3/20/2008

Sangue e compassione (l'illusione tibetana)

Di solito non pubblico testi di altri in questo blog, ma l'articolo sul Tibet che c'era ieri su l'Unità di Ugo Leonzio (già impeccabile curatore del Libro tibetano dei morti per Einaudi, e autore di una bellissima introduzione), vorrei condividerlo. Si intitola: "Sangue e compassione, l’illusione tibetana", e nel sottotitolo si chiede "perché i monaci si ribellano ai cinesi se l’attaccamento alla casa e al proprio Paese è inutile, se tutto è illusione? La risposta è nel cuore dell’insegnamento buddista, che pone al centro della pratica il risveglio (la liberazione) di tutti gli esseri".

Che il Tibet sia un paese immaginario inventato dagli occidentali un paio di secoli fa come rifugio dagli illuminismi e poi dalla metastasi della tecnologia dei consumi e dei viaggi «avventura» lo si può vedere dalla falsa coscienza con cui si manifesta con candeline accese e scritte Free Tibet in paesi che per cinquant’anni non hanno mai riconosciuto il Dalai Lama come capo di un governo in esilio. Il Premio Nobel per la Pace, offerto molti anni fa a Tenzin Gyatso, Oceano di Saggezza, è la prova di questa dimensione irreale in cui lo abbiamo collocato.Per chi compra un viaggio «avventura» Lhasa-Kailash-Samye, il Paese delle Nevi è popolato solo da lama persi in meditazioni profonde tra cime di cristallo traversate da mantra accompagnati dai suoni delle trombe sistemate in cima ai gompa. Chi non è lama o almeno un naljorpa itinerante abituato a meditare in «luoghi di potere», sacre caverne o cimiteri, non suscita alcun interesse nel viaggiatore sprofondato nel suo sonno mistico, motivato da un paesaggio di una bellezza profonda e struggente.Chi va a Dharamsala per ricevere insegnamenti da Sua Santità o iniziazioni di Kalachakra nelle varie parti del mondo in cui questo monaco forte, saggio e ironico cerca di tener viva l’immagine del suo paese, non si chiede che cosa sia veramente il Tibet, i suoi luoghi, la sua storia, affascinante e contraddittoria come tutte. Alimenta esclusivamente la sua ansia di spiritualità e di «compassione», dimenticando un famoso e sostanziale avvertimento del Budda Sakyamuni: «la via della spiritualità è quella che porta più velocemente all’inferno». Chogyam Trungpa, il più intenso e affascinante lama che provò per primo a spiegare il tantrismo tibetano in America, definì i suoi primi allievi, ansiosi di penetrare nei segreti insegnamenti del tantrismo Vajrayana allacciando proficui legami con divinità Pacifiche e Feroci, «pescecani spirituali». Non era un complimento.È probabile che qualcosa sia cambiato da allora, il buddismo si è diffuso ovunque e in modo imprevedibile, l’immagine di pace interiore che diffonde è un richiamo troppo forte, un antidoto contro la demoniaca avidità che trasforma la nostra mente in un cannibale afflitto da bulimia anoressica. I lama tibetani che oggi danno insegnamenti, conoscono molto meglio i loro allievi e le loro ansie di «altrove», la sete insaziabile di contemplazione & compassione.Associazioni non governative come Asia, fondata dal grande lama e insegnante dzog chen Namkhai Norbu, costruiscono in Tibet ospedali e scuole dove si insegna la lingua tibetana e mantengono viva, in centri di studio e di meditazione sparsi in tutte le parti del mondo, la tradizione spirituale e le profonde pratiche del tantrismo tibetano che nel Paese delle Nevi rischiano di scomparire. Eppure, cinquant’anni dopo la drammatica fuga in India del Dalai Lama e i tragici, sanguinosi fatti di questi giorni a Lhasa, il Tibet è rimasto com’era, un paese che continua a essere un sogno, un’utopia mistica ben radicata nelle mente dei suoi sostenitori e che per questo sembrerebbe possedere meno speranze di ritrovare la sua identità della Birmania, che non è un mito ma un territorio buddista con infinite pagode, monaci con tonache suggestive, stupa d’oro, un regime repressivo, eroina, turisti ecc.Il Tibet, bod come lo chiamano i tibetani, è diverso. Il Tibet è unico. Anche se privato non solo del suo futuro ma anche del suo passato, anche se rischia di essere inghiottito pericolosamente dal «Paese delle nevi», un sogno disegnato genialmente dal mistico pittore russo Nicholas Roerich e costruito con infinita quanto involontaria perizia dalle geniali spedizioni di Giuseppe Tucci nello Zhang Zhung e da una miriade di film, documentari, spedizioni, scalate, viaggi, libri ed estasi pacifiche e feroci, bod sopravviverà. La sua malìa incanterà anche i cinesi quando l’ansia di forza e di potenza passerà la mano perché il mutamento è la legge dell’esistenza. Questo insegnamento è probabilmente il primo che sia stato dato dal Buddha, nel Parco dei Daini di Kashi, in riva al Gange, insieme alla constatazione che la vita è dolore. Questo piccolo seme di infinita potenza, trasportato negli infiniti deserti tibetani traversati solo da cumuli di nuvole bianche, ha trasformato il Tibet più di qualsiasi altro paese in cui questo insegnamento sia giunto e abbia attecchito. Ma non sono stati i selvaggi tibetani, di cui si diceva che fossero predoni, assassini e perfino cannibali (sebbene uno dei primi re ricordati dalle cronache antiche, Podekungyal, vivesse all’epoca dell’imperatore cinese della dinastia Han Wu­ti, un paio di secoli prima di Cristo) a svilupparlo. È stato il paesaggio, la profondità dell’orizzonte, l’altitudine che affila l’ossigeno fino a farlo sparire, a creare le Divinità pacifiche e feroci che dominano l’immaginario delle pratiche tantriche rendendolo diverso da tutte le altre forme buddiste di «pianura».Le religioni nascono nei deserti ma, si sa, niente è più diverso dei deserti. Solo il silenzio li apparenta. Il silenzio è il luogo privilegiato delle apparizioni. Nessuna pratica mistica è più ricca di apparizione del buddismo tibetano. È un’apparizione incessante di divinità pacifiche e ostili, consolanti o persecutorie, assetate di sangue e di sciroppi di lunga vita, quasi tutte descritte scrupolosamente nel classico Oracles and Demons of Tibet da Réne De Nebesky-Wojkowitz (Tiwari’s Pilgrim Book House). Divinità che cavalcano eventi naturali, furori della natura, venti travolgenti, valanghe, instabili abissi e immobili cime, laghi parlanti e salati. Erano queste apparizioni che davano forma alle pratiche e agli insegnamenti esoterici e non il contrario.Così l’aspetto e la forma di queste apparizioni hanno finito per dividere in tre gruppi (e svariate scuole) l’insegnamento buddista, anche se la leggenda vuole che il monaco Sakyamuni fin dall’inizio desse insegnamenti semplici ad alcuni ed altri, più segreti, esoterici, occulti a quelli che erano in grado di capirli. Tutti, comunque, conducevano sul sentiero della liberazione. La differenza consisteva nel tempo e nel numero delle rinascite necessarie per il risveglio. Gli insegnamenti segreti permettevano un risveglio istantaneo, nel corso di una sola vita. Per quelli comuni, bisognava armarsi di pazienza. Decine se non centinaia di nascite e rinascite, di transiti tra vita e morte e tra morte e vita (secondo la legge del karma, cioè di causa ed effetto) erano appena sufficienti per sbirciare fuori dai confini del samsara, il regno della sofferenza in cui ci troviamo adesso (di questo, pochi credo possano dubitare e anche chi dubita, perché baciato dalla fortuna, da un lifting ben riuscito o da una fortunata avventura nel regno dei trapianti svizzeri) farebbe meglio ad aspettare le sorprese immancabili e per nulla consolanti del post mortem. Le pratiche che riguardano questo avvenimento cruciale è il cuore dell’insegnamento del tantrismo tibetano e non appartiene ad alcuna altra scuola buddista.Per i tibetani e soprattutto per il loro celebre Bardo Thos grol, meglio conosciuto come Libro dei morti tibetano, quando il nostro corpo smette di funzionare e si dissolve, noi non andiamo «a far terra per ceci», ma per la durata di sette settimane viaggiamo in un territorio incredibilmente frustrante, crudele e ingannatore. Il nostro grasso inconscio. Tutto il rimosso, il non detto, il negato ci appare interpretato dalla figure sardoniche, irridenti, affamate del coloratissimo pantheon che soggiorna nei regni oltremondani della nostra mente che scomparirà solo alla fine di questo viaggio estremo. Il libro dei morti tibetano dà a tutti le istruzioni per uscire senza danni da questa imbarazzante situazione e in modo più o meno onorevole. Se riconosciamo che quelle spaventose visioni che ci inseguono, ci minacciano e ci terrorizzano mettendo davanti ai nostri occhi la vera identità di chi siamo stati da vivi, sono il prodotto (illusorio) della nostra mente, istantaneamente l’incubo sparisce e in un raggio glorioso di arcobaleno torniamo ad essere quello che siamo sempre stati, senza mai saperlo. Saggezza, luce, onnipotente vuoto da cui ogni forma, ogni pensiero, ogni pensiero deriva in una instancabile gioco d’illusione. I tibetani, lama, monaci, gente comune hanno questa certezza che potrebbero condividere con molti dei fisici quantistici che studiano la «teoria delle stringhe». Tutta la realtà è il riflesso iridescente, ma vuoto, del nulla. Niente ha consistenza, niente è «reale». Il dolore, la sofferenza nascono quando non si riconosce questo stato che imprigiona la nostra mente, privandola della sua perfezione felice. Allora perché ribellarsi a Lhasa? Perché provocare un bagno di sangue e moltiplicare il dolore se tutto è illusione? Attaccarsi alla propria casa, al proprio paese non solo è inutile ma può essere una forma di avidità che ci proietterà, dopo morti, in uno dei Sei Loka, i regni della sofferenza che costituiscono il samsara, gravido delle nostre passioni. C’è qualcosa che divide profondamente l’insegnamento buddista e le sue scuole principali, Hinayana, Mahayana e Vajrayana. La compassione. Nell’Hinayana si persegue il risveglio da soli. La pratica è etica, morale, devozionale. Ciascuno percorre da solo il Sentiero, essenziale è liberarsi. Mahayana e Vajrayana, invece, mettono al centro degli insegnamenti la Compassione, che vuol dire non uscire dal samsara finché anche il più piccolo, il più insignificante degli insetti non sia stato liberato. Il risveglio di tutti gli esseri è il punto essenziale. È la compassione a condurre, prima delle preziose pratiche occulte, sul sentiero irreversibile del Risveglio. Irreversibile, perché anche se l’illusione ci trascina nel sangue, non ci permette mai di scordare l’irrealtà di quello che stiamo vivendo.C’è un insegnamento più prezioso di questo?

3/17/2008

Fantasmi (ancora), caso Moro, arte, filosofia

Sono sull’autobus, guardo la città dal finestrino: le strade, i negozi, i bar, il solito traffico di auto. E’ quasi ora di pranzo, la gente si accalca per tornare a casa, donne e studenti soprattutto. Io sono un ricercato, terrorista in clandestinità, uno di quelli che per rapire il presidente della Democrazia Cristiana ha sparato e ucciso cinque persone della scorta. Vado in via Montalcini, strada di una periferia residenziale. Lì, al piano rialzato di una palazzina di tre piani, teniamo prigioniero in un bugigattolo Aldo Moro. Tutti parlano di noi, le Brigate Rosse, anche sull’autobus. Come mi sento? E che cos’è la gente per me, le persone comuni che ho a fianco? Non è facile essere uno di loro, vestirsi con anonima cura, né troppo dimesso né elegante. Specchio la mia riuscita nell’indifferenza degli altri. Ma mi accorgo dei confini tra quello che recito e quello che sono divenuto? [continua a leggere].

Quello sopra è l'inizio della versione "reportage" di un mio articolo apparso ieri su la Repubblica, sul paradosso dell'equazione BR=fantasmi. Qualche giorno fa su Venerdì è uscito invece un mio articolo su Bruno Munari, di cui evoco l'incontro a dieci anni dalla scomparsa (e la mostra che è in corso a Parma). Sempre venerdì ho avuto piacere a presentare a Roma il bel libro di Brunella Antomarini, Pensare con l'errore. Il bersaglio mobile della conoscenza, con Giacomo Marramao, Domenico Parisi e Franco Voltaggio (io mi sentivo un pesce fuor d'acqua, tutto sbagliato, ma per un libro sugli errori, mi hanno detto, che io fossi tutto sbagliato era molto chic). Un libro sulla conoscenza come bersaglio, che si stupisce dell'indovinare giusto e non degli errori, oltre che dire la verità è nella propria ombra, non è così distante da mio pensare col fantasma di cui ho scritto spesso, no? (posterò il pezzo che ho scritto sul libro di Brunella).

3/11/2008

"Ei fu". Chi vuole uccidere il passato remoto

Un editore che stimo voleva sostituire i verbi al passato remoto del libro di uno scrittore col passato prossimo, nell'idea che sarebbe stato più fluido. Un amico poeta mi ha confessato che nelle sue poesie usa sempre il passato remoto, però l'imbarazza, e vorrebbe trovare un altra forma verbale. Nelle conversazioni (tranne che nel Sud) sempre di più è abolito il passato remoto a favore del più colloquiale, “normale” passato prossimo (a volte trapassato prossimo): “ha detto”, “ho fatto”, “era andato”, “aveva visto”. Per non dire dei giornali, che non conoscono più la distanza dei fatti (non riconoscono neanche più i fatti, dice qualcuno) e quindi per loro il passato remoto non esiste. Penso che l'amico editore abbia semplicemente paura della letteratura (frequenta soprattutto saggistica), e l'amico poeta, che scrive poesie giocose ma non sa abbandonarsi fino in fondo alla serietà del gioco, abbia difficoltà nel sospendere la propria incredulità (la suspension of the disbelief di cui parlava il poeta Coleridge). Due esempi di normalizzazione e autocensura in linea coi tempi, o meglio con l'attuale abolizione dei tempi, l'appiattimento temporale che opera nella lingua e non solo. L'omologazione linguistica si modella a sua volta su quella delle merci e dei consumi, che disegnano un mondo-ipermercato dove tutto sia, in ogni momento, a portata di tutti.
Per capire cosa sia la sospensione dell'incredulità provate a raccontare una storia a un bambino. L'uso del passato remoto è una delle condizioni del suo incanto narrativo. Svolgere un racconto al passato prossimo è come ridurlo alla lista della spesa, o chiedergli se abbia fatto i compiti e quali. Impedisce l'abbandono al tempo del racconto, che è sogno e invenzione. Col passato prossimo non accade nulla di veramente narrabile [tranne che raffinati e disincantati metaromanzi: lo so, Lo straniero di Camus è bellissimo e scritto al passato prossimo, e amo le scritture sperimentali, ma qui sto parlando d'altro: dell'uso del tempo ai nostri tempi, tempi di svilimento del linguaggio, N.d.R.]. Non c'è tradizione narrativa senza passato remoto (o aoristo). Le novelle di Boccaccio sono al passato remoto e fanno ridere. C'è ancora suspense in un incipit come “nel mezzo del cammin di nostra vita / mi sono ritrovato in una selva oscura”? (Sembra una vignetta di Altan, l'uomo che la dice sta in poltrona, attonito e superfluo). Senza citare forule ormai caricaturali come il manzoniano “Ei fu, siccome immobile”, o l'alfieriano “volli, sempre volli, fortissimamente volli”; anche senza ricorrere al sublime elogio dell'immaginazione dell'Infinito di Leopardi, in perpetua oscillazione tra il questo e l'immensità grazie al passato remoto (“Sempre caro mi fu quest'ermo colle”), basta sfogliare un qualsiasi romanzo poliziesco per capire che funziona grazie al passato remoto. Prendiamo Raymond Chandler, imitato da ogni scrittore di gialli. Non c'è storia dell'investigatore Philip Marlowe che non poggi sul passato remoto, e che ci incanta a distanza di anni e numerose riletture. Il nitore e la plasticità delle sue storie risalta grazie a questo tempo verbale. Risibile trasformare frasi come “andai alla porta e guardai fuori”, “trasalì”, “grugnì”, “la sigaretta gli tremò fra le dita”, “estrasse la pistola” ecc. in altrettanti passati prossimi. O come il suspense di questo brano de Il grande sonno: “Portava un paio di lunghi orecchini di giada. Erano dei begli orecchini, che dovevano essere costati un paio di centinaia di dollari. Non indossava nient'altro. [...] La guardai senza imbarazzo e senza voglie. Come ragazza nuda non esisteva, in quella stanza. Era solo una drogata. [...] Smisi di guardarla per guardare Geiger, che era riverso sul pavimento...”. Lo sguardo di Marlowe è al passato remoto, le azioni che racconta sono ineluttabilmente concluse. Ci vuole distacco per raccontare la vita prima che, appunto, sfoci nel “grande sonno”. Il passato remoto infatti attesta anche questo: la consapevolezza della vita e del tempo irreversibilmente trascorso. Consapevolezza dell'intreccio indissolubile tra mortalità e (uso del) linguaggio, che per gli antichi definiva l'umano. Sottrarvisi è sintomo di un complesso di onnipotenza che nasconde la paura di elaborare il lutto del passato. Paura della Storia, delle storie.
Il passato prossimo, recitano le grammatiche, si usa per indicare un'azione avvenuta in un passato molto recente, oppure anche lontano, a patto che i suoi effetti perdurino nel presente. Il passato remoto indica un evento accaduto in un passato lontano, e soprattutto completamente concluso. E' dunque il timore del distacco dal passato, da ciò che è avvenuto una volta per tutte, che fa la voga del passato prossimo: tutto continua e perdura. L'abolizione della memoria segue il modello televisivo fatto proprio dalla politica-spettacolo: un presente continuo, perpetuo, senza futuro che non sia futuro di questo presente. Richard Sennet ha spiegato, nel suo L'uomo flessibile, che la vera posta in gioco della cosiddetta precarietà è la perdita del senso narrativo dell'esistenza. Il problema non è tanto cambiare lavoro (ciò che riguarda il giovane del call center come il grande manager) ma l'impossibilità di sviluppare un senso narrativo del passato e, simmetricamente, un'immaginazione progettuale del futuro. Alla metafora della “carriera”, che in fondo indicava un'umile strada di campagna, si è sostituito il “job”, mattone o pezzo di ricambio. La liquidazione del passato remoto ha a che fare con questa eclissi del senso naarrativo dell'esistenza. Un racconto, come una vita, interamente al passato prossimo, suggerisce che tutte le azioni siano equivalenti, e che non è più possibile trasmettere esperienze.
(da l'Unità, sabato 8 marzo)

3/05/2008

Etica della prosa (sulla responsabilità dello stile)

(Non è che mi piaccia scrivere così spesso sul blog, senza far decantare le parole come il caffè turco, pero capitano delle cose in questo periodo, che mi suscitano pensieri o interventi, anche solo ricettivi... Beh insomma, incollo di seguito un intervento frettoloso che ho scritto ieri (appare oggi su l'Unità) per supplire la mia assenza a un seminario organizzato presso la casa editrice Laterza, a Roma, dove si discute di responsabilità e di stile a partire da uno scritto di Antonio Pascale ("Il responsabile dello stile", uscito in un libro di minimum fax, Il corpo e il sangue d'Italia, a cura di Ch. Raimo). Il testo di Pascale cita vari esempi di ambiguità nella rappresentazione del dolore e della miseria umana, contro la retorica e l'estetizzazione della sofferenza, ma non solo. Il mio, brevissimo, eccolo qui.)

Un anno fa, mentre collaboravo con l'artista Christian Boltanski alla progettazione e realizzazione del Museo per la memoria di Ustica a Bologna, facemmo visita al deposito in cui dentro a scatole di cartone si conservavano gli oggetti, sommersi e salvati, appartenuti ai passeggeri del Dc9. Boltanski e io, turbati, le chiudemmo subito: troppa vita, e troppo nuda; troppa sensibilità in quegli oggetti che occorreva sottrarre allo sguardo, non confondere con la profanazione della finzione e dell’arte. Poi tutto si è precisato: gli oggetti appartenuti ai passeggeri del Dc9, che il museo conserva, sono riposti in scatole nere di diverse grandezze che costeggiano il relitto dell'aereo. Li abbiamo inventariati in un libro, con fotografie piccole, un po' sfuocate e in bianco e nero, precedute da un mio testo in forma quasi di elenco - poiché elencare significa anche accusare, e anche una litania e un rosario sono elenchi. I visitatori ascoltano, sulla balaustra che gira intorno al relitto, mentre si riflettono in specchi anneriti., voci che sussurrano pensieri ordinari e banali di viaggiatori comuni, fantasmi come tutti noi, su un aereo estivo in volo da Bologna a Palermo. Parole universali come i volti del prossimo, come le foto degli oggetti – vestiti, pinne, oggetti da bagno, borsette - ignoti e famigliari.
Ho citato questo aneddoto per riprendere il tema trattato da Antonio Pascale nel suo Il responsabile dello stile (minimum fax), testo che sarà discusso oggi in un seminario collettivo a Roma, presso la casa editrice Laterza. In breve, Pascale prende le distanze, giustamente, da una parte dall'estetizzazione del dolore (nel suo senso più ampio), dall'altra dalla retorica di chi, per mimesi o malafede, cade nella rete di ciò che vuole denunciare (come un linguaggio mafioso o allusivo per disapprovare la camorra). Oggi la tradizione occidentale – il cui realismo nelle arti e nella letteratura, ci ricordava Auerbach, fu inaugurato dall'inaudita rappresentazione del dolore e del corpo della Passione di Cristo – sembra essersi impantanata in quello spettacolo neutro e anestetizzante della realtà che è la televisione. Letteralmente, essa fa vedere tutto (e contemporaneamente) da lontano, come se scorresse su un nastro scorrevole. E' ovvio che l'anestesia che produce è anche un ottundimento morale. Qualcuno ha ribadito contro Pascale che l'estetica è insopprimibile da una narrazione. Ma l'estetizzazione – che sta all'estetica (cioè la capacità di sentire) come la politica-spettacolo sta all'esercizio della cittadinanza (l'antica politéia) – è tutt'uno con questa anestesia. Come esempio recente di estetizzazione (e di ottundimento morale), cito la differenza tra Romanzo criminale (ottimo romanzo balzacchiano e duro di Giancarlo De Cataldo) e il film omonimo, dove gli stessi personaggi, banditi sanguinari e cocainomani della Magliana, sono belli come eroi cari agli Dei (che li fa morire giovani).
Un evento tutto sommato recente, Auschwitz, che ripudia i commenti ma non le descrizioni, impone da qualche decennio di risvegliare la nostra attenzione allo stile etico di immagini e parole. Da “evento senza testimoni”, il lessico paradossale si è arricchito di formule come “rappresentazione impossibile” (Joseph Beuys), e “immagini malgrado tutto” (Georges Didi-Hubermann). Auschwitz (nome proprio per dire ogni sterminio programmato) fu una esecuzione, nei due sensi della parola, della rappresentazione. Il film Shoah di Claude Lanzmann, nove ore di testimonianze e di primi piani, è diverso di natura da ogni rappresentazione (e da ogni film di Steven Spielberg). Insegna che non tutte le immagini sono lecite, ma solo quelle che fanno identificare nei testimoni (NON nelle vittime o nei carnefici). Riflette sull'atto di testimoniare mentre offre testimonianze. Problematizza l'enunciazione mentre predica enunciati. E' la definizione migliore di responsabilità dello stile.
Oggi nelle arti, nel cinema, nella letteratura, nozioni come testimonianza, documento, archivio, ecc. sono non solo centrali, ma foriere di un rinnovamento dei generi e delle forme. La loro riuscita sta nell'armonizzare storia e memoria, eventi e empatia personale, e la loro soggettività è condizione della loro universalità. Non ci sono facili ricette, né morali né stilistiche, per una tale riuscita. Eppure anni fa riportai in un mio libro sui maestri il "decalogo per un corso scolastico di scrittura creativa" di Giorgio Messori, scrittore appartato e insegnante di lettere alle superiori. Il punto 2 diceva: “Non farti mai condizionare dai sensi di colpa o da ipotetiche minacce di ritorsione”. Il punto 4: “Cerca di essere sincero e preciso”. E il 5: “Non essere mai astratto, scrivi sempre di cose concrete, vere, che ti sono vicine. È più interessante scrivere di una pozzanghera o di ciò che vedi in una passeggiata sotto il sole che non della minaccia nucleare che incombe sul mondo. Tra l'altro fai un miglior servizio alla causa contro il pericolo nucleare scrivendo di cose molto concrete che non ripetendo frasi rimasticate in discorsi fatti da altri”. Penso ancora oggi che questi consigli non siano utili solo per gli allievi delle scuole medie, ma per tutti noi.

3/04/2008

Rewind

Un amico mi ha regalato per l'ultimo Natale un abbonamento al manifesto. A volte mi dimentico di prenderlo (ho portato i tagliandi a un'edicola vicino a casa), e spesso mi leggo parecchi numeri arretrati di fila. Comunque sia, sul manifesto di ieri (on line il giorno dopo, quindi funziona per questo post) c'è questo articolo di Rossana Rossanda che dice in modo perfetto, già nel primo paragrafo, quello che pensiamo, credo, in tanti. Almeno io lo penso. Non sembra che qualcuno abbia premuto il tasto rewind, e la realtà stia andando vertiginosamente all'indietro? Non c'è bisogno di essere estremisti per constatare quanto segue:
"Siamo tutti adulti e vaccinati, non facciamo finta che queste siano elezioni come le altre. In ballo non è solo un cambio di governo, ma la cancellazione dalla scena politica di ogni sinistra di ispirazione sociale. Questa è la novità, reclamata ormai non più solo dalla destra ma dall'ex Pci, poi Pds poi Ds e ora confluito, assieme alla cattolica Margherita, nel Partito democratico. E' l'approdo della «svolta» del 1989 e il suo vero senso: non si trattava di condannare le derive del comunismo o dei «socialismi reali», ma di stabilire che il capitalismo è l'unico modo di produzione possibile. Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato», e a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce. Che ci sia un conflitto di classe fra proprietari e non, che i primi possano sfruttare, usare e gettare i secondi, che questi siano riusciti a conquistarsi dei diritti extramercato è stata una favola cattiva, che ha seminato l'odio e spezzato l'armonia del paese. Operai e padroni sono egualmente lavoratori, hanno un interesse comune che è l'azienda, anzi il padrone, detto più benevolmente l'imprenditore, vi rischia di più il suo capitale, mentre l'operaio solo il suo salario. Veltroni ha così liquidato due secoli di lotte sociali e ridotto la democrazia secondo il modello americano a sistema elettorale e poco più. Il suo «riformismo» non mira, come quello delle socialdemocrazie, a correggere il capitale: ma a «riformare i diritti del lavoro» fino a farne, com'era all'inizio del XIX secolo, una merce come le altre, abolirne ogni regolamentazione a cominciare dalla durata."
Il resto dell'articolo - intitolato "Acque torbide" - se volete potete leggerlo qui:

3/03/2008

Incontro (2003) con Marjane Satrapi - ed elogio dei fumetti

L'altro giorno ho passato una giornata con Nick Bertozzi e Marco Petrella, entrambi fumettari (anzi, cartoonists). Di Petrella e dei suoi Racconti per ascensore ho già parlato, di Nick invece no. E' l'autore, fra l'altro, di The Salon, tradotto in italiano col titolo Chi vuole uccidere Picasso, un'avvincente storia "poliziesca" nella Parigi del 1907, col fantasma di Gauguin che incombe sul gruppo di artisti sballati (Satie, Apollinaire, Picasso e Braque che intanto inventano il cubismo), nel salotto di Gertrude Stein. E' stato divertente e istruttivo chiacchierare insieme per il pubblico del festival Minimondi (a Parma), e mi è rimasta impressa la sua entusiastica apologia del fumetto: "la maggiore, la più bella, la più tutto... forma di espressione che ci sia". Allora mi sono ricordato che già un'altra volta mi sono trovato benissimo in compagnia di un autore, anzi un'autrice, di fumetti.
Ai primi di settembre del 2003, al festival di Mantova dove eravamo entrambi ospiti, feci infatti la conoscenza di Marjane Satrapi, di cui era appena uscito il suo primo libro (Persepolis) in italiano. Scattò subito un'amicizia complice - complici soprattutto due o tre sbronze che ci siamo prese insieme ai tavoli dei ristoranti dove a Mantova si passano i momenti più belli di quel festival della letteratura in cui c'è sempre il cielo azzurro, come nei quadri di Mantegna. Lei era ed è, nella sua allegria e energia, una forza della natura. Comunque il 5 settembre feci uscire su l'Unità questo pezzo su di lei, frutto di una parte minima delle nostre chiacchierate. Ora che Marjane Satrapi è conosciuta anche per la versione cinematografica del suo principale fumetto, mi sembra giusto riproporla.
"Nella babele del Festival, o nei discorsi in genere sulla letteratura e il narrare, è raro imbattersi in storie come Persepolis, autobiografia a fumetti della bellissima trentaquattrenne iraniana (residente a Parigi) Marjane Satrapi. Quello che ognuno di noi si sforza di dire sul dovere della memoria e della testimonianza, sulla felicità del narrare e il suo potere salvifico, sull’infanzia durevole del linguaggio, lei lo esemplifica in un miracolo di forma, dove ciò che si dice e il modo in cui è detto coincidono con grazia naturale. Storia di un’infanzia - questo il sottotitolo del libro di cui Sperling & Kupfer pubblica la traduzione del primo tomo (la storia di Marjane Satrapi arriva in realtà fino a oggi) – fonde romanzo di formazione e documentario sulla storia politica di un Paese, la tragedia dell’Iran vista attraverso gli occhi di una bambina. Ho sempre sospettato che il genere del documentario offra le forme più libere e liriche di narrazione, e non credo all’oggettività delle storie.
Marjane Satrapi (il nome si pronuncia con la g dolce) va oltre: la soggettività è per lei un valore assoluto, espressione di una sincerità trascinante.
«Vengo da una cultura priva di fumetti, che ho cominciato a leggere a Parigi, nel ’96, dopo gli studi artistici a Strasburgo e a Teheran. Mi sembrava folle e ossessivo lo sforzo enorme dietro alle tavole di fumetti, il dispendio di energia. Il passo l’ho fatto quando mi sono accorta di avere una storia da raccontare. Nessuno in Europa conosceva la verità sull’Iran, e ho voluto narrarla pur non essendo una storica né una politica. L’oggettività non esiste, siamo noi a dare forma agli eventi. Ho assunto la mia soggettività raccontando l’Iran attraverso la mia storia personale e famigliare.
Avevo nove anni quando iniziò la rivoluzione. La coscienza politica, del resto, passa attraverso le stesse fasi della crescita personale: all’inizio è come l’infanzia, quando un evento, anche politico, accade, e lo si accetta per vedere che cos’è e come andrà a finire; poi c’è la fase della reazione, come l’acne adolescenziale, irritazione e ribellione; segue uno stato di calma in cui si cerca di fare una specie di “psicanalisi della famiglia”, della propria storia allargata all’ambiente; finché si arriva a una comprensione piu ampia. Ho usato lo stesso metodo, scoprendo un parallelismo tra la mia storia personale e quella del mio Paese. Era importante anche raccontare la storia della moltitudine di sinistra, gli oppositori dello Scià massacrati senza lasciare tracce, e a cui venne perfino rimproverato di avere avviato quella rivoluzione che anelava alla democrazia e degenerò in una teocrazia che tolse anche le libertà primarie. Anche la mia famiglia era piuttosto di sinistra…».
La soggettività rende le storie universali. Commuove in Marjane Satrapi la libertà, fatta di forza e insieme tenerezza, che alterna la gravità scabrosa degli eventi allo humour beatificante delle piccole cose della vita; che osserva la Storia con gli occhi di chi per età, poi per scelta e destino, gioca con le storie; di chi ad esempio vorrebbe giocare a Monopoli coi genitori estenuati dalle lunghe e pericolose manifestazioni, di chi si vanta colle proprie compagne di scuola di avere parenti più torturati di altri, ovvero più eroici. Il racconto della Satrapi è infine universale perché la sua storia è intercambiabile a quella di altre tragedie, l’identificazione è possibile con altre testimonianze di fascismi. Perché testimonia il sopraggiungere del totalitarismo e l’inesorabilità della sua ascesa, il cui schema si ripete sempre, dice Marjane. Perfino nei democratici Stati Uniti, dove è tradotta (e paragonata ad Art Spiegelman), ma dove ha ritrovato con sgomento il lessico del fondamentalismo (il Bene contro il Male). Mi racconta il suo amore per il cinema italiano, in particolare quello di Pasolini, di cui ha rivisto più volte con trepidazione l’ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma: «l’unico, dice, capace di mostrare lo splendore nero e disgustoso del vero fascismo ». «La sofferenza riguarda sempre e soltanto la gente normale, eppure la storiografia racconta solo i nomi dei dirigenti, non di chi fa davvero la storia. In Francia hanno scritto della mia presunta passione per la politica. È falso, non ne ho nessuna passione, è la politica a distruggere le vite, esiliarle, estirparle, è stata la politica a interessarsi a me e cambiare la mia vita, quindi ho dovuto raccontarla. Quanto al mio humour, dico questo: ci si lamenta, anche politicamente, quando si è sempre entro i limiti del sopportabile. Ma quando si esce da quei limiti, quando si vive l’insopportabile, allora o ci si uccide o si ride…»."