12/31/2010

Il pifferaio magico (una storia triste)

Dall'inserto "C'era una volta..." su l'Unità di oggi, una storia non proprio a lieto fine...


   Non è una bella storia. Pare che il Paese fosse invaso dai Topi (“ci sono più topi che bambini!”, tuonava la Tv). La gente impaurita protestava per le vie, finché si affacciò in televisione un ometto basso e pelato col sorriso smagliante: “Io vi libererò dai topi. Io ho un potere magico, incantatorio, io sono l’uomo della provvidenza, io io io...”, sbraitava facendo vedere i denti. “Salvaci tu, allora”, disse la gente, e il Presidente approvò: “Sarai ricompensato se fai sparire i topi”. “Nessun problema”, disse in tv l’ometto sorridendo, “datemi un giorno e non ci sarà più neanche un topo, ma da adesso guardate tutti il canale del Piffero in tv”. E si mise a suonare il piffero ridendo, mentre sullo schermo apparve come per magia un’orchestra con ballerini e ballerine nude che facevano le variazioni del piffero. Era una canzone demente che non finiva mai, i topi ne furono incantati e così la gente, tanto che nessun’altra musica si sentì più per il Paese. Ora topi ballerini si esibivano in tv (detta Piffero Tv) e tutti applaudivano i topi della tv del piffero. L’ometto andò a Palazzo a chiedere la ricompensa. “Ti offro la tv”, disse il Presidente. “Quella ce l’ho da un pezzo”, disse il pifferaio (che nel frattempo aveva fatto anche Piffero 1, 2, 3, 4 ecc. tutte uguali), “voglio il tuo Palazzo”. “Col piffero! Piuttosto vado in Tunisia!”. Detto fatto. Il pifferaio ora Presidente fece suonare la canzone del piffero da tutte le tv, la gente storse il naso poi si abituò, e ballò e cantò in coro le canzoni del Piffero. Tutte le bambine divenute cubiste ballavano nude nelle tv del Piffero mentre il pifferaio rideva, i bambini accompagnavano il piffero ininterrottamente. Quelli che si rifiutavano, o erano sordi o zoppi, furono dichiarati Topi ed emigrarono. Restarono solo vecchi, davanti alle tv Piffero 1, 2, 3, 4 ecc., vecchi d’ogni età che si erano dimenticati tutto, ma proprio tutto, del mondo prima del pifferaio. Qualcuno dice che, morto il Pifferaio, un altro uguale lo sostituì, a ridere mostrando i denti e suonare il piffero, ma nessuno si accorgeva più della differenza.

(su l'Unità di oggi, inserto di disegni e favole, "C'era una volta...")

12/26/2010

La creazione del mondo (frammento da un vecchio racconto)

Frammento da un mio vecchio racconto (“The Golden Age”, in: Oggetti smarriti e altre apparizioni; e, con altra ambientazione, nel romanzo Tolbiac)


   ... e una sera, tra gli ultimi canti di uccelli, mentre la terra diventava scura, il cielo rosa e rosso e il mare giù in fondo pallido e incolore, circondato di gatti che mi gironzolavano ai piedi mentre G. cucinava bistecche e sfornava il pane, con una coperta sulle spalle e un bicchiere di vino in mano io mi addormentai. E sognai la creazione del mondo (anni dopo avrei inserito questo sogno in un romanzo).
   
   Quando Dio creò il Mondo, egli lo divise in tre parti, impiegando tre giorni. Creò dapprima Tutte le cose che finiscono in polvere: i corpi, le cose, le erbe, i sassi, le case, e anche l’aria e i liquidi. E la bellezza, che finisce anch’essa in polvere. Poi creò Tutte le cose che luccicano: le stelle, le lucciole, i brillanti, i fuochi, le lampadine e i fanali. E le illusioni, i desideri, i miti, i valori e altre cose luccicanti. Creò infine Tutte le cose che trillano: i grilli, le cicale, i telefoni, i campanelli, gli uccellini, le idee e frasi magniloquenti, e i cosiddetti nobili sentimenti. Il mondo era fatto, ma Dio passò alcuni giorni a pensare senza pensare, nell'ampiezza senza confini della sua conoscenza, che Tutte le cose dei tre regni si mutano continuamente l’una nell'altra, e Tutte le Cose che Trillano e Tutte le cose che Luccicano finiscono anch’esse in Polvere, ma ciononostante esse sempre si ricreano e continuano a Trillare e Luccicare. “Polvere di Stelle”, pensò (con un sorriso) senza pensare. Il resto dei giorni, Dio si rese conto di avere creato l'Impermanenza. “Tutto si muta in Tutto, pensò Dio senza pensare. E’ questa la Vita, e si chiamerà così, la Vita Stessa, e infatti è ...”
   Il mio sognò si interruppe qui, e mi svegliai con la sensazione che una verità fondamentale - una Polvere Trillante e Luccicante - si fosse volatilizzata in un invisibile, immemorabile Silenzio. Silenzio che è propriamente, se esiste, la Voce di Dio.
   Intanto le bistecche erano pronte e sfrigolanti, e anche il pane. Nella testa mi risuonava una canzone che non ricordavo di avere mai saputo:
... tutte le cose che cadono
tutte le cose che appaiono
tutte le cose che finiscono in mare
tutte le cose che si lasciano andare...

(nell'immagine-copertina, particolare di un dipinto di Cathy Josefowitz, "Ojai")

12/18/2010

Il fantasma della violenza

   Vi ricordate quel programma tv in cui le Iene interrogavano deputati e senatori in uscita dai Palazzi, e questi non sapevano neppure il secolo della Rivoluzione francese? Gli stessi parlamentari (di tutti i partiti!) che il 14 hanno dato fiducia al governo, e dunque alla scuola, delle tre P: paura, povertà, precarietà (“c’è una quarta P”, ha commentato Vendola, “ma in Italia si dice escort”) vendendo se stessi: mentre 100.000 studenti manifestavano (coi loro lodati, bellissimi libri-scudi di cartone) per la cultura e l’istruzione pubblica. E’ stato allora che alcune decine hanno sfogato ciecamente la rabbia, o accettato provocazioni. “Non seguite vecchie parole d’ordine”, ha scritto Roberto Saviano, usando contro la violenza parole dal suono un po’ prefabbricato. Molti studenti gli hanno risposto: le tue parole d’ordine sono altrettanto vecchie - e sono innumerevoli in rete gli interventi serissimi e le testimonianze degli studenti che non trovano spazio e audience nei media. Perché la loro sacrosanta protesta (l’unica battaglia culturale e politica in questo Paese da decenni) deve piacere solo se conferma le nostre misurate aspettative, e appare giusta solo finché non ci turba? Come al tempo di Bava Beccaris, una protesta di civiltà viene trasformata in un problema di ordine pubblico, facendo dimenticare anche, come scrive Andrea Inglese su Nazioneindiana (che è poi il sito in cui è cresciuto Saviano), che “la delegittimazione del dissenso è stata presente in questo governo da sempre, è una delle pietre angolari della retorica berlusconiana”; e che anche la disubbidienza civile non violenta è illegale, “repressa con la stessa violenza con cui si reprimono movimenti violenti in piazza. Solo che, reprimere violentemente un non-violento che infrange la legge, non produce lo stesso consenso sulle masse che reprimere uno studente che brandisce un bastone”.

(rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di domenica 19/12/10)

"La falsa violenza"

(la foto qui a fianco di Patrizia Vicinelli è di Alberto Grifi)

Il tema di questi giorni, purtroppo a sproposito (usata come distrazione di massa) è la violenza. Ho delle cose da dire in merito, ma ora vorrei qui solo pubblicare un testo della poetessa Patrizia Vicinelli (che mi fu per anni, gli anni bolognesi e oltre, un'amica) dal titolo La falsa violenza, che ricevo quasi per caso da Loredana Magazzeni (che lo pubblicò anche sulla rivista Le Voci della Luna nel marzo 2004) e che così lo introduce:
   "Il testo di Patrizia Vicinelli, attraversato dalla scritta “La police voit dans le suicide d’un anarchiste détenu un acte d’auto-accusation” costituisce la parte testuale di una plaquette di poesia verbovisiva scritta da Patrizia Vicinelli, per Tau/Ma [vedi immagine in fondo al post], rivista contenitore curata da Mario Diacono e Claudio Parmiggiani, che per prima pubblicò i testi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai. Sono gli anni dell’assassinio dell’anarchico Pinelli, gli anni delle lotte studentesche e dell’utopia dell’”amore generale”: a questo utopia si rifà il monologo performativo qui riportato, che invita a distinguere fra una falsa violenza, istintuale diritto dell’uomo, che potremmo leggere come la sua capacità di non adeguarsi passivamente e di resistere, e la vera violenza, che è quella insita in ogni volontà di potere. Niente di più attuale, in un mondo che ha sempre più bisogno di riscrivere l’idea generale di bene e di amore generale".

 La falsa violenza, di Patrizia Vicinelli
   odiate, se volete odiare – ammazzate, se volete ammazzare: nutritevi con la falsa violenza – ma non contateci a lungo: l’amore in fine trionferà – è quando non c’è che la falsa violenza che vi sentite vivere – la vostra mente solo allora lavora: è in rapporto “uno a uno” con lo stimolo, con la bella vita che per voi è inferno, perché dite che la violenza è la reazione degli istinti e gli istinti sono da condannare (la vostra balorda morale) e siete chiusi nel vicolo tondo dove girate con l’asino cieco alla macina – questa non è “in azione”: è “inazione” – ma è con la certezza dell’istinto che sentiamo che l’amore trionferà – e intanto… intanto sappiamo accettare il minimo indispensabile di violenza nell’uomo nata dal suo istinto cercando di distinguere la vera violenza da quella falsa, quella nata dalla lotta per il potere nel mondo – sapere impegnare la mente attraverso i sensi è andare verso l’amore – saper capire un punto sul foglio, alto allenamento alla “psicologia del sé” a cui tutto fa capo – solo qui la mente lavora giusto – lavora con gli stimoli che lei la (la mente generale del tempo) ha creato – odiate, se volete odiare – ammazzate se volete ammazzare: nutritevi con la falsa violenza dettata dal desiderio del mondo – noi non abbiamo paura: sappiamo aspettare l’avvento dell’amore generale nel mondo che toglierà il potere a tutte le organizzazioni del mondo – e intanto…intanto accettiamo il minimo necessario indispensabile di vera violenza che l’istinto (antico es dell’uomo) ancora ci porta – scegli, in compagnia dell’asino cieco, un qualsiasi punto nel vicolo tondo: sei tu, e non a caso, che ruoti inattivo – noi, tutto attorno nel rosa, dove il colore sta per un augurio di pace, guardiamo, nuotiamo in attesa, in attivo godendo, col minimo indispensabile della nostra vera violenza, della vostra falsa stupida assurda violenza che tanto uccide e attendiamo in attivo, predicando lo spazio del tempo sul foglio, come emblema di pace, in attivo, l’avvento dell’amore generale

(da Patrizia Vicinelli, Apotheosys of schizoid woman, Ed. Tau/ma, 1969/70)

12/12/2010

Rodotà o Renzi? Sulla retorica giovani contro anziani


   Alla bella manifestazione di ieri, in difesa di valori agli antipodi del berlusconismo, come la scuola pubblica, c’erano molti giovani e moltissimi anziani e non si distinguevano tra loro. Perché lo dico? Perché è dai primordi del lamento contro la “gerontocrazia”, e la pretesa che i giovani debbano scalzare gli anziani, che vorrei scriverne. Il via me lo dà un cartello visto a San Giovanni: “Se i giovani sono come Renzi meglio i vecchi”. Renzi è il sindaco Pd di Firenze che vuole “rottamare” gli anziani, ora famoso anche perché ricevuto ed elogiato dal “catacombale” primo ministro non a Palazzo Chigi, ma nella reggia privata di Arcore.
   Una volta, di fronte alla retorica contro i vecchi, ho parlato a dei giovanissimi amici di Pietro Maso. Chi è? Cito per comodità da Wikipedia: “è il protagonista reo confesso di uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana. Aiutato da tre amici, il 17 aprile 1991 nella sua casa di Montecchia di Crosara uccise entrambi i suoi genitori servendosi di un tubo di ferro e di altri corpi contundenti tra cui spranghe e un bloccasterzo. La motivazione era intascare subito la sua parte di eredità. Condannato a 30 anni di reclusione, a ottobre 2008 ha ottenuto il regime di semilibertà”. Ricordo l’efferatezza di quel duplice omicidio in provincia di Verona, il primo dell’horror italico dei delitti nelle villette. Gianfranco Bettin vi dedicò un libro: L’erede. Una storia vera. Ma più di tutto colpirono i moventi: Pietro Maso non era in conflitto con i genitori, non opponeva ai loro una diversa visione del mondo, un diverso orizzonte di valori, anzi: voleva semplicemente prendere il loro posto, usare le loro carte di credito e l’automobile, e vivere da solo nella loro villetta. Certo, la mia era una provocazione, però il paradigma è chiaro. Ora, tanto per sapere: cambiereste un Rodotà con un Renzi?

12/07/2010

Aria & angeli. Thomas Ruff a Prato


Vorrei dire subito che è grazie a Thomas Ruff (e quindi a Dusseldorf), che ho scoperto Prato. Prima ne conoscevo solo la periferia (cioè il Museo Pecci): ma è una città toscana bella e anomala, con un ampio centro storico e un castello edificato da Federico II, un Duomo affrescato dal sublime Filippo Lippi e un’archeologia industriale che non sfigurerebbe a Zurigo o in una di quelle città tedesche in cui, da decenni, la riconversione dei siti industriali in centri culturali ha mostrato come la vita operosa si fonda con la vita intensa. Ma è anche grazie a una storica galleria di Prato, Dryphoto (animata da Vittoria Ciolini e Pier Luigi Tazzi, quest’ultimo curatore e autore di un ottimo testo nel catalogo), se la città ospita da ottobre una mostra antologica di Thomas Ruff. E non nei luoghi espositivi deputati e separati, ma in alcuni punti nevralgici, tra cui Palazzo Buonamici, sede della Provincia, e la popolatissima Biblioteca Comunale Lazzerini.
   Thomas Ruff è uno dei maggiori artisti contemporanei: già allievo dell’accademia di Dusseldorf (dove tuttora risiede), e di Bernd e Hilla Becher, da tempo ha oltrepassato l’attività di fotografo per comporre e lavorare immagini altrui, spesso anonime, lavorando dunque non solo sul (far) vedere il mondo, ma costruendo mondi. A Prato è stato lo stesso Ruff a collocare propri lavori, grazie alla collaborazione di un neo-assessore alla Cultura della Provincia, lo scrittore Edoardo Nesi: ha accettato la sfida di esporre le opere nelle stanze del lavoro e del potere politici come se fosse un museo, accettando dunque di esporre se stesso, con tutti gli altri funzionari e politici, allo sguardo di visitatori, turisti e scolaresche. Glasnost tanto più rischiosa in quanto a diretto confronto con la verità poetica e irriverente dell’arte. “Raramente una mostra è divertente, e questa lo è stata”, mi ha detto Nesi annunciando che, dato il successo di pubblico, la mostra è prorogata fino alla fine di gennaio. Nel medievale Palazzo, tra affreschi tardo-barocchi e arredi post-moderni, le opere di Thomas Ruff, quasi tutte di grande formato, richiamano l’attenzione pur trasmettendo al tempo stesso una strana forza rasserenante. Per cercare di spiegarne il potere vorrei partire dall’impatto che ha il visitatore nell’altra location della mostra, la Biblioteca Comunale Lazzerini.
   Nel parallelepipedo della fabbrica tessile più antica della città, perfettamente restaurata, accolti nel cortile della biblioteca da una grande scritta del pratese Curzio Malaparte – “A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’amore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo” - se si guarda dalle porte a vetri il salone d’entrata della biblioteca, simile a una nave rovesciata, si misura grazie a Thomas Ruff un benessere collettivo. Sono restato a contemplare affascinato le poltroncine rosse, gli espositori neri di libri, il via vai di corpi di chi ne fruisce, e quei grandi volti, quei primi piani luminosissimi, inconfondibilmente di Ruff, uno maschile e un altro femminile, che sorvegliano amorevolmente tutto questo sulle pareti in fondo. Quei volti che guardano con una sorta di umile, vigile raccoglimento, sono qui le icone di una comunità di individui intensa e operosa. Come se (ho pensato) gli angeli del “cielo sopra Berlino”, testimoni della vita quotidiana degli umani, fossero transitati qui per farci capire la ricchezza di quello che abbiamo, nei luoghi della vita associata. Per insegnarci, in un certo senso, la “politica”: la vita comune.
   Non è solo il potere che hanno i volti di Ruff di (ri)guardarci, perché lo stesso accade con le altre immagini: quelle della serie jpegs, mmagini digitali che esibiscono i pixel, e anche se rappresentano eventi tragici come le Twin Towers in fumo prima del crollo, non cancellano il carattere metalinguistico di immagini di immagini; quelle tratte dai manga giapponesi (Substrat), ingrandite fino all’astrazione e dai colori psichedelici; quelle tratte dai negativi di osservatori astronomici europei (Sterne) dediti alla mappatura del cielo australe, che mostrano quei “nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia” (con le parole del poeta della Ginestra), nebulose di astri forse già scomparsi mentre noi ne percepiamo la luce; o quelle della serie Nudes, a volte tratte da siti pornografici, ma sgranate, quasi evanescenti, delicate, e a bordi della compassione, perché in qualche mode rese più nude dall’artista. Quello che insomma accade con tutte le opere di Thomas Ruff, a saperle collocare (e a Prato, dove il “curatore” ha per così dire abdicato a favore dell’artista, l’allestimento è semplicemente perfetto), è che sembra siano loro – le opere - a testimoniare e a prendersi cura di noi che le guardiamo, non il contrario; siamo noi che esponiamo a loro le nostre vite, e il loro sguardo ci consola. Tale e tanto è il potere di assorbimento delle immagini di Ruff, che la loro presenza ci fa sentire meno soli, assorbe per così dire la nostra fatica di vivere nel tempo, quel “peso del mondo” di cui scrisse Peter Handke. Non stupisce che consolino e ispirino anche il lavoro dei politici in uno dei palazzi che storicamente ne rappresenta il Potere, rivelandone l’impermanenza.

(su l'Unità, 7/12/2010)

12/04/2010

Il fantasma della trasparenza

   Parlare di WikiLeaks, il sito da cui Julian Assange e altri hacker divulgano “segreti” che sarebbero dovuti restare tali fino all’apertura degli archivi da parte degli storici, in nome di una glasnost connaturata a Internet e alle nuove tecnologie della comunicazione in presa diretta, richiederebbe una seria riflessione, quasi un seminario: ripensare ad esempio nozioni come “fatto”, “notizia”, “segreto”, “pubblico”, “democrazia” ecc., e i dispositivi che la scrittura (fin da Platone, che ne avversava l’intrinseca e pericolosa “pubblicità”) ha storicamente dispiegato in un senso o nell’altro. Affrontare quindi il concetto cruciale di “archivio”, e di “testimoni” (da decenni in conflitto di competenza con gli storici) e infine di “sincerità” - parola che significa in origine “senza cera”, senza cioè il sigillo con cui, al servizio dei Principi, i “segretari” secretavano, appunto, le missive. Invece, dal coro di banalità di politici e commentatori, non si sottrae neppure la psicanalista Elizabeth Roudinesco, che sul giornale Libération titola (2/12) “La dittatura della trasparenza” un pezzo contro WikiLeaks criticato anche dai suoi propri lettori: “Come e chi decide quello che può e non può essere divulgato?” “Solo quando viene ‘dal basso’ la trasparenza è deplorevole?”. Rimproverano di prendere a bersaglio chi constata che il re è nudo, e non piuttosto il potere; evocano lo spettro del “negazionismo”, e in generale preferiscono l’eccesso di trasparenza al suo contrario. “Che vergogna – scrive uno - gli Stati non hanno più la loro incestuosa intimità!”
   In una storia dell’idea di trasparenza è poi facile scoprire che il fondatore del suo mito moderno, anzi contemporaneo, è il perseguitato Jean-Jacques Rousseau (rimando al magistrale studio di Jean Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo). Il velo delle apparenze, degli artifici, dei simulacri (come non rimpiangere un commento di Jean Baudrillard a WikiLeaks?), ispirava all’autore del Contratto sociale (ma anche delle Confessioni) l’utopia di un regno felice della sin-cerità, uno stato d’infanzia in cui gli Dei leggessero nel cuore degli umani. Ed ecco: più di due secoli dopo Kant e l’Illuminismo (“uscire dallo stato di minorità”), il dibattito su Assange non ricorda in effetti quello degli adulti indecisi se nascondere o svelare ai bambini le verità scabrose?

(versione di poco più lunga della rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di domenica 5 dicembre 2010)