9/16/2009
Il 1989, le creature del buio e l'happy hour (o la fine del comunismo)
Uno dice 1989, e pensa alla caduta del Muro di Berlino, fisica e simbolica, e alla propagazione di quell’onda nell’Europa dell’Est, fino alla clamorosa insurrezione in Romania a fine anno, con l’uccisione da parte del popolo del dittatore Ceausescu. E, due anni dopo, la fine dell’Urss. Pensa alla svolta detta della Bolognina, con Achille Occhetto segretario del Pci che annuncia la soppressione della parola “comunista”, col travaglio psicopolitico che l’accompagna (il film Palombella rossa di Nanni Moretti è di quell’anno). Del 1989 ricordo soprattutto, perché fu soffocato con eccidi il giorno del mio compleanno (e il 30° non lo si dimentica) la rivolta degli studenti in piazza Tiananmen a Pechino, immensa e perturbante come un quadro di De Chirico, dove militari venuti come alieni da lontane regioni della Cina, scelti perché non condividessero neanche una parola con gli insorti, massacrarono gli studenti che chiedevano democrazia. E’ anche l’anno del Nobel per la pace al Dalai Lama Tenzin Gyatso.
Meno scontato è che il crollo del muro di Berlino, e quindi, via via, del “socialismo reale”, radicalizzò la tendenza detta yuppie a valorizzare il lusso, a valorizzare il valore e il mero presente, sancendo un’epoca di conformismo consumistico senza alterità né alternative; un post-moderno nichilista senza speranza, anticipazione di ciò che sarà detto “globalizzazione”: un mondo piatto, orizzontale, monologico, un po’ come un nastro scorrevole di merci e consumi a portata di tutti e ovunque, o come una televisione che non viene mai spenta. Non che io me ne sottrassi, anzi. Disteso sui lettini della lussuosa spiaggia dell’ex villa Agnelli, tra il mare e le cime bianche e rosa delle Apuane, alternavo romanzi e fumetti agli scritti di Benjamin Constant che stavo allora studiando. Ora che ci penso, si discuteva come di una competizione sportiva, ignari di futuri conflitti di interessi, dello scontro tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per l’acquisto di Mondadori, a cui nel frattempo fu venduto il gruppo Espresso.
Quell’anno uscì Batman, con Jack Nicholson nel ruolo del cattivissimo Joker, che in una scena memorabile imbratta e distrugge le opere del museo risparmiando soltanto un quadro di Francis Bacon, considerato horror e quindi complice. E in letteratura dominò le classifiche l’ultimo romanzo tradotto di Stephen King, oggi tra i meno noti: Le creature del buio (il titolo originale, derivato da un filastrocca, è Tommyknocker). Su King avevo ogni possibile pregiudizio: americano, di successo, di genere, da spiaggia, presuntuoso anche nel nome. Come fu che cominciai a leggerlo, a partire da Le streghe di Salem per passare subito, rapito, al capolavoro It e quindi a Tommiknocker. Le creature del buio? Quell’anno feci effettivamente molta vita da spiaggia, visto che mi accingevo ad abitare in Versilia in un’allegra combriccola. Ma c’è un motivo più sottile, uno “spirito del tempo” che mi fece forse inconsciamente cercare, nei romanzi detti horror, una chiave di lettura dello scollamento ideologico e non solo che si stava vivendo. Scollamento che di lì a poco avrebbe travolto l’assetto politico italiano e promosso l’anti-politica nella forma di un “regime” - sia detto in senso tecnico - mediatico-pubblicitario: l’immaginazione al potere (ma in senso opposto allo slogan del ’68).
Creature del buio non è il miglior libro di King. Qui e là è perfino noioso, ma è un ottimo romanzo, con echi di Lovecraft, di Robert Heinlein, de L’invasione degli ultracorpi e di Guerre Stellari (c’è un’astronave millenaria seppellita in un bosco!), e perfino di William Bourroughs. Vi ricorre con ironica insistenza l’aggettivo “postmoderno”, e contiene dotte invettive contro le centrali nucleari e le menzogne di tecnocrati e politici americani, evocando l’incalcolabile disastro di Chernobyl del 1986 (King lo pubblicò nell’87). Scritto durante la disintossicazione dell’autore, certe pagine sul piacere della mutazione degli umani in alieni alludono con evidenza alla deriva e all’astinenza da droghe. Mantiene però l’inconfondibile magia di Stephen King nel racconto corale di un’intera città, in un proliferare iperreale di storie parallele. Descrive il disgregarsi di una comunità, per contagio, e quindi del concetto stesso di comunità. Come non vedere nessi con la fine del “comunismo”, cioè di ogni alterità politica, di un pensiero comunitario, che dal 1989 resterà impensato e inespresso, ovvero un “fantasma”? Se in tutti i romanzi di King la salvezza contro il Male poggia su eroi che, quando non sono bambini o donne maltrattate, sono portatori di handicap, in tutti i casi anni luce dal modello di maschio adulto vincente, qui è un poeta ubriacone che cita John Berryman, soggetto a perdite di coscienza. Solo i pazzi, scrisse William Blake, sanno vedere i contorni.
Oggi mi appare chiarissimo che le categorie dell’horror, nel cinema e nella letteratura, sono le più idonee a raccontare la realtà, e quelle dove più si sperimenta una ricerca estetica e narrativa, ma vent’anni fa no. Forse è così da sempre, dall’Odissea al Macbeth, da Dante a Orwell. Ma nell’89 facevo solo parte, con tanti altri, delle creature del “buio”, che di li a poco si sarebbe euforicamente chiamato happy hour. Ecco, Stephen King insegna che l’horror è nella realtà quotidiana e ordinaria: basta aprire gli occhi, dare senso a dettagli come un volo di palloncini contro vento, o un pezzo di liscia superficie metallica che spunta dal sottobosco.
(uscito su La Stampa del 16 settembre 2009, serie "il libro dell'estate")
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1 commento:
quello che stavo cercando, grazie
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