8/27/2009

Sulla fame

(questo - la parola "Fame" - è uscito su l'Unità del 26 agosto- per a serie "Il calendario del popolo", corredato come al solito di illustrazioni)

Nel marzo 2003, mercoledì delle Ceneri, aderii a un digiuno per la pace. Anche se ero solo un turista della fame (la realtà del morire di fame è ben altro), fu un’esperienza mentale e morale. E’ anche così che si scopre l’evidenza che «siamo quello che mangiamo», e che viviamo nell’eccesso di un’opulenza ottusa e aggressiva – come nel bellissimo apocalittico poema di Carlo Bordini (Mangiare), dove «il mondo / si disintegra / negli stomaci / di giganteschi / roditori». Quel giorno lessi il giornale su una panchina del parco, e mi colpirono le parole di un monaco camaldolese sull’Unità: «digiunare significa essere vuoti perché qualcun altro ci riempia». Per il filosofo Emmanuel Lévinas «la fame d’altri risveglia gli uomini dal loro torpore di sazi e dalla loro sufficienza».
A volte quando scrivo dimentico di mangiare, come se vi fosse una disgiunzione tra il cibo e la parola. Feci una ricerca a partire da questa idea di opposizione. Oltre al canto di Ulisse (il XXVI° dell’Inferno), che il deportato Primo Levi baratta ad Auschwitz nella «rabbia quotidiana della fame» contro una zuppa di cavoli e rape (Se questo è un uomo), citavo le lettere di Kafka, oltre al suo racconto del Digiunatore; pagine di Paul Auster e frasi del filosofo Gilles Deleuze, soprattutto sul libro di Louis Wolfson (ora in Critica e clinica), l’incredibile diario di uno studente di lingue schizofrenico e bulimico, e insieme trattato sull’alchimia psicotica di parole e cibo, la loro integrazione e traducibilità; e perfino Alice di Lewis Carroll: «il burro non serve per i movimenti». Ma quel giorno, mentre mi girava la testa dalla fame, quest’idea mi sembrò troppo astratta. Pensai invece ai mangiatori di arance in Conversazione in Sicilia, la loro dignità, perché il genere umano è più umano nella fame, scrive Elio Vittorini. Pensai agli affamati del Pataffio di Luigi Malerba, e a quel povero cristo affamato di comparsa, nella Ricotta di Pasolini, a interpretare Barabba di fianco a un Gesù bello e biondo in un film sulla Passione, che muore in croce di indigestione, un rutto in vece di ultimo respiro, dopo aver divorato una ricotta. Pensai alla fame come disincanto e risveglio: politico. In un celebre seminario, Lévinas parlò dell’incantesimo che Don Chisciotte subisce nel cap. XLVI: sapere di essere vittima di un sortilegio, dice Don Chisciotte, «basta alla tranquillità della mia coscienza», ma mi sentirei vile «a stare in questa gabbia defraudando del mio soccorso i tanti bisognosi». Non c’è sordità, aggiunge Lévinas, che permetta di sottrarsi alla voce degli afflitti e dei bisognosi, voce che è il disincanto stesso, se il suo agente è «l’umiltà della fame». Ecco come la privazione per eccellenza è porta alla responsabilità per l’altro uomo; come la fame, che è quasi morte, sia un “di più” di vita. Ed ecco, ricordo, perché un digiuno contro la guerra, per la pace.

8/22/2009

Sui soldi

(scritto su un muro di Taranto)

Com’è difficile parlare di soldi. Sembrano conferire un’aura a quelli che ne dispongono, come nel dialogo tra il giovane incantato Francis Scott Fitzgerald e il più anziano Ernest Hemingway: “I ricchi sono diversi da noi”. E l’altro: “Sì, hanno più soldi”.
Scriveva Marx nel 1844, citando Shakespeare, che il denaro è “la prostituta universale”, “legame di tutti i legami”. Nel trascorrere delle epoche, dai mercanti agli industriali alle astratte vertigini della finanza (in letteratura, da Boccaccio a Emile Zola, da Antonio Delfini al Tom Wolfe de Il falò delle vanità), la storia materiale del denaro coincide col suo fantasma, il concetto di “valore” confonde il reale col virtuale (lo scambio che dissolve l’uso). Solo quando scoppiano, le illusioni vengono chiamate “bolle”, eppure sono della stessa “sostanza” che misura il prezzo del pane.
Non sono passati tanti anni dalla baldoria della new economy, quando tutti giocavano in borsa come oggi al Superenalotto. Una serie di crac rovinosi ne decretò la fine, cui si aggiunse, prima della Parmalat, il tracollo dei “tango bond” legati all’Argentina. Le banche convocarono i clienti: nessun “interesse” sulla somma investita, ma la stessa nuda somma sarebbe stata risarcita “dopo trentotto anni”. Un brivido serpeggiò nei volumi asettici e rassicuranti delle banche, quintessenza architettonica della rimozione della morte. Si investe denaro per esorcizzare questo fantasma – si risparmia per essere risparmiati. Ma è un simulacro. Sparniare, verbo documentato a partire dall’VIII secolo, significava “non spendere o non usare per tenere da parte”, sinonimo di “riguardare”, “salvare”. Si risparmiavano cibo, grano. Ma i soldi?
“I soldi scompaiono, sono niente, solo la parola di Dio è solida”, ha pontificato il Papa in tema di crisi dei mutui. Non era scalzo con addosso un umile saio, ma anche così le sue parole sarebbero suonate accademiche. Denaro “sterco del diavolo”? “Tutto ciò che chiedo è avere la possibilità di provare che il denaro non può davvero rendermi felice”, ha detto un umorista inglese. Cui fa eco il grande Flaiano: “Scelsero di essere infelici perché costava meno”. Neanche Marx ignorava che solo le società fondate sul denaro assicurano la libertà e l’emancipazione. E se i politici di destra hanno cambiato di segno, prendendosela con la borsa e le banche, gli intellettuali, dopo la valanga di libri sul “dono”, lo scambio non mercantile, scoprono tardivamente che il denaro occupa la sfera dello “spirito”, che i “valori” sono minacciati dal “valore”, sul modello dell’intercambiabilità monetaria.
Ultima annotazione: se il fantasma del denaro è osceno (“buco nero”, dicono gli psicanalisti), ancor più lo è la sua mancanza. Potete denudarvi in pubblico, forse addirittura copulare. Ma chiedete dei soldi e otterrete lo scandalo sociale per eccellenza, oltre che il vuoto intorno.

(uscito su l'Unità del 22 agosto 2009, "La parola SOLDI", serie "il calendario del popolo")

8/10/2009

Sul silenzio

Quando Blaise Pascal scriveva che i problemi dell’umanità vengono dall’incapacità dell’uomo di stare solo in una stanza, naturalmente intendeva senza l’Ipod, solo col suono del proprio respiro, il battito del cuore, il proprio esserci. Come gli spettatori costernati della Scala di Milano durante il celebre, silenzioso concerto di John Cage. Per noi fruitori di giornali e di media il silenzio è strano, fa paura come il vuoto, che infatti arredatori, urbanisti e geometri comunali non cessano di riempire con qualcosa. Una volta, a una trasmissione radiofonica in cui mi si chiese di parlare di un mio soggiorno nel deserto, restai in silenzio per suggerirne l’esperienza. Per poco non suonò l’allarme.
In un racconto di Heinrich Boll, La raccolta di silenzio del dottor Murke, il personaggio, che lavora in una radio, registra scampoli di silenzio e li monta su un nastro per ascoltarli a casa, di nascosto, come musica. “State zitti, cinque minuti”, dice la bellissima poesia in romagnolo di Raffaello Baldini. Che scopre un silenzio nel silenzio, oltre al dualismo col rumore.
Dal silenzio nasce la poesia, che ad esso anela di tornare. Dai “sovrumani silenzi” e “profondissima quiete” di Giacomo Leopardi al silenzio della cucina ne La neve di Vladimir Holan, dove “bevi del vino” e “guardi dalla finestra l’intima eternità”: “Anche se sulla terra non vi fosse il silenzio, / questo nevicare lo ha già sognato. Sei solo. / Quanto meno gesti. Nulla da mettere in mostra”.
Tornando al deserto, per gli eremiti che vi dimoravano il silenzio era una cosa mistica, ma chiunque può farne l’esperienza. Bruno Hussar (padre Bruno), fondatore della comunità Salaam/Shalom, tra Gerusalemme e la Giordania, costruì nel 1983 un’ecumenica “casa del silenzio” a forma di mezza sfera, convinto che il silenzio sia alla portata di tutti, anche agli atei. Insegnò che l’ebraico ha due parole per dire il silenzio: sheket, o assenza di rumore, e dumìa, il silenzio profondo, come appare nella Bibbia (Libro dei Re, 19, 12) a designare “una brezza leggera, la voce di un sottile silenzio”, e nel Salmo 65, “lode a Dio”. Chi è stato in un deserto sa cosa significhi, ma forse è l’idea di Dio a essere metafora del silenzio, non viceversa.
“Tanto rumore per nulla”, come la commedia di Shakespeare? Il vero deserto è la solitudine affollata e strepitante in cui nessuno ascolta nessuno, il mondo come una televisione che non viene mai spenta. Italo Calvino, nel romanzo Palomar, propone questa etica: “In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio”.

(articolo uscito su l'Unità di oggi, con bellissime illustrazioni e altri allegati, dall spartito di Cage al primo piano di Buster Keaton, dalla canzone di Mina a quella di Simon e Garfunkel, ecc. ecc.)

8/09/2009

Horror italiano

Mentre su Facebook circolano le 10 domande di Johnny Palomba a Berlusconi, parodia in romanesco di quelle che Repubblica da mesi rivolge al capo del governo, la prima delle quali è “perché cuanno che vado allestero e dico devenì dallitaglia laggente se mette aride?”, io penso da tempo che per descrivere la realtà del nostro Paese occorre usare piuttosto le categorie del genere horror. Venerdì, lo stesso giorno in cui il premier puttaniere ha attaccato la stampa e la tv pubblica, quest’ultima ha opportunamente trasmesso in prima serata, su Rai Tre, il documentario Dittatura, di Enzo Antonio Cicchino, storia del fascismo in Italia dal 1919 al 1943. Avvincente. Agghiacciante. Tutte cose che dovremmo sapere a menadito, ma non si raccontano più, neanche a scuola, meno che mai nella letteratura. (Quanto ai politici, da tempo sono troppo occupati a legittimare se stessi per contrastare i nuovi fascismi). Quindici anni prima delle leggi razziali la violenza del regime era già atroce: arresti, deportazioni, fucilazioni: “Se il partito fascista è un’associazione a delinquere – dichiarò Mussolini in Parlamento rivendicando il delitto Matteotti – io ne sono il capo”. Segue la messa al bando dei giornali, dell’opposizione, delle notizie - tutti reati contro lo Stato. Cinegiornali dedicati solo alle vacanze allegre, allo sport, alle cazzate. E’ evidente che il berlusconismo ne è la vertiginosa evoluzione pubblicitaria. La neo-lingua, la negazione dell’evidenza, lo sradicamento della verità, l’ostentazione della forza. La gente lo vota, lo ama? Già, la manipolazione della mente. In 1984, il capolavoro horror di George Orwell (1949) si legge: “Che scrivesse o meno “Abbasso il Grande Fratello!” non faceva differenza alcuna: [...] la Psicopolizia lo avrebbe preso lo stesso. Aveva commesso [...] quel reato fondamentale che conteneva dentro di sé tutti gli altri. Lo chiamavano psicoreato”.

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità

8/08/2009

Sté zett / State zitti

Mentre sto scrivendo sulla parola silenzio", per le pagine estive de l'Unità, ritrovo questa poesia magnifica del grande Raffaello Baldini, in dialetto romagnolo naturalmente, e con traduzione in italiano. Mi piacerebbe leggervela (mi accaduto di farlo in pubblico), sia nella mia traduzione impromptu in dialetto parmigiano che in italiano. E' una delle più belle che conosca. Dice semplicemente di stare zitti...

Zéinch minéut

Acquè u n sint gnént, s’ a n stasí zétt, sté zétt!
sè, t’é vòia, zò, par piesàir,
zéinch minéut, se no u n s sint un azidént,
ècco, andémm un pó mèi, però alazò,
a déggh sa vuílt, cs’ èll ch’ u v gòsta stè zétt?
porca putèna, a v li gí dòp al robi,
adès sté zétt, acsè, zétt ènca mè,

gnént, mo va là, u n s sint gnént l’istèss, però
che roba, sint che roba, a stè zétt tótt
.

[Cinque minuti

Qui non si sente niente, se non state zitti, state zitti!
sì, hai voglia, state zitti, su per piacere,
cinque minuti, se no non si sente un accidente,
ecco, andiamo un pò meglio, però laggiù,
dico a voi, cosa vi costa star zitti?
porca puttana, ve le dite dopo le cose,
adesso state zitti, così, zitto anch’io,

niente, ma va’ là, non si sente niente lo stesso, però
che roba, senti che roba a star tutti zitti
.

dalla raccolta Intercity di Raffaello Baldini

8/01/2009

Estate in città. Due film (la vita contro la morte)

Estate in città - dove si impara, nell’apparente penuria, che un passo verso il meno è un passo verso il meglio. Vale per i rapporti, le letture, i film. Tralascio i consigli di lettura e vado al cinema, uno dei pochi ancora aperti. In cartellone Il prossimo tuo, dell’italo-filnlandese Anne Riitta Ciccone. Tutto si snoda davanti al tabellone delle partenze dell’aeroporto di Helsinki. Tre storie, corali e complesse: Helsinki, Roma, Parigi. Vicende quotidiane che si intersecheranno in modo lieve, traumi paralleli che condizionano le esistenze, che richiedono di andare alla radice per continuare a vivere. Una superba narrazione, un film contemporaneo e fascinoso, ben scritto (cosa rara nel cinema italiano), e musica straordinaria di Franco Piersanti.
La sera dopo vedo da amici il documentario che andrà a Venezia, Videocracy, dell’italo-svedese Erik Gandini. E’ cresciuto in Italia proprio durante l’intrattenimento televisivo durato trent’anni, quando “il presidente delle televisioni è diventato presidente del Paese”. E' la storia di un conflitto di civiltà più profondo e doloroso di quello che si pretende(va) contro le civiltà "altre": un conflitto di civiltà dentro il nostro stesso Paese. Inizia con la prima tv privata, 1976, un gioco a quiz dove le concorrenti si spogliano e fanno ballonzolare tette e chiappe nude. Finisce con interviste a Lele Mora e Fabrizio Corona, cozze abbarbicate allo scoglio del regime mediatico-pubblicitario del premier puttaniere: la televisione è tutto, l’apparire è tutto; e il tutto, le vite e i corpi, è solo business, denaro. Nella sua lussuosa villa kitsch in Sardegna, il grasso e ricco Lele Mora fa l’apologia del fascismo col sorriso sulla bocca, serafico, ascoltandone gli inni sul telefonino. Ma il fascismo peggiore, profondo, è questo di oggi. Neanche la presunta opposizione si è mai opposta a questo scempio. Guardate questo film, anche se è un pugno allo stomaco. Poi guardate il film Il prossimo tuo, per re-imparare con poesia e coraggio che la vita vera è altrove.

(in uscita domenica 2 agosto su l'Unità, mia rubrica "acchiappafantasmi")