1/31/2010

Siamo in affitto (rubrica "acchiappafantasmi")

Faccio parte naturalmente di chi pensa che la vittoria di Nicki Vendola sia un’importante vittoria culturale (a prescindere da chi vincerà le elezioni per il governo della Puglia), che ha mostrato per l’ennesima volta che sono sempre i mezzi a giustificare i fini, non il contrario. Peccato solo che le battaglie culturali (cioè politiche) ormai si facciano all’interno del centrosinistra, mai contro la destra; la quale viceversa vince in quanto compattata nei suoi valori di destra (gli stessi, con qualche avatar pubblicitario, di sempre).
Mentre sui giornali di sinistra si dibatte se sia lecito scrivere sui giornali di destra, anche uno così urlato e schierato come Libero, mi torna in mente una poesia di Tiziano Scarpa bella e dolorosa del 2002, “El capitalismo foràneo”, che uscì per la prima volta in un volume collettivo dal titolo, guarda un po’, Non siamo in vendita (poi raccolta in un volume edito da Fanucci, Batticuore fuorilegge): “Solo l’essere amati, solo l’essere / voluti conta (…) / Capisco gli elettori del padrone / di mezza Italia, perché nella vita / l’unica cosa che conta è incappare / in qualcuno che voglia la tua vita. / Silvio Berlusconi mi vuole, mi ama, / mi fa sentire che ho anch’io qualcosa / da dargli, che a lui risulta gradito! (…) Il potere mi vuole! Vuole me! / (…) Non si vive se nessuno ti vuole. / Mi volete forse voi comunisti? / Mi volete forse voi democratici di sinistra?” Non è così lontana dall’esigenza di un legame sentimentale di cui parla Nicki Vendola. Nel frattempo i democratici non sono più “di sinistra”, e il nuovo paradigma di svariate prestazioni, non solo sentimental-sessuali ma politico-intellettuali, si rivela essere l’“escort”: si può scrivere ovunque, basta che paghino. Se i mezzi mostrassero troppo apertamente di non giustificare i fini, basterà aggiornare quel vecchio pamphlet (del cui titolo si appropriò Casini alle ultime elezioni: “non siamo in vendita”): “Però siamo in affitto”. Avrebbe molte adesioni.

(l'Unità, 31 gennaio 2010)

1/28/2010

Le anatre d'inverno...


Dove vanno le anatre d'inverno, quando il laghetto di Central Park è ghiacciato? Non lo abbiamo mai saputo, anche se le risposte sono state tante... Cristo, credo proprio che sia lì che se ne è andato Salinger, lo scrittore più schivo e pudico del mondo, l'autore de The Catcher in the Rye, ovvero Il Giovane Holden. Con tantissimo affetto.

1/27/2010

Memoria, musica, museo, liberazione, vigilanza

Nel giorno della Memoria, ripropongo:

http://beppesebaste.blogspot.com/2009/09/francesco-lotoro-il-pianista-che-salva.html


Segnalo anche, caldeggiando una visita per chi è a Roma, il Museo Storico della Liberazione di via Tasso:

http://www.viatasso.eu/

riportando che: "Nella notte dal 26 al 27 gennaio, alle ore 2, sul muro di via Tasso adiacente il Museostorico della Liberazione , è stata tracciata la scritta "Olocausto = propaganda sionista". Non è una novità. Già il 24 gennaio 2008 scrissero "Himmler eroe". Via Tasso viene individuata per il suo valore ...simbolico, ma viene attaccata anche per il lavoro inprofondità che il Museo svolge, soprattutto tra i giovani (13.000 visite l'anno di scuole e gruppi). Non abbiamo ceduto di fronte alla bomba del 1999, non ci lasceremo intimidire dalle scritte. Ma abbiamo bisogno della solidarietà, sia delle istituzioni, sia dei cittadini, sia delle articolazioni della società civile".
Passate a firmare il registro nell'atrio del Museo. htpp://www.viatasso.eu

1/24/2010

Gli avatara nascosti (rubrica acchiappafantasmi)

Da giorni volevo parlare della parola sanscrita avatar, nella cui origine induista significa “discesa in terra”, ovvero l’incarnazione della divinità in un corpo fisico: per esempio di Visnù, tra i cui diversi “avatara” uno, il leone antropomorfo, fu descritto da Emilio Salgari più volte nei suoi romanzi d’avventure. Volevo ricordare questa antica radice indoeuropea perché sono intimamente conservatore (amo la cultura, la memoria, la Storia) e mi inquieto quando un nuovo mito fondatore, scaturito da Internet o da un film americano (per quanto bello e giusto come quello di James Cameron), rischia di fare tabula rasa di un simbolo o di un concetto.
Ben prima di designare le nuove identità virtuali di Second Life, la parola “avatar” era usata nella psicanalisi francese come sinonimo di trasformazione, ripresentazione, resurrezione, rigenerazione (di un sintomo, di un affetto, di una nevrosi ecc.). Volevo dunque descrivere questa parola quando la cronaca, come spesso accade, mi ha richiamato l’attenzione sul continuo riproporsi di “avatara” anche senza che si chiamino così. Prendete la riabilitazione del pregiudicato per reati legati alla corruzione Bettino Craxi in grande statista e perseguitato politico, vero e proprio avatar politico; prendete il doloroso disfarsi della responsabilità civile ed etica degli scrittori italiani cammuffata da libertà, impoliticità, neutralità delle scelte e dei contesti (il riferimento è a coloro che scrivono su Libero, ottimamente sintetizzata da Marco Rovelli su l’Unità di ieri). Il fatto è che il regime pubblicitario in cui siamo immersi è da tempo il trionfo dell’avatar, della second life e oltre, fino al dissolversi della realtà; e la Storia, per chi ancora ci crede, è un ben triste avatar se, di fronte a quegli 11 professori che rifiutarono il giuramento fascista nel Ventennio, che ci sembravano così pochi, l’idea è che oggi non ve ne sarebbe forse nessuno.

(su l'Unità del 24 gennaio 2010)

1/15/2010

Il corpo scritto, l'handicap - una confessione


La fotografia riportata sopra raffigura una scultura di Marc Quinn in marmo di Carrara posta in Trafalgar Square da settembre 2005 alla fine del 2007. In essa è raffigurata "Alison Lapper incinta" (è il titolo). Alison Lapper è focomelica, cioè è nata così. Ha studiato Arte e Architettura all'Università di Brighton, laureandosi in Fine Art nel 1994.
Su Venerdì di Repubblica in edicola oggi si può leggere questo mio testo:

Forse qualcuno ricorda quei ragazzi e ragazze che, senza essere stati vittime di bombe o mutilazioni, presentavano anomalie, anzi malformazioni, gravi ed evidenti: mancanza degli arti (focomelici), dita che spuntano all’altezza delle spalle, o semplicemente mani senza dita. Erano (sono) “nati così”, creature diverse e un po’ mostruose, con buona pace delle ipocrisie linguistiche del “politicamente corretto”. Bambini nati tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, le cui malformazioni, si seppe dopo, erano dovute ai danni provocati al feto da un farmaco di fabbricazione tedesca consigliato all’epoca alle donne incinte: il Talidomide.
Tempo fa mi è stato segnalato un articolo su un quotidiano. Arrivato alla pagina ho letto il titolo, l’ho scorso rapidamente e ho chiuso il giornale con fastidio. Ho camminato inquieto, disturbato da pensieri che interferivano con quelli che avrei voluto avere, fino ad accorgermi di non pensare ad altro che a ciò che avevo letto sul giornale. Il titolo dell’articolo era: “I bimbi del Talidomide saranno risarciti (cinquant’anni dopo)” E sotto: “Malformazioni per il farmaco: via agli indennizzi”. Ora, io ho compiuto 50 anni pochi mesi fa. Sono uno di quei bambini. Lo so da sempre, e quella notizia obiettiva che tuttavia mi riguardava mi ha fatto ripensare alla mia vita sotto il profilo dell’handicap. Quella che segue, prima che una riflessione, è una testimonianza. Quasi una confessione.

Confesso, per cominciare, il trauma di vedere il corso della mia vita - il suo senso, il suo vettore, i suoi passaggi più intimi - in una notizia diramata dal ministero del Welfare, e nello stesso tempo la mia resistenza a riconoscermi come “vittima”. Leggere un’informazione neutra e circostanziata sul tardivo e dovuto risarcimento (già avvenuto da tempo in Germania) che contiene paradossalmente la mia biografia (“bio-grafia”, scrittura impossibile della vita, parola su cui ho molto scritto), a pagina 20 di un giornale. Riscoprire in un lampo quanto la propria vita sia scritta nel corpo, e il corpo scritto dalla vita, e averne la rivelazione sul marciapiede, col giornale in mano. Vedere scorrere la propria vita riconoscendo quanto sia stata orientata da un dettaglio, una particolarità “congenita” (così recitavano i certificati dell’esenzione dal servizio militare), handicap simultaneo al nascere, evento fondatore di una serie vorticosa di miti e di leggende. Ognuno ha almeno una storia legata alla propria nascita: la mia fu simbolizzata dall’esclamazione del dottor M. che mi fece nascere in casa (all’epoca era ancora frequente), e prontamente valorizzò la forma del mio cranio: “Che bella testa!”. Frase che ebbe lo scopo e l’effetto di distrarre e ignorare il mio corpo. Da quel primo leggendario omissis che influenzò la mia vita - un’attenzione posta sulla testa, e per metonimia la predominanza della mente sul corpo - io sono diventato quello che sono: uno scrittore, oltre che un intellettuale leggermente sovrappeso, a volte depresso e di sinistra.

Rispetto a chi, come il mio amico Marco, avvocato, è nato senza gambe e senza un braccio, due grosse dita nell’altro, e vive da sempre con protesi plastiche, la mia mancanza sembra poca cosa: non ho le falangi e falangine della mano sinistra. Eppure l’assenza di quei piccoli pezzi di scheletro rivestiti di pelle e muscoli, ovvero l’uso imperfetto della mano sinistra, ha determinato ogni passaggio della mia vita, dandomi un senso precoce di unicità e diversità. Di incompletezza. E’ un’invalidità quasi impercettibile, ma mentre scrivo queste parole mi rendo conto che è proprio l’odio per una “impercettibile differenza”, scriveva Jankelevitch, a contraddistinguere l’antisemititismo dal razzismo. E ancora, mentre scrivo questo, ricordo che fu a partire dalla prima adolescenza (perduta ormai l’innocenza di bambino non ancora corrotto da paure e pudori degli adulti), che mi resi conto quanti sforzi occorressero affinché il mio handicap risultasse appunto impercettibile. Un apprendistato di gesti e di posture (all’inizio “impercettibili”) per occultare con naturalezza la mano sinistra. Assumere con noncuranza pose naturali (che è già un ossimoro), fino alla mano in una tasca e la sigaretta nell’altra, e sviluppare al meglio il dono della parola (scritta, soprattutto) ovvero della distanza. Dissimulare una mano significa usare meno il braccio, e quando mi accorsi del danno era tardi (uno sbilanciamento nella lunghezza dell’arto, per esempio).
Tralascio l’elenco delle mie limitazioni, sto già infrangendo il tabù del parlare di sé su un giornale. Ometto i ricordi pittoreschi. Ma come dire la consapevolezza che ogni tappa della propria vita sia stata, direttamente o indirettamente, predeterminata da una mancanza? E’ il senso di incompletezza ad avermi fatto aderire alle poetiche del romanticismo, alla famosa anfora spezzata di cui è impossibile ricomporre i cocci, da cui una nostalgia irrimediabile non solo del passato, ma del futuro, tutt’uno con le utopie e il messianismo politico? E le epifanie amorose, lo stupore ogni volta di scoprire che la mano non fa differenza, il trasporto e la gratitudine (ma c’è gratitudine senza vergogna, quindi senza un grumo di aggressività potenziale?) per coloro che mi presero la mano nelle loro, primo e preliminare gesto fisico d’amore.

Il giorno che ho letto l’articolo sul Talidomide ho provato la consapevolezza che ogni aspetto della mia vita fosse conseguenza della condizione congenita di malformato e mancante. Anche la virtù dell’empatia, il sentire la sofferenza altrui dietro le apparenze, la disponibilità all’ascolto, il non stupirsi del prossimo. Anche la propensione per le scienze umane, la diffidenza verso l’obiettività priva di calore delle scienze esatte, il liceo classico e gli studi in Filosofia, perché “ogni metafisica (fu Jean-Paul Sartre a scriverlo, e Gilles Deleuze a ripeterlo) – è una ferita che parla”. O ancora la predilezione per quelle forme di discorso e di racconto che dicono il sentimento della vergogna, che per Deleuze “è uno dei temi più potenti della filosofia”, e che ricorre in opere importanti del pensiero contemporaneo, come l’etica di Emmanuel Levinas. Non è un caso se ho tradotto a vent’anni un libro del francese Joe Bousquet, rimasto paralizzato nella prima guerra mondiale e sprofondato nel linguaggio al punto di sostituire con esso il proprio corpo: “Come spiegare, con delle parole, una cosa così semplice, e che sta tutta nel fatto di giocare la propria vita nelle proprie parole?”

Fa qui irruzione il concetto di biopolitica, che esplora le frontiere del corpo e dell’umano, la vita nuda nell’epoca della sua più forte normatività e discriminazione: le leggi sull’immigrazione, quella mancata sull’omofobia, il disprezzo del regime mediatico per il corpo delle donne, ripropongono la logica dell’esclusione che in altre epoche storiche ha riguardato etnìe (ebrei, zingari), o membri della comunità (gli anziani, le donne), oppure ancora - logica conseguenza di un rifiuto dell’alterità – la persecuzione nazista e l’annientamento di chi porta alterazioni fisiche. La notizia del risarcimento ai “mostri” di cinquant’anni fa tocca, lo si voglia o no, la sfera biopolitica. Nella sua indagine su La condizione post-moderna, il filosofo Jean-François Lyotard mostrò come l’economia si muovesse verso una “logica del vivente”, in cui la vita stessa di ogni individuo diventa valore di mercato. Nel mondo degli affari la parola d’ordine è da tempo “valore della vita” (lifetime value o LTV) del cliente, cioè “la misura teorica di quanto un essere umano potrebbe valere se la sua esistenza, per l’intera sua durata, fosse trasformata in un modo o nell’altro in merce e sottomessa alla sfera commerciale”. Come si misura un risarcimento, e che cosa dovrebbe risarcire? Come si effettua il riconoscimento delle vittime, non certificato all’epoca e i cui testimoni sono estinti o in via di estinzione?
La ditta tedesca che produceva il Talidomide, la Chemie Grünenthal di Stolberg, che lo dichiarò innocuo anche quando ne erano noti gli effetti nefasti e non lo ritirò dal mercato, ha responsabilità enormi. Furono migliaia i bambini malformati in Europa. La notizia di un indennizzo dopo cinquant’anni apre quella che i filosofi chiamano “aporia”, una possibilità dell’impossibilità, un paradosso. Ma è una possibilità che occorre vivere fino in fondo. Ovvio che nessun risarcimento è possibile, e anche la sola idea risulta offensiva: come si può risarcire una vita senza negarla? Il debito, se di debito si tratta, resterà aperto per sempre. Ma è altrettanto ovvio che si debba affermare il diritto a tale risarcimento, e vegliare sulla perversa gerarchia di merito che si creerà in base all’handicap (chi si arroga il diritto di giudicarlo?). Non si è responsabili delle vittime, ma “di fronte alle vittime”, ha scritto ancora Gilles Deleuze. “I diritti dell’uomo”, continuava il filosofo, “non dicono nulla sui modi d’esistenza dell’uomo provvisto di diritti”, e la vergogna d’essere uomo non la si prova solo nelle situazioni estreme descritte da Primo Levi, ma anche nella normalità insignificante dei modi di vita nelle nostre democrazie. Quella dei “bimbi del Talidomide” è una storia esemplare della nostra epoca.

1/11/2010

Avatar dell'inferno (acchiappafantasmi)

Commentando la cronaca nera relativa ai condomini (e il modello di guerra permanente delle riunioni di condominio), il blogger Fabrizio Centofanti (La Poesia e lo Spirito) scrive: “E’ l’esistenza dell’altro la causa del conflitto, l’inferno sono gli altri, come scriveva Sartre”. Questa celebre frase di J.-P. Sartre, l’enfer c’est les autres, che una volta mi piaceva, imparai a trovarla letteralmente diabolica grazie al filosofo Jean-Luc Marion, che replicò: “l’enfermement” (la chiusura), ovvero l’enfer me ment, “l’inferno mi mente”. Quell’idea di inferno come chiusura agli altri è falsa, ed è il problema. Detto questo, credo che il condominio (vedi l’omonimo romanzo di Jim Ballard, vedi il bel romanzo già introvabile di Daniele Benati, Cani dell’inferno, e soprattutto il film messicano La zona), sia davvero un inferno (nel senso di Marion come di Sartre), proprio perché è il dominio della chiusura, muri dentro e fuori di sé. Il modello del condominio (la “zona”) lo abbiamo poi esteso alla polis (la politica, il sociale), e giù giù fino ai rapporti più privati (di cosa?). Nessun dubbio che il fascismo consista in questo – egoismo, esibizione aggressiva della forza, corporativismo sociale, nazionalismo (sangue e suolo) e via elencando. Fino all’idea del leader dei pubblicitari, che dopo aver svuotato e triturato la parola “libertà” vuole varare il “partito dell’amore” (dovremmo scendere in piazza solo per difendere questa parola). La politica non sarebbe un inferno se non avessimo tollerato la violazione alle parole, che in ogni totalitarismo precede quella sui corpi; se non avessimo, “da sinistra”, ceduto all’anaffettività e al disincanto. Non si tratta soltanto di ridare salute mentale alle parole, ma di lavorare sulla paura, la nostra vera passione (avrebbe detto Hobbes). Inabili ai rapporti, cosa sappiamo ormai di legame sociale? A postularlo sono solo i “clandestini”.

(questa rubrica che doveva uscire domenica su l'Unità è invece saltata, per dar spazio a un lungo articolo sul film Avatar...)

1/07/2010

Vacuità (riformismo?)

"Oggi il fascismo significa, come ha scritto qualcuno, che alla fine vincono solo le parole. Parole orfane di fatti, svuotate di senso: basta pensare alla parola “libertà”, triturata nella casa, o nel polo, omonimo. Ma è il caso anche della parola “riformismo”, e degli aggettivi ad essa correlati, che riempie le bocche e i discorsi di Berlusconi e dei suoi portavoce: loro sono i riformisti; coloro che si oppongono sono i conservatori..." (mio articolo su l'Unità, 12 maggio 2002).
Leggo oggi su Repubblica che Ilvo Diamanti, nella sua rubrica "Bussole", scrive che "riformismo" è una parola vecchia, anzi perduta. Io lo avevo scritto nel 2002, ecco, quanto sia e fosse vacua e priva di significato, cioè da buttare. E citando - questo lo avevo dimenticato - il "manifesto" politico - "comunista e consevatore" - del grande Antonio Delfini. Oggi, mi sembra vacuo perfino parlarne, di riformismo, nella voragine di senso che ogni giorno si allarga... (Partito dell'amore? Ci sarebbe da scendere in piazza solo per difendere questa parola).

1/03/2010

Lo stile è una risposta a tutto

Stile: dal latino stilus, pugnale, e dal greco stylos (stessa origine del verbo “ergersi”): strumento acuminato con cui gli antichi scrivevano su tavolette di cera. Stile designò poi il “modo” di scrivere (dal ritmo al pensiero), e quindi il complesso di qualità di un autore o di un’epoca. La svolta fu il celebre “Lo stile è l’uomo” (le style est l’homme me^me) di Buffon (1753), che restituì al concetto di stile la sua qualità etica troppo spesso perduta: non un accessorio da parrucchieri (con tutto il rispetto), ma questione su cui in passato ci si giocava la vita. Stile è stile di vita, senza frontiere tra pubblico e privato.
Leggete le parole intercettate tra il mafioso Spatuzza e il suo socio Graviano, che paiono prese da una commedia di Molière; quelle del nostro primo ministro (che paiono uscite dal Bagaglino), volgari anche quando non illegali; o le telefonate del non-re Savoia che parlava di puttane. Oggi è rara la vergogna, figuriamoci lo stile. Allora andate su youtube, ascoltate la voce di Giancarlo Giannini che doppia Ben Gazzara nel ruolo dello scrittore Charles Bukowski, in Storie di ordinaria follia di Marco Ferreri. E’ una conferenza sullo stile, alternata da sorsi di whisky: “Lo stile è una risposta a tutto”, dice, e “fare una cosa pericolosa con stile è quello che io chiamo arte”. “Boxare può essere un’arte. Scopare può essere un’arte. Aprire una scatola di sardine può essere un’arte”. “Certi tipi ti insegnano lo stile: Giovanni Battista, Gesù, Socrate, Garcia Lorca (...) Ho conosciuto più uomini con stile in prigione che fuori di prigione. Lo stile è una differenza, una maniera di fare e di essere fatti: sei aironi che stanno immobili in uno specchio d’acqua, oppure tu, che esci nuda dalla vasca da bagno senza vedermi..”. Ascoltatele tutte: sono parole che danno il desiderio di iniziare l’anno con stile.

(uscito su l'Unità, rubrica "acchiappafantasmi", domenica 3 gennaio 2010)