il titolo più strillato delle locandine accanto alle edicole (Reggio Emilia è una delle poche città in cui si guardano ancora volentieri le locandine dei giornali, come nei paesini dell’Umbria, per esempio). Passeggio per la città intontita dal sabato pomeriggio, finché trovo un bar coi tavolini appartato, quasi periferico. E scrivo questo: dire la tenerezza che mi ha suscitato questo titolo, da annoverare tra le buone notizie, good news – esempio di proposito e progetto umile nella globale rapina armata che è il mondo del neo darwinismo sociale, senza avvenire e insaziabile di pretese. Dunque le prostitute di cui titola il giornale di Reggio non si prostituiscono per avere un posto in Parlamento, né in consiglio regionale, né in un’azienda partecipata, e intascare senza merito i soldi dei contribuenti, della collettività, e acquistando potere per compiere ulteriori scalate. No, nel sistema generale della prostituzione loro si offrono a clienti individuali, presumibilmente per strada, in macchina, in qualche stanza, per un progetto semplice e modesto: tornare in Romania e comprare una casa. Mettere su una famiglia. Magari vicino al bosco. Non a Milano o sul lago di Como o in Sardegna, ma in Romania, perché è il loro Paese.
   Forse anche la parola prostituirsi è spropositata. Penso ai mariti e alle mogli che si danno il corpo a vicenda, senza amore e senza gioia, per continuare a vivere sotto lo stesso tetto, nella stessa casa. Loro invece mi comunicano un moto di gioiosa speranza nel loro progetto di acquisto di casa. Hanno un futuro da immaginare. Loro, le prostitute di Reggio (ma ancora per poco), a differenza di noi non si sono ancora prostituite. Loro, forse, non si prostituiranno mai.