12/31/2010

Il pifferaio magico (una storia triste)

Dall'inserto "C'era una volta..." su l'Unità di oggi, una storia non proprio a lieto fine...


   Non è una bella storia. Pare che il Paese fosse invaso dai Topi (“ci sono più topi che bambini!”, tuonava la Tv). La gente impaurita protestava per le vie, finché si affacciò in televisione un ometto basso e pelato col sorriso smagliante: “Io vi libererò dai topi. Io ho un potere magico, incantatorio, io sono l’uomo della provvidenza, io io io...”, sbraitava facendo vedere i denti. “Salvaci tu, allora”, disse la gente, e il Presidente approvò: “Sarai ricompensato se fai sparire i topi”. “Nessun problema”, disse in tv l’ometto sorridendo, “datemi un giorno e non ci sarà più neanche un topo, ma da adesso guardate tutti il canale del Piffero in tv”. E si mise a suonare il piffero ridendo, mentre sullo schermo apparve come per magia un’orchestra con ballerini e ballerine nude che facevano le variazioni del piffero. Era una canzone demente che non finiva mai, i topi ne furono incantati e così la gente, tanto che nessun’altra musica si sentì più per il Paese. Ora topi ballerini si esibivano in tv (detta Piffero Tv) e tutti applaudivano i topi della tv del piffero. L’ometto andò a Palazzo a chiedere la ricompensa. “Ti offro la tv”, disse il Presidente. “Quella ce l’ho da un pezzo”, disse il pifferaio (che nel frattempo aveva fatto anche Piffero 1, 2, 3, 4 ecc. tutte uguali), “voglio il tuo Palazzo”. “Col piffero! Piuttosto vado in Tunisia!”. Detto fatto. Il pifferaio ora Presidente fece suonare la canzone del piffero da tutte le tv, la gente storse il naso poi si abituò, e ballò e cantò in coro le canzoni del Piffero. Tutte le bambine divenute cubiste ballavano nude nelle tv del Piffero mentre il pifferaio rideva, i bambini accompagnavano il piffero ininterrottamente. Quelli che si rifiutavano, o erano sordi o zoppi, furono dichiarati Topi ed emigrarono. Restarono solo vecchi, davanti alle tv Piffero 1, 2, 3, 4 ecc., vecchi d’ogni età che si erano dimenticati tutto, ma proprio tutto, del mondo prima del pifferaio. Qualcuno dice che, morto il Pifferaio, un altro uguale lo sostituì, a ridere mostrando i denti e suonare il piffero, ma nessuno si accorgeva più della differenza.

(su l'Unità di oggi, inserto di disegni e favole, "C'era una volta...")

12/26/2010

La creazione del mondo (frammento da un vecchio racconto)

Frammento da un mio vecchio racconto (“The Golden Age”, in: Oggetti smarriti e altre apparizioni; e, con altra ambientazione, nel romanzo Tolbiac)


   ... e una sera, tra gli ultimi canti di uccelli, mentre la terra diventava scura, il cielo rosa e rosso e il mare giù in fondo pallido e incolore, circondato di gatti che mi gironzolavano ai piedi mentre G. cucinava bistecche e sfornava il pane, con una coperta sulle spalle e un bicchiere di vino in mano io mi addormentai. E sognai la creazione del mondo (anni dopo avrei inserito questo sogno in un romanzo).
   
   Quando Dio creò il Mondo, egli lo divise in tre parti, impiegando tre giorni. Creò dapprima Tutte le cose che finiscono in polvere: i corpi, le cose, le erbe, i sassi, le case, e anche l’aria e i liquidi. E la bellezza, che finisce anch’essa in polvere. Poi creò Tutte le cose che luccicano: le stelle, le lucciole, i brillanti, i fuochi, le lampadine e i fanali. E le illusioni, i desideri, i miti, i valori e altre cose luccicanti. Creò infine Tutte le cose che trillano: i grilli, le cicale, i telefoni, i campanelli, gli uccellini, le idee e frasi magniloquenti, e i cosiddetti nobili sentimenti. Il mondo era fatto, ma Dio passò alcuni giorni a pensare senza pensare, nell'ampiezza senza confini della sua conoscenza, che Tutte le cose dei tre regni si mutano continuamente l’una nell'altra, e Tutte le Cose che Trillano e Tutte le cose che Luccicano finiscono anch’esse in Polvere, ma ciononostante esse sempre si ricreano e continuano a Trillare e Luccicare. “Polvere di Stelle”, pensò (con un sorriso) senza pensare. Il resto dei giorni, Dio si rese conto di avere creato l'Impermanenza. “Tutto si muta in Tutto, pensò Dio senza pensare. E’ questa la Vita, e si chiamerà così, la Vita Stessa, e infatti è ...”
   Il mio sognò si interruppe qui, e mi svegliai con la sensazione che una verità fondamentale - una Polvere Trillante e Luccicante - si fosse volatilizzata in un invisibile, immemorabile Silenzio. Silenzio che è propriamente, se esiste, la Voce di Dio.
   Intanto le bistecche erano pronte e sfrigolanti, e anche il pane. Nella testa mi risuonava una canzone che non ricordavo di avere mai saputo:
... tutte le cose che cadono
tutte le cose che appaiono
tutte le cose che finiscono in mare
tutte le cose che si lasciano andare...

(nell'immagine-copertina, particolare di un dipinto di Cathy Josefowitz, "Ojai")

12/18/2010

Il fantasma della violenza

   Vi ricordate quel programma tv in cui le Iene interrogavano deputati e senatori in uscita dai Palazzi, e questi non sapevano neppure il secolo della Rivoluzione francese? Gli stessi parlamentari (di tutti i partiti!) che il 14 hanno dato fiducia al governo, e dunque alla scuola, delle tre P: paura, povertà, precarietà (“c’è una quarta P”, ha commentato Vendola, “ma in Italia si dice escort”) vendendo se stessi: mentre 100.000 studenti manifestavano (coi loro lodati, bellissimi libri-scudi di cartone) per la cultura e l’istruzione pubblica. E’ stato allora che alcune decine hanno sfogato ciecamente la rabbia, o accettato provocazioni. “Non seguite vecchie parole d’ordine”, ha scritto Roberto Saviano, usando contro la violenza parole dal suono un po’ prefabbricato. Molti studenti gli hanno risposto: le tue parole d’ordine sono altrettanto vecchie - e sono innumerevoli in rete gli interventi serissimi e le testimonianze degli studenti che non trovano spazio e audience nei media. Perché la loro sacrosanta protesta (l’unica battaglia culturale e politica in questo Paese da decenni) deve piacere solo se conferma le nostre misurate aspettative, e appare giusta solo finché non ci turba? Come al tempo di Bava Beccaris, una protesta di civiltà viene trasformata in un problema di ordine pubblico, facendo dimenticare anche, come scrive Andrea Inglese su Nazioneindiana (che è poi il sito in cui è cresciuto Saviano), che “la delegittimazione del dissenso è stata presente in questo governo da sempre, è una delle pietre angolari della retorica berlusconiana”; e che anche la disubbidienza civile non violenta è illegale, “repressa con la stessa violenza con cui si reprimono movimenti violenti in piazza. Solo che, reprimere violentemente un non-violento che infrange la legge, non produce lo stesso consenso sulle masse che reprimere uno studente che brandisce un bastone”.

(rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di domenica 19/12/10)

"La falsa violenza"

(la foto qui a fianco di Patrizia Vicinelli è di Alberto Grifi)

Il tema di questi giorni, purtroppo a sproposito (usata come distrazione di massa) è la violenza. Ho delle cose da dire in merito, ma ora vorrei qui solo pubblicare un testo della poetessa Patrizia Vicinelli (che mi fu per anni, gli anni bolognesi e oltre, un'amica) dal titolo La falsa violenza, che ricevo quasi per caso da Loredana Magazzeni (che lo pubblicò anche sulla rivista Le Voci della Luna nel marzo 2004) e che così lo introduce:
   "Il testo di Patrizia Vicinelli, attraversato dalla scritta “La police voit dans le suicide d’un anarchiste détenu un acte d’auto-accusation” costituisce la parte testuale di una plaquette di poesia verbovisiva scritta da Patrizia Vicinelli, per Tau/Ma [vedi immagine in fondo al post], rivista contenitore curata da Mario Diacono e Claudio Parmiggiani, che per prima pubblicò i testi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai. Sono gli anni dell’assassinio dell’anarchico Pinelli, gli anni delle lotte studentesche e dell’utopia dell’”amore generale”: a questo utopia si rifà il monologo performativo qui riportato, che invita a distinguere fra una falsa violenza, istintuale diritto dell’uomo, che potremmo leggere come la sua capacità di non adeguarsi passivamente e di resistere, e la vera violenza, che è quella insita in ogni volontà di potere. Niente di più attuale, in un mondo che ha sempre più bisogno di riscrivere l’idea generale di bene e di amore generale".

 La falsa violenza, di Patrizia Vicinelli
   odiate, se volete odiare – ammazzate, se volete ammazzare: nutritevi con la falsa violenza – ma non contateci a lungo: l’amore in fine trionferà – è quando non c’è che la falsa violenza che vi sentite vivere – la vostra mente solo allora lavora: è in rapporto “uno a uno” con lo stimolo, con la bella vita che per voi è inferno, perché dite che la violenza è la reazione degli istinti e gli istinti sono da condannare (la vostra balorda morale) e siete chiusi nel vicolo tondo dove girate con l’asino cieco alla macina – questa non è “in azione”: è “inazione” – ma è con la certezza dell’istinto che sentiamo che l’amore trionferà – e intanto… intanto sappiamo accettare il minimo indispensabile di violenza nell’uomo nata dal suo istinto cercando di distinguere la vera violenza da quella falsa, quella nata dalla lotta per il potere nel mondo – sapere impegnare la mente attraverso i sensi è andare verso l’amore – saper capire un punto sul foglio, alto allenamento alla “psicologia del sé” a cui tutto fa capo – solo qui la mente lavora giusto – lavora con gli stimoli che lei la (la mente generale del tempo) ha creato – odiate, se volete odiare – ammazzate se volete ammazzare: nutritevi con la falsa violenza dettata dal desiderio del mondo – noi non abbiamo paura: sappiamo aspettare l’avvento dell’amore generale nel mondo che toglierà il potere a tutte le organizzazioni del mondo – e intanto…intanto accettiamo il minimo necessario indispensabile di vera violenza che l’istinto (antico es dell’uomo) ancora ci porta – scegli, in compagnia dell’asino cieco, un qualsiasi punto nel vicolo tondo: sei tu, e non a caso, che ruoti inattivo – noi, tutto attorno nel rosa, dove il colore sta per un augurio di pace, guardiamo, nuotiamo in attesa, in attivo godendo, col minimo indispensabile della nostra vera violenza, della vostra falsa stupida assurda violenza che tanto uccide e attendiamo in attivo, predicando lo spazio del tempo sul foglio, come emblema di pace, in attivo, l’avvento dell’amore generale

(da Patrizia Vicinelli, Apotheosys of schizoid woman, Ed. Tau/ma, 1969/70)

12/12/2010

Rodotà o Renzi? Sulla retorica giovani contro anziani


   Alla bella manifestazione di ieri, in difesa di valori agli antipodi del berlusconismo, come la scuola pubblica, c’erano molti giovani e moltissimi anziani e non si distinguevano tra loro. Perché lo dico? Perché è dai primordi del lamento contro la “gerontocrazia”, e la pretesa che i giovani debbano scalzare gli anziani, che vorrei scriverne. Il via me lo dà un cartello visto a San Giovanni: “Se i giovani sono come Renzi meglio i vecchi”. Renzi è il sindaco Pd di Firenze che vuole “rottamare” gli anziani, ora famoso anche perché ricevuto ed elogiato dal “catacombale” primo ministro non a Palazzo Chigi, ma nella reggia privata di Arcore.
   Una volta, di fronte alla retorica contro i vecchi, ho parlato a dei giovanissimi amici di Pietro Maso. Chi è? Cito per comodità da Wikipedia: “è il protagonista reo confesso di uno dei più clamorosi casi di omicidio a sfondo familiare della cronaca italiana. Aiutato da tre amici, il 17 aprile 1991 nella sua casa di Montecchia di Crosara uccise entrambi i suoi genitori servendosi di un tubo di ferro e di altri corpi contundenti tra cui spranghe e un bloccasterzo. La motivazione era intascare subito la sua parte di eredità. Condannato a 30 anni di reclusione, a ottobre 2008 ha ottenuto il regime di semilibertà”. Ricordo l’efferatezza di quel duplice omicidio in provincia di Verona, il primo dell’horror italico dei delitti nelle villette. Gianfranco Bettin vi dedicò un libro: L’erede. Una storia vera. Ma più di tutto colpirono i moventi: Pietro Maso non era in conflitto con i genitori, non opponeva ai loro una diversa visione del mondo, un diverso orizzonte di valori, anzi: voleva semplicemente prendere il loro posto, usare le loro carte di credito e l’automobile, e vivere da solo nella loro villetta. Certo, la mia era una provocazione, però il paradigma è chiaro. Ora, tanto per sapere: cambiereste un Rodotà con un Renzi?

12/07/2010

Aria & angeli. Thomas Ruff a Prato


Vorrei dire subito che è grazie a Thomas Ruff (e quindi a Dusseldorf), che ho scoperto Prato. Prima ne conoscevo solo la periferia (cioè il Museo Pecci): ma è una città toscana bella e anomala, con un ampio centro storico e un castello edificato da Federico II, un Duomo affrescato dal sublime Filippo Lippi e un’archeologia industriale che non sfigurerebbe a Zurigo o in una di quelle città tedesche in cui, da decenni, la riconversione dei siti industriali in centri culturali ha mostrato come la vita operosa si fonda con la vita intensa. Ma è anche grazie a una storica galleria di Prato, Dryphoto (animata da Vittoria Ciolini e Pier Luigi Tazzi, quest’ultimo curatore e autore di un ottimo testo nel catalogo), se la città ospita da ottobre una mostra antologica di Thomas Ruff. E non nei luoghi espositivi deputati e separati, ma in alcuni punti nevralgici, tra cui Palazzo Buonamici, sede della Provincia, e la popolatissima Biblioteca Comunale Lazzerini.
   Thomas Ruff è uno dei maggiori artisti contemporanei: già allievo dell’accademia di Dusseldorf (dove tuttora risiede), e di Bernd e Hilla Becher, da tempo ha oltrepassato l’attività di fotografo per comporre e lavorare immagini altrui, spesso anonime, lavorando dunque non solo sul (far) vedere il mondo, ma costruendo mondi. A Prato è stato lo stesso Ruff a collocare propri lavori, grazie alla collaborazione di un neo-assessore alla Cultura della Provincia, lo scrittore Edoardo Nesi: ha accettato la sfida di esporre le opere nelle stanze del lavoro e del potere politici come se fosse un museo, accettando dunque di esporre se stesso, con tutti gli altri funzionari e politici, allo sguardo di visitatori, turisti e scolaresche. Glasnost tanto più rischiosa in quanto a diretto confronto con la verità poetica e irriverente dell’arte. “Raramente una mostra è divertente, e questa lo è stata”, mi ha detto Nesi annunciando che, dato il successo di pubblico, la mostra è prorogata fino alla fine di gennaio. Nel medievale Palazzo, tra affreschi tardo-barocchi e arredi post-moderni, le opere di Thomas Ruff, quasi tutte di grande formato, richiamano l’attenzione pur trasmettendo al tempo stesso una strana forza rasserenante. Per cercare di spiegarne il potere vorrei partire dall’impatto che ha il visitatore nell’altra location della mostra, la Biblioteca Comunale Lazzerini.
   Nel parallelepipedo della fabbrica tessile più antica della città, perfettamente restaurata, accolti nel cortile della biblioteca da una grande scritta del pratese Curzio Malaparte – “A Prato, dove tutto viene a finire: la gloria, l’amore, la pietà, la superbia, la vanità del mondo” - se si guarda dalle porte a vetri il salone d’entrata della biblioteca, simile a una nave rovesciata, si misura grazie a Thomas Ruff un benessere collettivo. Sono restato a contemplare affascinato le poltroncine rosse, gli espositori neri di libri, il via vai di corpi di chi ne fruisce, e quei grandi volti, quei primi piani luminosissimi, inconfondibilmente di Ruff, uno maschile e un altro femminile, che sorvegliano amorevolmente tutto questo sulle pareti in fondo. Quei volti che guardano con una sorta di umile, vigile raccoglimento, sono qui le icone di una comunità di individui intensa e operosa. Come se (ho pensato) gli angeli del “cielo sopra Berlino”, testimoni della vita quotidiana degli umani, fossero transitati qui per farci capire la ricchezza di quello che abbiamo, nei luoghi della vita associata. Per insegnarci, in un certo senso, la “politica”: la vita comune.
   Non è solo il potere che hanno i volti di Ruff di (ri)guardarci, perché lo stesso accade con le altre immagini: quelle della serie jpegs, mmagini digitali che esibiscono i pixel, e anche se rappresentano eventi tragici come le Twin Towers in fumo prima del crollo, non cancellano il carattere metalinguistico di immagini di immagini; quelle tratte dai manga giapponesi (Substrat), ingrandite fino all’astrazione e dai colori psichedelici; quelle tratte dai negativi di osservatori astronomici europei (Sterne) dediti alla mappatura del cielo australe, che mostrano quei “nodi quasi di stelle, ch’a noi paion qual nebbia” (con le parole del poeta della Ginestra), nebulose di astri forse già scomparsi mentre noi ne percepiamo la luce; o quelle della serie Nudes, a volte tratte da siti pornografici, ma sgranate, quasi evanescenti, delicate, e a bordi della compassione, perché in qualche mode rese più nude dall’artista. Quello che insomma accade con tutte le opere di Thomas Ruff, a saperle collocare (e a Prato, dove il “curatore” ha per così dire abdicato a favore dell’artista, l’allestimento è semplicemente perfetto), è che sembra siano loro – le opere - a testimoniare e a prendersi cura di noi che le guardiamo, non il contrario; siamo noi che esponiamo a loro le nostre vite, e il loro sguardo ci consola. Tale e tanto è il potere di assorbimento delle immagini di Ruff, che la loro presenza ci fa sentire meno soli, assorbe per così dire la nostra fatica di vivere nel tempo, quel “peso del mondo” di cui scrisse Peter Handke. Non stupisce che consolino e ispirino anche il lavoro dei politici in uno dei palazzi che storicamente ne rappresenta il Potere, rivelandone l’impermanenza.

(su l'Unità, 7/12/2010)

12/04/2010

Il fantasma della trasparenza

   Parlare di WikiLeaks, il sito da cui Julian Assange e altri hacker divulgano “segreti” che sarebbero dovuti restare tali fino all’apertura degli archivi da parte degli storici, in nome di una glasnost connaturata a Internet e alle nuove tecnologie della comunicazione in presa diretta, richiederebbe una seria riflessione, quasi un seminario: ripensare ad esempio nozioni come “fatto”, “notizia”, “segreto”, “pubblico”, “democrazia” ecc., e i dispositivi che la scrittura (fin da Platone, che ne avversava l’intrinseca e pericolosa “pubblicità”) ha storicamente dispiegato in un senso o nell’altro. Affrontare quindi il concetto cruciale di “archivio”, e di “testimoni” (da decenni in conflitto di competenza con gli storici) e infine di “sincerità” - parola che significa in origine “senza cera”, senza cioè il sigillo con cui, al servizio dei Principi, i “segretari” secretavano, appunto, le missive. Invece, dal coro di banalità di politici e commentatori, non si sottrae neppure la psicanalista Elizabeth Roudinesco, che sul giornale Libération titola (2/12) “La dittatura della trasparenza” un pezzo contro WikiLeaks criticato anche dai suoi propri lettori: “Come e chi decide quello che può e non può essere divulgato?” “Solo quando viene ‘dal basso’ la trasparenza è deplorevole?”. Rimproverano di prendere a bersaglio chi constata che il re è nudo, e non piuttosto il potere; evocano lo spettro del “negazionismo”, e in generale preferiscono l’eccesso di trasparenza al suo contrario. “Che vergogna – scrive uno - gli Stati non hanno più la loro incestuosa intimità!”
   In una storia dell’idea di trasparenza è poi facile scoprire che il fondatore del suo mito moderno, anzi contemporaneo, è il perseguitato Jean-Jacques Rousseau (rimando al magistrale studio di Jean Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo). Il velo delle apparenze, degli artifici, dei simulacri (come non rimpiangere un commento di Jean Baudrillard a WikiLeaks?), ispirava all’autore del Contratto sociale (ma anche delle Confessioni) l’utopia di un regno felice della sin-cerità, uno stato d’infanzia in cui gli Dei leggessero nel cuore degli umani. Ed ecco: più di due secoli dopo Kant e l’Illuminismo (“uscire dallo stato di minorità”), il dibattito su Assange non ricorda in effetti quello degli adulti indecisi se nascondere o svelare ai bambini le verità scabrose?

(versione di poco più lunga della rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di domenica 5 dicembre 2010)

11/30/2010

Per Mario - noi, l'armata Brancaleone

Ieri sera, a cena da Bernardo Bertolucci e poi davanti alla tv, confesso che eravamo un po' annoiati della - a tratti - pomposa banalità (dalla parte giusta della barricata, certo) di "Vieni via con me"... quando, come una folata di vento freddo, come una finestra che sbatte, ci è arrivata per telefono la notizia di Mario Monicelli. Triste e tragica, ma quanto vitale... Poco dopo, ancora a caldo, Bernardo ha voluto dirmi questa frase, che leggerete domani, credo, su l'Unità:
"Era l'ultimo, e ha tenuto duro sostituendo il piacere di fare film con quello di vivere la politica come un giovane, a tempo pieno. Per ricordare la sua modestia: una sera, a casa di Laura Betti, lo presentai a Mark Peploe: 'Mark, questo è il grande Monicelli'. Mario mi bloccò: 'Bernardo, queste sono parole che diminuiscono'".
Io lo ricordo la scorsa primavera alla scuola cine-tv "Rossellini" (dove mi onoro di insegnare), quando con energia invitò gli studenti a ribellarsi - ribellarsi - di fronte ai giornalisti beffati da una convocazione per una (falsa) conferenza stampa per presentare il sequel (falso) de "L'armata Brancaleone": "La nuova armata Brancaleone".
Ecco, forse non è poi così falso, l'armata Brancaleone siamo noi, lui, e sono tutti gli studenti che stamattina, da direzioni diverse e da numerose manifestazioni, convergeranno a Piazza  Montecitorio, dove si decide sul massacro detto "Gelmini" dell'educazione e istruzione pubbliche.
Il link qui sotto è una traccia lasciata da mario Monicelli alla scuola Rossellini, alle proteste di questi strani giorni, ai giovani, a tutti noi della nuova armata Brancaleone: http://video.unita.it/media/Cinema/L_opera_di_Monicelli_contro_i_tagli_della_Gelmini_1368.html

11/27/2010

Le cose che non servono a niente

(Questo è il testo della mia rubrica domenicale acchiappafantasmi che ho appena inviato all'Unità, in uscita domani. Quando l'ho finito anche sotto le mie finestre, un po decentrate, è passato un corteo di studenti giovanissimi, liceali. Li ho guardati con amore. Gridavano slogan civilissimi, poi hanno intonato Bella ciao. Guardate la foto a sinistra (non il titolo): libri come scudi. Oggi c'è una grande manifestazione a Roma, studenti e operai, si diceva una volta. E' a loro che dedico questo breve testo.  Tra breve invece partirò, sfogliando la città, per una destinazione diversa, anche se vicinissima nello spazio - un luogo di preghiera e silenzio, del tutto fine a se stesso, senza teologia di nessuna sorta. In fondo,credo, è la stessa cosa, è lo stesso fare anima. Buona giornata).

Le cose che non servono a niente

Lo stesso giorno ho visto la bellissima immagine degli studenti in corteo che si fanno scudo con cartelli che hanno titoli di libri (da Petronio e Boccaccio alla Costituzione Italiana), e ho letto che in Parlamento l’on. Antonio Martino (Pdl) ha esclamato contro il centrosinistra: “Le università insegnano cose che non servono. Non vi vergognate di difenderle?” Confessione esemplare, quest’ultima, del conflitto di civiltà che qui evoco spesso (e che non è detto che oggi divida esattamente la “destra” dalla “sinistra”).

   A cosa servono le cose che non servono a niente? E’ un buon titolo per una dissertazione che darei agli studenti delle scuole. Facciamolo, un elenco dell’inutile: leggere (tutta la letteratura), la musica, l’arte, il cinema, la filosofia, il teatro, la mistica, la bellezza, su su fino alle carezze, l’amore senza finalità procreative (col preservativo o senza), i gay, il pregare gratuitamente, per puro amore del divino. Tutto questo non serve a nulla, nulla che non sia se stesso. Un fine in sé, scriveva Kant dell’opera d’arte. Come la vita. Ma com’è che l’elenco delle cose che non servono a niente coincide con l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere, ed entrambi con tutto ciò che esula, quando non le avversa, dalle catene di montaggio e dalle spirali della guerra? Non è solo che ciò che non “serve” in realtà “regna”, suggerendo un’idea di sovranità o "signoria senza schiavi” che è tra le più belle utopie, o programmi politici, tra quanti circolavano negli anni ‘70. E’ che la politica stessa, senza questo orizzonte, non serve a nulla se non a confermare e giustificare l’esistente. L’otium, cultura e contemplazione, per gli operai; licei classici serali per tutti, per il gusto di studiare; sono esempi tra tanti di cose che contino davvero. Come i libri imparati a memoria, perché non se ne estingua la memoria, nella foresta in cui si rifugiano i lettori dissidenti in Farhenheit 451; gli stessi libri che costituiscono simbolici scudi agli studenti nelle manifestazioni di questi giorni. Questa loro semplice idea mi ha letteralmente commosso.

11/21/2010

Un Social Network dei valori

   Ho visto The Social Network, il film. E’ la storia di un ragazzo con enorme intelligenza cognitiva e acuti problemi di comunicazione, soprattutto affettiva, per compensare i quali inventa e realizza la più grande piattaforma di comunicazione virtuale del mondo, Facebook, che è tale grazie all’adesione degli utenti che vi si consegnano. Il film inizia col dialogo disastroso con la ragazza che, al college, lo molla per la sua anaffettività; finisce quando anni dopo, multimiliardario come Berlusconi, le chiede l’amicizia su Facebook. Il ragazzo, adulto, non è guarito. Tra le righe del film spuntano le problematiche del copy-right delle idee e di quello della propria identità. Suscita altre domande, tipo: quale rapporto tra fallimento emotivo e successo imprenditoriale? Il “medium” non era già il “messaggio”?

  
   Nel frattempo, qui da noi, in Tv un leader di destra e uno di sinistra hanno fatto l’elenco pericolosamente simile dei loro valori. Ma il vice di quello di sinistra, a Milano, si è dimesso perché alle primarie il popolo di sinistra ha preferito il candidato di sinistra. Il dimissionario del Pd è colui che anni fa invitò a sbarazzarsi della vocazione pedagogica del Pci per andare incontro alle aspettative della gente (stile Lega). Disastrosa stima degli orizzonti della “gente”, i cui valori sono sradicati, diserbati, da decenni di diseducazione televisiva, pubblicità che ha fagocitato la politica, vendita all’asta delle idee (le idee sottoposte ai sondaggi: se hanno successo si dichiarano, se no, no). La verità semplice che un partito di sinistra vince se è di sinistra (come uno di destra se è di destra), invece di dar gioia imbarazza. E mi dispera che non sia colta la vera differenza: che tutto è politica, il linguaggio, le battaglie culturali, l’educazione, il difendere le proprie scelte, il fare opposizione alla destra, non concorrenza: un diverso “social network”, ecco.

(rubrica acchiappafantasmi, su l'Unità di domenica 21 novembre 2010)

11/16/2010

Ogni cosa c'entra con ogni cosa. Conversazione con Gianfranco Baruchello.

1975-Jungkapital, Gesellenkapital, Machinenkapital (Il Capitale)

   Lo studio di Gianfranco Baruchello è pervaso di quadri, disegni, carte, cartelle, libri e soprattutto oggetti, tutti pertinenti al suo lavoro di artista che definirò «enciclopedico». Il suo nomadismo, estensivo e intensivo, è come la sua conversazione: un’esperienza di «semiosi illimitata», come trovarsi in uno dei suoi grandi spazi costellati di «geroglifici», segni, «punti cosmogonici», «accidenti in un perimetro», punti di riferimento e di crisi insieme precisi e ambigui, rigorosi e (quasi) indecifrabili, dove perdersi e trovarsi sono alla fine sinonimi. Il fatto che tutto c’entri con tutto, in una concatenazione virtualmente infinita, è la posizione filosofico-estetica comune: l’unica cosa che “non c’entra”, mi dice Baruchello, l’unica frase e domanda da bandire, è proprio: ‘Cosa c’entra questo con quello?’ Il rigore di Baruchello è nel disegno; il mio, dice lui, è nelle parole, e nell’uso della mia fragilità, o apertura. Provo con lui la stessa sensazione che ebbi nello studio di Bruno Munari: non esistono materiali sterili, si può adoperare tutto, anche l’assenza. Ma l’opera di Baruchello è, in più, venata di una consapevolezza politica (come la ricorrenza del concetto di valore d’uso di Marx), e la sua poetica mi coinvolge strettamente: amiamo entrambi gli archivi, gli elenchi, gli oggetti trovati e smarriti, la filosofia, perfino l'I Ching. La sua «creatività di confine» conforta il mio essere borderline nello scrivere. «Vuol dire non essere negli elenchi, essere fuori dai canoni», mi dice. Più metodico di me, ha segnato sull’ultima pagina bianca di un paio di miei libri (Oggetti smarriti e altre apparizioni, e H.P....), con la sua calligrafia minuta («baruglifica», direbbe Paolo Fabbri) una mappa di parole-citazioni che lo hanno interessato, col numero di pagina. Alla sua unica vera domanda a me – come io gestisca il problema della metafisica, quale sia il mio «meccanismo del pensiero», detto con le parole di De Chirico sulla pittura, appunto, «metafisica» – rispondo gestendo questo dialogo.

   Guardiamo sul computer una serie di immagini di suoi lavori, e scorrono a salti un’opera e una vita intensissime: Baruchello ha fatto tutto, e prima degli altri. Dalla Coscienza del presente (awareness), esposto la prima volta alla mostra che lanciò la Pop Art (la mostra New Realists, da Sydney Janis, a New York, nel 1962), poi la stele con i libri incollati e sepolti nel bianco, Partout le silence sous le mouvement (nello stesso anno), esposta a Parigi con i collage in una mostra (Collage et objets) in cui c’erano tutti, da Picasso a Man Ray, a Max Ernst e a Rauschenberg; al grande quadro sul Capitale di Marx e gli altri di corredo (accumulatori di energia, con riferimenti a Duchamp), ai numerosi libri, al film ormai storico con Alberto Grifi (Verifica incerta, nel 1964) e quelli – una settantina – da solo. Fino al lavoro agricolo-ecologico a Santa Cornelia, nella campagna intorno alla sua casa oggi non più casa ma Fondazione. Sullo schermo appare un’immagine in bianco e nero di quella terra arata:

   Ecco, qui l’opera è il confronto fra l’agricoltura e l’arte, tra valore di scambio e valore d’uso del prodotto agricolo e quelli del prodotto artistico. Il contadino vende la sua cosa, però la mangia anche lui, l’artista vende la cosa e non la mangia, anzi non può proprio vivere se non fa l’arte: ecco le differenze di valore. Su questo concetto ho lavorato e fatto libri, come Agricola Cornelia s.p.a. e poi Io sono un albero. Questo, invece (guardiamo l’immagine di un filone di pane in una cassa piena di terra) è una parte di Nascita e morte del pane, azione in cui il pane nasceva dalla terra, poi veniva martoriato, legato, incatenato, imbottito di giornali, tagliato a metà, e a un certo momento moriva, scompariva nella terra.
   L’hai seppellito?
   Sì, alla fine scompare nella terra. In altre azioni ho lavorato sui miti agresti, dal sacrificio del maiale dentro i solchi di Demetra al contagio di malattie veneree attraverso il fallo agreste. Questa (sullo schermo appare una pannocchia) è De senectute, pannocchie riscoperte in un cassetto dopo vent’anni, metà tarlate, che ho poi piantate nella terra: pannocchie vecchie che hanno generato nuove pannocchie. La vecchiaia rispetta il seme, mentre colpisce tutto il resto. Il mio primo film, Il grado zero del paesaggio, è del 1963; pochi giorni fa ho fatto un video per una mostra a Bruxelles che si chiama Le lieu: alla Fondazione, ho ripreso con la telecamera l’aratura di un pezzo di terra zoommando l’interno dei solchi, per fare un discorso sulla zolla…
   A me interessa molto approfondire con te l’uso di concetti come capitale e valore, valore di scambio e valore d’uso, a proposito di arte. Inoltre, possiamo parlare anche del tabù del denaro? Oltre al cliché cattolico che lo vuole sterco del diavolo – una delle più astute leggende messe in giro dai ricchi per dissuadere i poveri dal diventare come loro.
   È un’interpretazione che sottoscrivo. Vengo da una famiglia col culto degli industriali: mio padre era un uomo onesto della Confindustria, poi precipitato nel nulla insieme al fascismo. Dovevo assolutamente laurearmi, non fare lo stupido o l’artista, ho fatto diciotto esami e la laurea in un anno, tesi sugli Accordi monetari di Bretton Woods! Il denaro mi dà un enorme fastidio, ma bisogna avercelo, altrimenti sei perduto.
   Per Marx il denaro era agente di emancipazione, liberazione...
   Se ne deve parlare, infatti. Ma gli approcci sono talmente lontani, lui partiva dalla fine invece di partire dall’inizio. Tu sei qui con le mani e fai un lavoro: questo lavoro è denaro e questo denaro ti viene riconosciuto, a differenza del discorso della ricchezza fine a se stessa lontano da un’etica sociale. Ho fatto un film di recente, Sette minuti, due euro, riprendendo dalla mia finestra due muratori rumeni che facevano un lavoro (in nero) tutto a base di muscoli e pala senza alcun apporto meccanico o tecnico. Lì davvero vedi il valore, centesimo per centesimo, minuto per minuto del loro lavoro.
   Quanto alla sollecitazione precedente, termini un po’ fuori corso come “valore d’uso e valore di scambio” mi sono sempre sembrati adatti a spiegare cosa cercavo di fare nel mio lavoro di artista al tempo della operazione “Agricola Cornelia” (1973). I prodotti della terra e della zootecnia hanno un valore (dunque un prezzo, una utilità) legato allo scambio, ma anche un immediato e diretto valore d’uso per essere elementi dell’alimentazione, e dunque della sopravvivenza fisica dei produttori stessi. I prodotti, chiamiamoli così, dell’arte, tentando una strumentale semplificazione, a seconda della loro natura, hanno anche loro, un cospicuo o misero prezzo, insomma, un riconoscimento economico da quello che si definisce il mercato. Ma in questo caso il valore d’uso è secondo me la capacità e la necessità di percorrere in solitudine lo spazio che precede la produzione del fare arte, cioè far vivere e funzionare il proprio “talento-mente” - pensare, percepire, immaginare ed esprimere. Il prodotto finale di per sé non esisterebbe senza questo presupposto, e l’artista non sarebbe tale se non traesse questo “valore d’uso” non già dal mercato, ma dal fatto di essere capace e partecipe della ” soddisfazione dell’essere” connessa col proprio lavoro.

E questa mano che trattiene una specie di grosso orologio?
   Non è un orologio, è un contasecondi, tratto dal film Rétard, un termine duchampiano usato in altro modo. La parola rétard l’ho applicata al concetto di tempo che è uno dei temi base del mio lavoro. Esiste la possibilità di controllare il tempo e visivamente un oggetto qualsiasi – un albero, un cespuglio, un prato: prima guardi, poi scatti due secondi, e vedi di nuovo il prato, ad esempio, identico a prima, però sono passati due secondi. Quei due secondi hanno cambiato la struttura della materia, hanno cambiato te stesso, hanno cambiato tutto. Ho chiamato queste visioni rétard, parola inventata da Duchamp, mio amico-padre affettuoso che ha inciso la mia vita in maniera travolgente. Non è una sospensione, è un prolungamento fra due sguardi.
   Hai raccontato spesso di avere iniziato con la poesia, la fascinazione della parola. Poi sei passato all’immagine, «l’immagine senza patria, senza grammatica e sintassi, immagine senza confini o prelevata dal sogno», «strumento liberatorio e ambiguo» che segna una libertà dalla logica e dal senso. Pensi lo si possa ancora dire?
   Come no, l’immagine è orfana: Joyce, Pound, Céline. Le loro parole sono in qualche modo un sentiero, una specie di percorso del passato, che io rivedo in forma di immagine perché non le vedo più come parole.
   È ancora possibile un’immagine orfana?
   Oggi hanno troppi genitori. Io ho lavorato molto sul sogno, ho dieci volumi di sogni descritti e disegnati e su quei gruppi di immagini tratte da sogni non ho più voglia di tornare. Ho fatto un sogno l’altra notte, parlavo con sei persone e di ognuna vedevo la faccia molto precisa; poi mi sono svegliato e mi sono chiesto come sia possibile che veda una facce così precise e diverse di qualcuno che non so chi sia. Molti personaggi hanno una faccia così, un’immagine che non sai da dove viene.
   Jean-François Lyotard parlava della «libertà degli orfani», e spiegava che il Sublime è l’irrappresentabile, categoria che descrive per lui l’arte contemporanea.
   Lui ha detto anche che è un sentimento potente.
   Anche Kant.
  Sì, quando sono andato a trovare Lyotard a Fillerval, in una campagna vicino Parigi stava leggendo Kant: aveva davanti un unico libro aperto su uno spesso tavolo di vetro trasparente nel gelo di una soffitta; c’erano soltanto lui, il libro e il freddo. Era il suo modo di leggere Kant.
   Il sentimento del Sublime potrebbe descrivere il tuo lavoro? Nel senso appunto dell’irrappresentabile, come l’arte concettuale, o come l’infinito?
   Sì, ma come fine. Però non è facile dire «faccio una cosa pensando al Sublime». L’infinito mi funziona benissimo, nel senso del «naufragar m’è dolce», anzi se non naufrago, sto male.
   Pensando al tuo biografico «zigzagare», mi appari a volte come un Bouvard-Pécuchet (i miei eroi epistemologici) condannato a riuscire, a non fallire. Anche questa è un’epica dell’elenco.
   Bada però che negli gli elenchi ho sempre messo una ragione – diciamo – di nonsense: sono un sacerdote rigoroso del nonsense, o mi diverte molto far finta di esserlo. Ho scritto un libro (inedito, non so se lo pubblicherò mai), I consigli del tricheco, un personaggio di Lewis Carroll che dice: «È venuto il tempo di parlare di molte cose, di navi e scarpe, di ceralacca, di cavoli e di re». Il fiabesco è un modo di elencare, non importa che cosa, con la scusa della fiaba; la poesia è il modo di mettere insieme «ships and shoes», irresponsabilmente. Se non è irresponsabile non è poesia; se c’è troppo senso non funziona.
   Come in letteratura: non è la storia che conta, ma il narrare, non il soggetto, né comunicare qualcosa, ma il tono.
   Non è né il soggetto né ciò che l’utente capisce. Certo, se capisce sono contento, ma non sono legato all’idea del comunicare qualcosa. Un giovane artista faceva un bollettino che si chiamava Comunicare fa male. Non arrivo a questo, bisogna anche comunicare, ma che cosa? Nella comunicazione oggi c’è l’intersezione del potere, che impone un uso distorto della parola: popolo, libertà, futuro, ecc. È stato fatto uno stupro nell’uso della parola sui giornali.
   L’universo delle parole e della comunicazione è oggi ridotto a slogan o comando, parole vacue e senza referente (anche la «sinistra» sembra a traino di questa retorica).
   Ho amato Ingrao, una delle poche teste politiche che si salvano della mia generazione. C’è anche Napolitano, che sa cosa dire, un uomo che non per nulla amava il cinema. Ora, dove sta la mente della sinistra, dove sono gli Sciascia?
   Nel tuo zig-zag enciclopedico mi colpisce che la tua biografia sia puntuata e scandita da un confronto con Paul Klee, un ciclico ritorno a Klee. Che cos’è Klee per te?
   Klee è il centro del vortice: io ho lavorato molto sul concetto di «piega», che come sai non è di Klee ma di Leibniz. Poi naturalmente Gilles Deleuze ha lavorato su questo. Ora nel concetto di piega, nell’arte, sopravviene quest’altra piega: è questa la storia dell’arte, piega di piega di piega. La piega cos’è? Klee parla del punto cosmogonico e tutto parte da questo punto – Klee è un gigante di fronte a Kandinskij, è una mia idea, anche se Kandinskij rimane un grandissimo pittore perché fa delle immagini travolgenti. Alla Klee Stiftung di Zurigo vidi un disegno, alcune ruote e linee intersecate con una data, 1939, in piena guerra, a matita su fondo bianco: il titolo era Presto cammineremo di nuovo. Quest’opera di Klee secondo me vale tutti i collage, le pennellate, i colori possibili: un titolo, una parola premonitrice, che designa uno schema, bianco e nero, la fine dei campi di sterminio e il ritorno alla vita. Ecco perché Klee è così importante. Non è un discorso della forma. Della storia, forse. Klee è un angelo, quest’angelo brilla come certi personaggi mancati, lui invece ha vissuto anche se poi si è ammalato e non ci stava più con la testa.
   Penso alla tua definizione dell’arte come opposizione, come pharmakon: è ancora possibile?
   Certo, è possibile: quando il mondo aspira ad altre cose che non la saggezza l’arte può essere il pharmakon. È importante provare a vivere come se si fosse artisti: è il discorso dei Consigli del tricheco, il «vivi come se» è importantissimo. L’esperienza non è mai triste, è sempre un arricchimento e può essere una sorta di opera d’arte, non nel senso di qualcosa di estetico, ma di raccontabile. L’esperienza è come il coito, si vive il piacere e successivamente non si è affatto tristi, ci si sente più ricchi.
   Il tuo lavoro eccede i generi, e insegna che si può usare, fecondare qualunque materiale: un metodo che è anche un’etica…
   Il mio genere è lo spreco, e lo spreco è tutta la mia vita. Nel film Ars memoriae ricompongo la mia vita e le persone che ho incontrato, frugo nel mio passato. Ho fatto un archivio di sessantadue schede in cui ci sono personaggi ed esperienze con cui ho creato il film, suddiviso in quattro parti. In una ci sono io che spiego post factum l’operazione. Alla fine, ho optato per l’oblio e mi sono ripreso mentre, una ad una, bruciavo le schede dell’intero archivio. Ricordare è infatti un dramma perché riporta in vita i fallimenti e gli errori commessi. Ancora oggi io continuo a sprecare la mia vita senza però farne un dramma.
   Recentemente sei tornato al tema della terra, svolta ecologico-economica, ma anche riepilogo di tutte la tua opera. Cosa è la terra, e cosa «il luogo»?
   Le tappe del mio tragitto sono l’oggetto, la natura, la materia. La terra come radice di un luogo, l’essere, e poi la materia. Ave, materia!, diceva Teilhard de Chardin, ora dimenticato. Ho fatto quattro disegni sulla zolla, sezioni di terreno, sezioni del bosco, l’aratura, avevo anche pensato di portare una zolla alla mostra di Bruxelles. Queste operazioni e questi disegni rispecchiano il mio modo di pensare. Mentre facevo il film per Bruxelles (da Greta Meert), Le lieu, ho girato parecchie inquadrature al cimitero di Prima Porta. Sono andato a guardare le sepolture dei senza tomba: quella terra serve a squagliare i corpi sepolti. Ci sono mucchi di terra già usata pervasi di morte, spinti in un angolo speciale del cimitero dai bulldozer. Questa parte, tra il retorico e il funebre (una retorica del funebre) nel film non c’è, non l’ho montata. L’idea è che comunque la terra non muore mai, anche se è pervasa di morte; accetta il seme e lo fa nascere.
   «Il luogo» è tappa di una mia riflessione sull’essere e sul sublime nel senso che gli Lyotard (lettore di Kant): “ni universalité morale ni universalitation esthétique, mais plutôt la destruction de l’une par l’autre dans la violence de leur différend, qui est le sentiment sublime”. Mi approprio di immagini filosofiche, le concateno e le uso per cercare come sempre di fare apparire con le immagini l’inesistente ma possibile: «Le lieu et la formule», diceva Rimbaud. L’arte è strumento per un tentativo di capire il mio rapporto personale con l’essere, e il fine ultimo è l’étonnement d’e^tre, anzi una satisfaction d’e^tre, come dicevamo all’inizio, il piacere. Parametro che in me sostituisce il «successo».
   C’è qualcosa che vuoi aggiungere alla fine (provvisoria) di questo dialogo?
   Nel momento in cui le immagini del mio lavoro appaiono in molte delle pagine di questo “Alfabeta 2”, vorrei dire che questa presenza io la vivo come contributo personale al dibattito che questo numero propone nelle diverse articolazioni culturali e politiche. Anche se da un artista visivo non ci aspettano parole, queste immagini sono da “leggere” come testi che negli anni hanno espresso posizioni e interventi coerenti con la mia idea che l’arte può essere uno strumento per capire, commentare e, anche, resistere.

(la conversazione appare nel n. 4 di Alfabeta 2, in edicola e in libreria dal 16 novembre. L'intero numero della rivista è illustrato da immagini del lavoro di Gianfranco Baruchello)

11/14/2010

Le macerie e "La Ginestra" - L'Aquila e Pompei

   Durante la recente contestazione dei comitati cittadini a Berlusconi, a L’Aquila per la cerimonia di consegna di onorificenze alla protezione civile, è stato issato questo striscione: Macerie di democrazia – 20 novembre, L’Aquila chiama Italia. E’ lo slogan della manifestazione nazionale che svolgerà sabato prossimo. Io ci andrò, ma rovesciando dentro di me lo slogan: è l’Italia (cioè tutti noi) a chiamare L’Aquila, dove la ricostruzione dopo la tragedia non è mai iniziata, non c’è nessuna prospettiva per il futuro, e dove con più drammatica consapevolezza ci si sta da tempo ribellando alla crisi culturale, politica, economica, politica e istituzionale in cui è precipitata l’Italia. E’ il luogo che più esemplifica la bruciante attualità dell’essere fantasmi – senza diritti, senza casa, sans papier, clandestini - dove abitare è un’avventura, la cittadinanza un’utopia, e dove resta nitidamente da immaginare, progettare e rifondare la vita individuale e la politica. L’Aquila è laboratorio e sintesi (“macerie di democrazia”) dell’immane processo di ricostruzione dopo la deflagrazione atomica prodotta da anni di governo della destra più cinica, quella pubblicitaria.
   L’ho detto ieri per un film collettivo di testimonianze che sarà presentato il 20 a L’Aquila, ma ho dimenticato questo: l’invito a rileggere La Ginestra di Giacomo Leopardi. E’ una poesia magnifica, ma anche un’invettiva (“secol superbo e sciocco”) contro la presunzione tecnico-economica; è una meditazione sulla natura, ma anche una perorazione politica alla solidarietà, alla “social catena”. La scrisse, è noto, alle pendici del Vesuvio, nel cui parco nazionale si è pensato oggi di interrare rifiuti tossici. La scrisse dopo la scoperta archeologica - vera epifania – di Pompei e Ercolano, che si è riusciti oggi, per indifferenza e incuria, a fare ulteriormente crollare.

(rubrica "acchiappafantasmi", domenica 14 nov. 2010)

P.S. Il trailer del film che sarà proiettato sabato 20 a L'Aquila : http://www.youtube.com/watch?v=jaZAmZs0BMI

11/07/2010

Conflitto di civiltà

   Vorrei, se ne avessi lo spazio, scrivere un elogio del conflitto. Non della violenza, ma della differenza, legittima e irriducibile, di visioni del mondo. Il conflitto è comunicazione, oltre che l’essenza della politica. Solo dove la politica (e con essa la libertà d’espressione) è tabù, anche il conflitto è tabù.

   Ora, mentre la miseria pubblica e privata di chi ha guidato l’Italia per quasi 15 anni - sottraendoci orizzonti di pensiero e di immaginazione senz’altro più fecondi – è giunta al suo massimo grado di visibilità (non di conoscenza), mi sembra di sentire le fanfare di coloro che, negando l’evidenza, si dichiareranno antiberlusconiani (alcuni già lo fanno). Ma imperdonabile non è tanto il capo del governo (che recita benissimo se stesso), quanto chi lo ha ripetutamente eletto (“elezione”: pensate all’importanza di questa parola), chi ha riso e ancora ride consenziente quando lui parla, o batte le mani.
   Provo ormai insofferenza per tutte le descrizioni che si fanno delle sue stranote malefatte morali e politiche: è su come giudicarle che da anni si svolge in Italia l’unico vero “conflitto di civiltà” che conosco, che nessuna togliattiana e ideale “amnistia” potrà cancellare. Perfino la satira sul primo ministro in carica normalizza e banalizza il genocidio di civiltà che ha compiuto - la distruzione della cultura, del tessuto sociale, dell’educazione. Ecco perché l’elogio del conflitto.
   E mentre per caso mi imbatto nelle parole di un noto esponente religioso (“quelli che vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”) mi accorgo che il 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti, laica o religiosa che sia (una volta si diceva valori condivisi), nessun giornale ne ha fatto cenno, troppo occupati a parlare delle puttane del re.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 7 novembre 2010)

11/04/2010

"An ecology of mind" - incontro con Nora Bateson


   Organizzato dal Circolo Bateson e da Legambiente, si svolgerà a Roma il 6 novembre Roma, nell'Aula Magna del Rettorato dell'università Roma Tre, in via Ostiense, il convegno dal titolo "Per una ecologia della mente", incentrato e prerceduto dalla proiezione del film-documentario An Ecology of Mind che Nora Bateson, figlia di Gregory Bateson, ha ideato e prodotto sul pensiero del padre. Il documentario verrà proiettato in anteprima europea e sarà presentato dall’autrice. Tra i partecipanti al convegno, Rosa Conserva, Giuseppe O. Longo, Giovanni Madonna, Sergio Manghi, Laura Formenti, Marcello Cini e tanti altri.

   Ho visto in anteprima il film, e mi sono commosso. Ho passato poi una giornata bellissima con Nora Bateson, cui si sono aggiunte, per una serie di incredibili coincidenze, o convergenze, altri amici, altre persone (che mi invitavano a pranzo nello stesso posto e alla stessa ora in cui avevo invitato a pranzo Nora). Il groviglio intellettuale-affettivo che ho messo su a tavola, con (tra gli altri) un amico sciamano e un famoso regista italiano altrettanto amico, come una famiglia composita e variegata, è degno della sceneggiatura di un film americano. Grazie a Nora, omaggio a lei, e a Gregory, maestro della connessione? Forse sì. Comunque sia, oggi su l'Unità compare questo pezzo che ho scritto ieri prima di sera - in fretta, purtroppo. Dentro di me lo intitolerei così: "La mente (come l'universo) è un'opera jazz".


   In una spiaggia pietrosa di Big Sur, California, una bambina bionda e un uomo anziano sorridente delicatamente raccolgono conchiglie, granchi, stelle marine. E’ un gioco e una lezione. Dice l’uomo: “Ora voglio fare un grande salto, farti cioè questa domanda: come pensi?” “Con il cervello, dentro la testa”. “Questo può essere la parte che lo fa, ma non il ‘come’...” Potrebbe essere l’inizio di uno dei meravigliosi "metaloghi" di Verso un’ecologia della mente, e di fatto quell’uomo è Gregory Bateson, uno dei grandi maestri del XX secolo, il cui pensiero è più attuale che mai. La bambina è la sua ultima figlia Nora, avuta con Lois Cannack quando lui aveva 64 anni. Quello che sto guardando è il film di Nora sul padre, An Ecology of Mind, “un film su come pensava Gregory Bateson”. Vi si alternano frammenti di memorabili lezioni, interviste, momenti privati e testimonianze su Bateson di vari pensatori e scienziati, tra cui Fritjof Capra e Mary-Catherine Bateson (l’altra figlia nata dal matrimonio con Margaret Mead). Per tornare alla domanda sul pensare – questione ecologica per eccellenza - di fatto “la mente è molto più ampia del solo cervello. E’ la radice dell’albero che cresce attorno a una roccia o il modo di giocare delle lontre”, dice Nora parafrasando il padre, è il granchio e la stella marina e la nostra mano e il nostro sguardo, perché anche un animale deve essere pensato come un groviglio di idee che convivono in lui, diceva Gregory. E’ un esempio di “principio evolutivo, perché l’evoluzione riguarda le idee, non solo gli animali, e “le unità evolutive sono essenzialmente idee, l’anatomia è un corpo di idee”, ciò che fa sì che, per esempio, “il cavallo e la tundra sono interconnessi, l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba”. “Talvolta, per scopi di studio – dice sorridendo Bateson nel film - devi lavorare su relazioni piccole, e allora le gente ti rimprovera perché lavori sulle piccole. Quindi lavori sulle grandi, e allora la gente ti rimprovera perché sei un mistico. E’ sempre la stessa storia (...) Ma i maggiori problemi nel mondo sono il risultato della differenza tra come funziona la natura e come pensa la gente”.

   Biologo, filosofo, antropologo, cibernetico, fondatore del pensiero sistemico, ispiratore della psichiatria (la famosa teoria del double bind, “doppio vincolo”, è chiave per comprendere la schizofrenia), in realtà per Bateson non esiste separazione tra le discipline, né tra scienza e poesia. “Imparava sempre - racconta Nora – da qualunque cosa, un cane, un acquario di pesci, dagli scienziati che venivano a trovarlo, dalla poesia e dall’arte. Da lui ho imparato che l’apprendimento non cessa mai”. “Da bambina mi sedevo per terra e disegnavo, ascoltandolo mentre teneva delle lezioni. Già allora mi sembrava che sbirciasse da una porticina gli ingranaggi più intimi della vita. Ho studiato cinema e non antropologia, per allontanarmi, ma l’idea di fare questo film ce l’ho forse da sempre, ma soprattutto da quando ho aiutato mia sorella nel reperire materiali (video delle sue lezioni) per il convegno del 2004”. La domanda ovvia è come sia stato averlo avuto come padre e maestro. “Tutto quello che mi ha insegnato, come era suo stile, era in forme di storie. Non mi trasmetteva conoscenze, ma percezioni, un modo di guardare le cose e il mondo. Fu molto intenso, sapeva che non avremmo condiviso molto tempo. Gli piaceva molto parlare coi bambini, perché non sono limitati e corrotti da quella che chiamava l’istruzione distruttiva. Anche questo film in fondo è un metalogo, una storia su cosa significhi ‘comprendere’”.
   Il film riassume da diverse angolature, come variazioni di un’opera jazz, una biografia intellettuale di per sé inesauribile, lo studio ininterrotto e interminabile di ciò che Bateson chiamò ”la struttura che connette” - l’interdipendenza di tutto con tutto, la vita, la natura, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco, il sacro e i metodi dell’Anonima Alcolisti. La domanda che Bateson si pone è: “quale struttura collega il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula, e tutte e quattro con me, e me con voi?” Tutto questo va inoltre connesso col “contesto”, cornice più ampia di ogni singola idea e realtà. “Senza contesto, aggiunge Nora, parole e fatti non hanno alcun significato. E questo è vero per tutta la comunicazione – anche quella che dice all’anemone di mare come crescere e all’ameba cosa deve fare il momento successivo”.
   Nora è sposata col batterista jazz Dan Brubeck, figlio del famoso Dave Brubeck. Le chiedo se il pensiero di Gregory Bateson, e in fondo la natura stessa, non abbiano somiglianze strutturali col jazz, con le sue variazioni e ripetizioni. Nora sorride: sta in effetti preparando con Dan una serie di concerti-seminari per esporre la relazione tra doppio vincolo e improvvisazione. Il jazz è un’ottima metafora del pensiero di Bateson, conferma, perché è un processo creativo, un apprendimento dell’apprendimento, e proprio come in un corpo, ogni organo o strumento compensa l’altro, in costante relazione e comunicazione.
   Siamo sempre in relazione con qualcos’altro, ci insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero. Gli esseri umani si comportano in modi distruttivi per i sistemi ecologici naturali, osservava, senza riuscire a vedere le delicate interdipendenze di un sistema ecologico che gli conferiscono integrità. C’è una attualità politica immensa e scottante nel pensiero educativo di Bateson. E mentre vedevo scorrere nel film i suoi insegnamenti – con quello stile magistrale ricco di metafore, storie, paradossi, poesie, humour, un linguaggio costituito di ciò di cui parla, ovvero una visione olistica ed ecologica della “realtà” – non potevo non pensare con impazienza, confesso a Nora, quanto sarebbe diverso il mondo se i politici (quelli di sinistra: quelli di destra fanno benissimo il loro mestiere) leggessero e rileggessero il pensiero esemplare di suo padre. “Sì, dice Nora, viviamo in un terribile e immenso doppio vincolo, per spezzare il quale occorre la fantasia e il coraggio di un atto creativo”. Ma c’è una buona notizia, mi dice Nora, proprio oggi. Nonostante la sconfitta, in California è stato eletto governatore il democratico Jerry Brown, che nel film di Nora fa un esempio di “doppio vincolo” molto attuale: “L’ineguaglianza cresce e la risposta dei governi è far crescere l’economia ancora più rapidamente, ma così facendo aggraviamo la disuguaglianza e abbiamo un tremendo impatto sul clima e sull’ambiente. Abbiamo bisogno di un salto di qualità, di una visione e di una immaginazione straordinarie, dato che frenare l’economia crea disoccupazione e sofferenza...” (per la cronaca, Jerry Brown fu allievo di Gregory Bateson).

(uscito su l'Unità, 4/11/2010)

10/31/2010

La scuola è finita (ma non c'è via d'uscita)

   Un senso crescente di fallimento, anzi di disperazione. A ogni barlume di buona notizia o temporanea quiete, la paura quasi fisica che tutto precipiti nello schianto finale. Non c’è redenzione. Chi dovrebbe salvare dalle sabbie mobili sta egli stesso sprofondando, e mostra il peggio di sé. Tutt’intorno squallore, rinuncia. Peggio: abitudine. Tranne quel cieco, burocratico andare avanti esercitando il potere piccolo e gratuitamente oppressivo dei carcerieri indistinguibili dai carcerati. Nessuno crede a ciò che fa, e si inacidisce a imporlo. Se l’Inutile fosse una divinità, sarebbe la religione ufficiale. Nessun colpevole o responsabile del mefitico ristagno, ma concorso di tutti, come in certi gialli di Agatha Christie; ma qui non riguarda una stanza chiusa, chiusa e strozzata è la vita stessa, ogni orizzonte. La vita di chi deve ancora imparare a viverla, la cui ribellione e rifiuto a oltranza è in realtà un disperato alzare la posta in cerca di un’autorità da riconoscere. Sto parlando degli effetti del genocidio culturale, napalm versato sulla vita, di fronte a cui ogni protesta sul red carpet di un festival di cinema è folklore di lusso. Sto parlando della scuola, quella vera, in macerie, che nessuna fiction tv ha mai mostrato, coi buchi nei muri delle aule. Studenti che abitano case prive di libri, insegnanti che ai libri non credono più: noia contro noia. Nell’anestesia e insensatezza generale, il raro sogno di una liberazione, di un’estetica, ha la forma della musica che libera il corpo, o di una pasticca colorata. Sto parlando del film La scuola è finita del regista e insegnante Valerio Jalongo, ambientato nell’Istituto “Pestalozzi” di Roma, come il grande pedagogo (oggi fantascienza). E tanto peggio se la bella crudezza della prima parte del film venga anch’essa alla fine inghiottita dal vortice sentimentale di una fiction tv. Valga come autodenuncia della colonizzazione della nostra anima, della strozzatura dei nostri sogni.

10/27/2010

Torna "Pesca alla trota in America" di Richard Brautigan

di: Rock Reynolds & Beppe Sebaste    

   Qualcuno ha pensato che tutte le speculazioni fatte in vita (e soprattutto in morte) sulla personalità di Richard Brautigan non si avvicinassero neppure lontanamente all’intima verità, e ha pensato di costruire un archivio online che rendesse giustizia allo scrittore e, soprattutto, all'uomo (http://www.brautigan.net). Le foto che lo ritraggono nelle varie fasi della sua vita ce lo tramandando nei panni di uno studentello, di un bohémien scherzoso, di una specie di intellettuale da Far West, di un uomo dall'animo tormentato. C'è un’immagine splendida che ha fatto il giro del mondo ed è così che ci piace ricordarlo: con gli immancabili baffoni, l’eleganza di un dandy di frontiera, il cappellaccio e una vecchia macchina da scrivere.

   Nato nel 1935 a Tacoma sulle coste settentrionali del Pacifico statunitense - l’ambiente impervio e selvaggio che trasmise energia primordiale ad altre personalità travagliate come quelle di David Lynch, Jimi Hendrix e Kurt Cobain, per citarne solo alcuni - Richard Brautigan incarnò appieno il travaglio del classico “white trash”, la frangia più diseredata della società americana bianca, quella costretta (ma siamo sicuri che si tratti di una forzatura?) a vivere tra roulotte e rimorchi. Non ebbe una vera famiglia, non menzionò quasi mai parenti nelle rare interviste concesse, ed entrò a 19 anni in un ospedale psichiatrico, ironicamente lo stesso in cui anni dopo Milos Forman avrebbe girato Qualcuno volò sul nido del cuculo, dal romanzo di Ken Kasey. Quando uscì, tre mesi dopo partì per San Francisco, dove conobbe Ferlinghetti e gli altri poeti beat, ma legandosi in amicizia soprattutto col grande poeta Jack Spicer, forse colui che gli assomigliava di più, e a cui Pesca alla trota in America è dedicato.
   Ecco il ritratto esclusivo che di Brautigan ci dà Peter Beagle, un altro grande interprete misconosciuto del sogno a stelle e strisce, un sogno di vite errabonde, di motel da quattro soldi, compagnie occasionali, armonie cosmiche e cadenza blues, quello narrato in Una lunga strada da fare: “Era un uomo strano, triste, dall’infanzia terribile, segnata da povertà e fame, una madre che passava da un uomo all’altro, un padre biologico conosciuto poco prima di morire, una vita sentimentale travagliata, pochi anni di popolarità per essersi trovato nel posto giusto quando il suo stile era quello giusto, prima di finire nuovamente in un anonimato sancito ancor più dalle circostanze della sua morte: il rinvenimento del suo cadavere parecchio tempo dopo il suicidio. Pesca alla trota in America è la sua opera migliore. C’è un gruppo rock che porta quel titolo e conosco almeno due persone che sono state chiamate in quel modo. Non sono un fan delle sue poesie, così come non vado pazzo per quelle di Raymond Carver – malgrado lo adori – ma quando era sobrio e in giornata (Brautigan è stato alcolista quasi tutta la vita), sapeva scrivere ai massimi livelli. C’è un aneddoto su Richard – o meglio sulla sua assenza – che mi va di raccontare. Sul finire degli anni ‘60, quando lui era ai massimi della fama, venni invitato a tenere un seminario di scrittura a Boulder, Colorado, insieme a Brautigan, la star dell’evento. Non feci in tempo ad assistere alla sua lettura, ma l0’indomani lui, io e un poeta che si chiamava Charles Wright saremmo dovuti apparire insieme a una tavola rotonda, però Richard non si presentò: prese i soldi e si eclissò. Il posto era zeppo di persone intervenute solo per lui e il rischio era di venire massacrati, ma mi venne un'idea geniale... Mi misi d’accordo con Wright. Salimmo sul palco e dicemmo al pubblico che era venuto il momento di svelare la verità: non esisteva nessun Richard Brautigan e noi due ci eravamo inventati la sua personalità artistica per scrivere sotto falso nome, creando un mito. Risero tutti e io e Charles ci rivolgemmo l'uno all'altro con il nome di Richard. Mi domando se il vero Richard lo sia mai venuto a sapere...”
   Brautigan ottenne la consacrazione e il successo con la pubblicazione di Pesca alla trota in America (1967), che da domani torna in libreria nella traduzione di Riccardo Duranti. E’ un libro jazz fatto di variazioni sul tema, associazioni di idee, memorie, aneddoti e storie che incantano e producono nel lettore uno stato di beatitudine. Non parla di canne da pesca, né di mulinelli, né di trote, ma di amori e di solitudine, di bar e di strade, e di alcool, e soprattutto dell’America. La sua America, come disse il suo amico e collega Jim Harrison, era quella del centro degli Stati Uniti, quella cioè che si rischia di non vedere mai, di sorvolarla, presi come si è dalla smania di passare da una parte all’altra del paese. Il modo di raccontare di Brautigan come sempre rompe e deborda le cornici del racconto. Maestro riconosciuto delle short stories, ha attraversato la letteratura americana come una meteora, sperimentando forme letterarie libere e nomadi, irriducibili ai canoni e ai generi. Un’opera forse paragonabile, in Europa, a quella di Georges Perec, ma liberata dal peso della Storia e della cultura.
   Che gli amanti di Brautigan siano una grande famiglia lo si prova riconoscendosi quasi a pelle, come quando al festival blues di Piacenza ci ritrovammo sullo stesso palco noi, Ronald Everett Capps e suo figlio Grayson, Joe Cottonwood e altri. Ci si commuove e si ride delle sue pagine che dicono la vita così com’è, delle sue frasi così sorprendentemente ricche di inventiva e poesia, delle sue trame narrative bislacche e sfilacciate, delle sue divagazioni, gag strampalate, battute di spirito fulminanti, risate, sogni, attese. In Brautigan la vita è stramba e dolorosa, e fa decisamente ridere anche quando sembra spezzarci il cuore.

(su l'Unità di giovedì 28 ottobre 2010)

10/24/2010

"Poi"

  
Se col termine stakeholder si intendono i soggetti “portatori di interessi” nei confronti di un’impresa economica (clienti, fornitori, finanziatori, collaboratori ecc.), Roberto Saviano nell’ultimo capitolo di Gomorra forniva un quadro differente: gli stakeholder, laurea in economia e master all’estero, sono i mediatori tra la camorra e le aziende, “geni criminali dell’imprenditoria dello smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi, figure d’impresa coinvolte nel progetto economico e che con la loro attività sono direttamente o indirettamente in grado di influenzarne gli esiti”. Mi turba descrivere con termini tecnocratici un crimine contro l’umanità come la trasformazione della Campania felix, la terra più feconda del pianeta, in una discarica che irradia veleni e tumori, ma lo stesso Saviano spiega che per il camorrista la vita è cosa di breve durata, importa solo il presente, al massimo un futuro prossimo. Non c’è un futuro, non c’è un poi. Ora, è la stessa mentalità del tipo antropologico creato del berlusconismo, con la sostituzione ad esempio dell’idea di comunità in quella di immunità, la pretesa di non morire (mai), l’annullamento del passato e del futuro nel perpetuo presente sul modello della tv. Il fascismo mediatico, impropriamente detto soft, è esso stesso un crimine contro l’umanità dell’uomo.
   Io mi occupo di estetica, e sono a Bari per parlare di una mostra, tra le più belle e commoventi che abbia mai visto, del fotografo Gianni Leone, già amico e sodale di Luigi Ghirri. Si chiama “Poi”, avverbio e deittico (dopo, in seguito) ma anche sostantivo (il poi). La mostra (catalogo Diabasis) racconta un viaggio intensivo tra gli oggetti di una casa, esplora uno spazio chiuso dilatando con esso il tempo, ci insegna l’infinità dei mondi racchiusi in una vita, e che non esiste “io” senza “l’altro”, né senza un “poi”. Vi prego, fatela girare.

(rubrica "acchiappafantasmi" di oggi, su l'Unità)

10/23/2010

"Naufragio con spettatore" - La nuova mostra di Claudio Parmiggiani

Siamo verso le cinque del pomeriggio davanti alla chiesa sconsacrata di San Marcellino, all’angolo di un vicolo del centro storico di Parma. La bellissima facciata sembra un libro, un volume rinascimentale, dico. “Sembra un trattato di Leon Battista Alberti”, dice Claudio Parmiggiani. Entriamo dalla piccola porta e ci troviamo in una silenziosa penombra: un fascio di luce in alto a sinistra illumina l’abside da cui, al posto dell’altare e della cattedra, punta verso di noi un vascello sorretto e come trattenuto da libri. Un gozzo maestoso di 12 metri, costruito da un maestro d’ascia ligure dell’inizio del secolo scorso, arenato, su e tra centomila volumi che formano un blocco compatto e invalicabile. L’impressione è fortissima, e mentre scrivo mi viene in mente l’uccello marino di Baudelaire, quel “re dell’azzurro” imprigionato da marinai sulla tolda di una nave, goffo e inadeguato ora che la sua eleganza e potenza è resa invisibile dall’esilio e la cattività. Non è forse questa l’immagine inaugurale dell’arte contemporanea?

   Naufragio con spettatore (come il libro ormai classico del filosofo Hans Blumemberg) è il titolo della mostra di Claudio Parmiggiani che si inaugura oggi a Parma, ed è la prima volta, mi dice l’artista nel nostro sopralluogo qualche giorno fa, che fa una mostra così importante vicino al luogo in cui vive (una casa sulle colline di Parma). Con pudore mi dice che questo allestimento è stato una vera traversata. C’è tutta la sua opera, ma anche gli spazi museali, una successione di stanze al secondo piano del Palazzo del Governatore che ospitava una volta gli uffici comunali, sono stati restaurati seguendo le indicazioni dell’artista, non nuovo alla progettazione dei luoghi in cui espone.

Che la vita sia un viaggio nel “gran mare dell’esistenza” (Platone, Fedone), è tra le metafore più usate dall’antichità. La vita è incertezza, la sua rotta sempre esposta al naufragio, da Enea al Titanic. Il naufragio ha ispirato ai pittori una galleria colma di voluttà, da Turner a Friederich (di cui Parmiggiani mi ricorda il “naufragio della Speranza”, ovvero il “Mare di ghiaccio”), da Géricault a Delacroix; ha ispirato scrittori e poeti da Omero a Virgilio, dal Robinson Crusoè al Gordon Pym di Edgar Allan Poe, e oltre. Cosa sarebbe un viaggio senza la possibilità del naufragio, del non arrivare in porto: l’essenza della vita non è quando, per fortuna, non va secondo i nostri piani e ci sorprende? “Naufragio” ha almeno due sensi: quello di “affondamento di una nave in mare per eventi avversi, per incagliamento o altro”, e quello figurato di “evento rovinoso, sventura, fallimento”. Penso al “Fallire. Non importa. Provare di nuovo. Fallire meglio” di Samuel Beckett (ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better). E mi viene in mente che già in un altro scritto paragonavo la poetica e la qualità ascetica del silenzio a voce alta di Parmiggiani a quello di Beckett (http://beppesebaste.blogspot.com/2008/01/se-cerchi-la-civilt-chiedi-alla-polvere.html)
   Come quella di Beckett, l’essenzialità e la risonanza mentale dell’opera di Parmiggiani si compone di materiali nudi e umili - polvere, cenere, fuliggine, legno, ferro, gesso - a disegnare un paesaggio di rovine. Parafrasando il titolo di una sua opera, un teatro della civiltà e della sua sparizione. Le urne di cenere sul pavimento bianco, le forme di pane fuse in ferro, il cappello di panno albergato da lievi farfalle colorate, l’enorme àncora che trapassa le pareti e allude alla fine del viaggio (il naufragio), realizzano quegli ossimori che, simili a koan (il “rompicapo” Zen che modificare e allarga il concetto stesso di comprensione), hanno l’intensità di preghiere e rituali. Vale per le sue perturbanti “delocazioni”, di cui una, creata appositamente, resterà nelle sale espositive di Parma. E’ plasmando spesso fantasmi che sono tutt’uno con la materia che per Parmiggiani il luogo diventa l’opera, e da fisico diventa mentale, pulsando vita con “una voce, un cuore che batte dentro lo spessore dei muri”.

   Percorro dunque con lui le sale, assisto ai lievi aggiustamenti, nella luce declinante ma ancora diurna. Nasce in questo percorso l’idea che il museo dovrebbe silenziare ogni illuminazione artificiale e lasciare spazio alle ombre, solo luce naturale, a costo di chiudere in inverno alle 17 anziché alle 19. Dalle finestre che si affacciano sulla Piazza Garibaldi si insinua a volte il brusìo del popolo del sabato a sottolineare il silenzio delle opere, “rifiuto e reazione a quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore, del gratuito e della superficialità il principale obiettivo artistico”. Ha detto ancora Parmiggiani: “Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? Il problema dello spazio dell’opera significa non solo porsi il problema di un spazio formale, estetico ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”.
   Ripenso al vascello naufragato nella chiesa di san Marcellino: "naufragio con spettatore" è in fondo una definizione non solo della filosofia, ma dello stato dell’arte. Ispirandosi al Lucrezio del De rerum natura - “Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina / ma la distanza da una simile sorte” - Blumenberg scrisse che la modernità ha inizio con una scelta di campo: essere nomadi e avventurosi, a rischio del naufragio; restare a riva, spettatori stanziali dei naufragi altrui (come alla tv, tra una pubblicità e l’altra). Esiste però anche l’esperienza di essere insieme nàufraghi e spettatori di se stessi - poetica di cui sono forse precursori l’ode al sogno, “il naufragar m’è dolce in questo mare” di Leopardi, e il paradosso del superstite beato di Ungaretti (Allegria di naufragi, 1917): “E subito riprende / Il viaggio / Come / Dopo il naufragio / Un superstite / Lupo di mare”. E’ il mio augurio. Buon viaggio, Claudio.

(Articolo uscito col titolo "Nel gran mare della vita" (e qualche refuso) su l'Unità di oggi. La mostra di Parmiggiani si inaugura oggi, ore 10 del mattino, e sarà aperta fino alla fine di gennaio, e oltre).

10/20/2010

Sebaste ucciso in uno scontro a fuoco dalla polizia (una storia vera)

Che uso fare di questa storia? Sono certo che un uso lo farò di certo. Intanto questa storia è mia, dal momento che l'ho appena scritta qui...

CHARLOTTE, NC (WBTV) -
A man who was involved in a standoff with Charlotte-Mecklenburg Police was found dead inside his south Charlotte home early Friday morning.
The standoff happened at 115 Hollyday Court in south Charlotte at 11:13 p.m. as police were responding to a disturbance call.
Police were told [David Martin] Sebaste, 48, was outside his house cursing and honking his car horn. The caller told police Sebaste was also armed with a handgun.
When officers arrived at the scene, Sebaste allegedly pointed his gun at the officers and fired multiple shots, according to CMPD spokesperson Robert Fey.
"Fearing for his life, the officer immediately fired several rounds from his service pistol," Fey said. "The officer was not injured during the exchange of fire."
Sebaste ran into his home creating a standoff situation, forcing police to call in the S.W.A.T. team.
After several unsuccessful attempts to make contact with Sebaste, S.W.A.T. officers entered his home around 1:50 a.m. and found Sebaste dead.
The CMPD said Sebaste suffered a gunshot wound to his lower body. It is unclear if Sebaste was shot by the police officer or if he shot himself.
A neighbor told WBTV.com Sebaste had been harassing neighbors since early Thursday afternoon. The neighbor, who would only identify himself as "C.J." said Sebaste threatened to shoot him.
C.J. brushed off the threats initially until he said Sebaste became more aggressive.
"He pulled his car into the driveway, coming at the house, so I just called 911," C.J. said, "I was just scared for my family."
C.J. said he ducked for cover as the shots were being fired.
"I wasn't looking to see who shot first," he said.
The officer involved in the shooting, Patrick Howell, has been placed on administrative leave pending the outcome of the investigation which is standard procedure. Howell was hired by CMPD in January of 2008.
(Copyright 2010 WBTV. All rights reserved)

P.S. Altre dubbi e interrogativi sulla polizia che ha ucciso Sebaste: http://www.charlotteobserver.com/2010/10/18/1769746/police-shoot-15-year-old.html

10/17/2010

Silenzio "ad alta voce"

Mentre a Roma si svolgeva la forte, pacifica e sacrosanta manifestazione della Fiom, a Bologna la gente si radunava in vari luoghi e orari ad ascoltare scrittori che leggevano testi (di altri scrittori) per la decima edizione della rassegna “Ad alta voce”, quest’anno sul tema della memoria. Una cerimonia civile e comunitaria, lontana dalla passività del virtuale e della televisione, in cui ho ascoltato testi di Sebald, Gramsci, Bunuel, Arendt e tantissimi altri. C’ero anch’io, nel cortile-giardino antistante il Museo della memoria di Ustica. Con l’aiuto delle voci di due amici (Lisa Bentini e Carlo Lucarelli) ho letto semplicemente l’elenco dei nomi delle vittime del lavoro del 2010, che ammontano a circa 350. Il nome, l’età, e la litania agghiacciante delle cause delle morti bianche: soffocato in una cisterna, schiacciato da un muletto, travolto da una pala, soffocati dalle esalazioni del gas di un silos, caduto da un’impalcatura, schiacciato da una putrella, fracassati dagli ingranaggi di..., e così via, le parole si ripetono con poche tragiche varianti, mentre le voci si sovrapponevano. Ci siamo commossi: è quando si danno i nomi ai danni, cioè ai morti collaterali di una guerra, o peggio di una civiltà - una civiltà basata sul lavoro; è quando si liberano le storie dall’anonimato della Storia che ci accorgiamo dell’evidenza nascosta di ciò che diciamo “realtà”, con un effetto di svelamento che è quasi illuminazione. Ho fatto precedere il rosario dei nomi dalla lettura di una poesia, Zéinch minéut (“Cinque minuti”) del grande Raffaello Baldini, traducendo dal suo al mio dialetto. Dice la sua poesia che non si sente niente, se non state zitti, se non stiamo zitti tutti. Invita tutti a tacere: ecco, così. Però, dice alla fine, anche se stiamo tutti zitti “non si sente niente lo stesso, però / che roba, senti che roba a star zitti tutti”.

(rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di oggi)

10/10/2010

Vissero infelici perché costava meno

("acchiappafantasmi" di oggi)

C’è questa frase di Leo Longanesi (per anni pensavo fosse di Flaiano): “Vissero infelici perché costava meno”. Dopo il sorriso provoca un cortocircuito che lascia una specie di livido, ma cosa significa? La prima tentazione è associarla al valore d’uso (“chi più spende meno spende”) contro l’alienata rincorsa del consumismo. Poi ti accorgi che la bestemmia cui la frase allude sta nell’accostamento tra due parole tra loro incommensurabili, felicità ed economia. Ho buttato la frase tra i miei conoscenti, ed ecco alcune reazioni: “E’ il manifesto del popolo italiano”. “La felicità è faticosa”. “L’infelicità non costa poco, a volte costa addirittura la vita, ma richiede coraggio”. “Decidere di imparare a essere felici costa fatica, implica un’educazione al rispetto di sé e degli altri”. Infine: “Sì, la felicità fa paura, rischi di sparirci dentro, e poi di cosa ti lamenti?” – detto con ironia verso il nostro attaccamento al dolore e alla paura. Si oscilla tra l’eroismo ascetico di un’infelicità critica e la percezione di un nesso tra la miseria morale italiana, la viltà e avarizia di un popolo attaccato al neg-ozio, sospettoso di tutto e nutrito di paura. Si capisce anche che è per “spendere meno” che si taglia sull’educazione, la cultura, la salute mentale, la bellezza e altre cose “inutili” (cosa rimane?). Eppure sospetto che l’annoso successo dell’impostore che occupa il posto di primo ministro (eletto da noi, anche se tutti negheranno di averlo fatto) sia dovuto a un desiderio inconfessabile e distorto di felicità, assente da tempo immemorabile nel “programma” (?) della sinistra.
Adesso mi viene in mente la frase del mio amico Fausto Taiten Guareschi, maestro Zen, “la vostra vita è troppo preziosa perché sia felice, perché sia spendibile facilmente”, e so che per lui in questa apparente rinuncia risiede la felicità più alta, l’unica.

10/05/2010

Il corpo del fantasma ("Spettri di Derrida")

   Sono usciti per gli Annali dell'Accademia del disegno di Valerio Adami gli atti del convegno "Spettri di Derrida" tenutosi a Napoli, Istituto di Studi Filosofici, l'ottobre dello scorso anno. Impossibile pubblicare qui il mio intervento-relazione (oltre 25 pagine), ma un brano iniziale sì, e anche l'ultimo breve paragrafo...
   Il testo ha per titolo "Il corpo del fantasma", ed è un percorso a tappe, una "hantologie", la chiamo, cioè un'antologia di fantasmi, quelli che ritrovo nel mio percorso testuale e di pensiero, letterario o filosofico che sia, ma da sempre e ogni volta anticipato dall'opera di Derrida...
Ecco comunque l'estratto da: Il corpo del fantasma:

[...]
In un’epoca in cui sempre più nettamente e violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura, il suo ingegno e la sua fama una sorta di barriera difensiva - sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello “contro la guerra all’intelligenza” lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso – disse Derrida - “designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia”. Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del “presente vivente” con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes [...].

[...]
  Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che “The time is out of joint” (W. Shakespeare, Amleto I. v.). Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo - dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e “della specie” - si traggono soprattutto oggi le conseguenze. E’ il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli “Stati-fantasma”, come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida:
   “[I]l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto”. Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare, anch’esse “out of joint. Per quanto corrette e legittime, [...] sono tutte disaggiustate”. Fino a quella magniloquente di Gide, “Cette époque est déshonorée”. Altrettante versioni esistono in italiano.
   Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint (senza l’articolo). Interessante è la variante del traduttore italiano (Gianni Pannofino) per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: “Tempo fuori luogo”. Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria (diciamo l’Unheimlich di Freud) del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Ma il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei “mondi possibili”, è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell'homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come “sentirsi” a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, “infestare”, è una delle non tantissime modalità.
   Il “fuori luogo” dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. E' lo spirito (Geist), del tempo. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come quelli sull’ospitalità, appunto, o sul “dono”); l’essere clandestini come condizione ontologica (per di più, oggi in Italia, criminale, poiché “essere clandestini”, oltre a un pleonasma, è un reato). Il fuori luogo è il sempre altrove, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (e forse è per questo che abbiamo bisogno di una home page). E’ una dislocazione (o “delocazione”, come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e con le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla specularità, o spectrum, o speculazione e, da qui, dalla scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il “tempo fuori luogo”, dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, “faticosamente, dolorosamente, tragicamente, [di] un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia”. Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, forse anche leggendo Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un “guest-writer”.
   Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma – revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite. [...]

   [...]
   Accennavo prima a una nuova esperienza dell’abitare, che, mutuata da Derrida, è anche una nuova es   perienza del linguaggio, quella del revenant, testimone, forse homme des lettres. In realtà è un’esperienza molto antica. E’ quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del “parlare con i morti”, su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, “romanzo”, e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita - in différance - in Derrida (per esempio, nel primo straordinario capitolo di Spettri di Marx).
   Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
   Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è “la vita più intensa che sia possibile” (cfr. intervista a le Monde del 19/8/2004).
   Ma penso ora, in particolare, al Canto Undicesimo dell’Odissea. Penso a un testo come Circonfession.
   Parlare con i morti, incontrare fantasmi, è ciò che accomuna l’esercizio della filosofia e della letteratura fin delle origini. Per dirlo in una frase, una frase che compendi in un comune avvenire gli spettri di Derrida e i miei, né Ulisse né Dante, né Amleto, né Shakespare, né Marx, né Jacques Derrida, sarebbero stati capaci di ritornare a casa, se prima non avessero parlato con dei fantasmi. Né Enea, l’eroe della nostalgia irrimediabile e senza ritorno, sarebbe stato capace di reinventarsela. [...]