7/30/2007

"Scarponi vuoti"

Da l'Unità, 24 luglio 2007

Si è svolta il 23 luglio a Roma “Morti bianche - Lavoro Nero”, una giornata dedicata alla sicurezza sul lavoro. Organizzata dalla Presidenza del Consiglio provinciale di Roma si è snodata dal mattino alla sera attraverso vari appuntamenti, politici, culturali e spettacolari. Al mattino sono stati proiettati i film e documentari 3,87 di Valerio Mastandrea, Apnea di Roberto Dordit, Morire per un giorno di lavoro di Donato Placido. È seguita, nel pomeriggio, una seduta straordinaria del Consiglio Provinciale durante la quale sono intervenuti per un dibattito sulle morti bianche il ministro del Lavoro Cesare Damiano, il Presidente della Provincia di Roma Enrico Gasbarra e l’assessore alle politiche del lavoro della Provincia Gloria Malaspina. Nel piazzale del Colosseo è stato allestito un percrso composto da scarpe antiinfortuni e caschi di protezione in un lungo serpentone per ricordare gli oltre cinquecento morti sul lavoro del 2007. In serata, lo stesso piazzale è stato teatro di letture teatrale e letterarie. Coordinati dal Trio Medusa, tre «Jene» che hanno realizzato per la trasmissione numerosi servizi sulle morti bianche, si sono avvicendati sul palco: Stefano Mencherini, autore del testo teatrale Il pane loro, al quale hanno collaborato Gianni D’Elia, Roberto Roversi, Franco Loi, Alda Merini e Attilio Lolini; l’attore e regista Ulderico Pesce, che ha recitato uno splendido brano dal suo ultimo spettacolo Il triangolo degli schiavi; Christian Raimo, che ha proposto La Montagna bianca, una dolente rivisitazione delle Beatitudini; Elena Stancanelli; Mauro Covacich, che ha letto un racconto ispirato al lavoro nei call center; Beppe Sebaste, che ha messo in scena una commovente litania con i nomi delle vittime del lavoro; e Marco Lodoli, che ha letto un racconto-poesia scritto per l’occasione.

"Scarponi vuoti"
, di Stefania Scateni

Ogni giorno in Italia quattro persone muoiono sul posto di lavoro. Dall’inizio dell’anno a oggi le vittime sono 587. Un numero destinato a crescere, un numero che è una vera e propria emergenza. È, però, un numero che non è un numero: 587 significa una persona morta per guadagnarsi da vivere, più un’altra persona morta per guadagnarsi da vivere, più un’altra ancora morta per guadagnarsi da vivere, più un’altra persona... 587 persone morte di lavoro. Uccise dall’incuria, dalla logica del profitto, dallo sfruttamento. L’altro ieri a Roma, davanti al Colosseo, hanno messo in fila, uno dopo l’altro, scarponi anti-infortunio ed elmetti di protezione (l’equipaggiamento per garantire il minimo di sicurezza nei cantieri). Volevano metterne tanti quante sono a oggi le vittime del lavoro. Ma non l’hanno potuto fare: quel serpentone di elmetti e scarponi sarebbe uscito dal piazzale, avrebbe camminato lungo i Fori Imperiali, sarebbe arrivato a piazza Venezia... Immaginate ora i piedi che erano dentro quelle scarpe, i corpi retti da quei piedi, provate a immaginarvi in fila, uno dopo l’altro, quei corpi, triturati dalle betoniere, schiacciati dalle presse, carbonizzati dal fuoco, dilaniati dagli scoppi, svuotati da una caduta dall’impalcatura, spezzati da un trattore. Persone di tutte le età e di tutte le nazionalità, persone con una famiglia, madri, padri, figli. Persone senza nome, immigrati al nero, senza storia. Provate adesso a sentire se vi succede qualcosa dentro. Se provate dolore o rabbia, o tutt’e due. Sentimenti semplici, umani, che molti attivano automaticamente alla vista di un gattino ferito. Se sentite qualcosa, a immaginarvi quei corpi ammucchiati e nascosti dietro il numero 587, non siete ancora anestetizzati. Non siete come le persone che non c’erano ieri l’altro al Colosseo, a testimoniare il loro sdegno per questa strage silenziosa. Che rischia di rimanere tale. Perché l’altra sera, a Morti bianche-Lavoro nero, la giornata organizzata dalla Provincia di Roma, non c’era pubblico. Non c’era il pubblico che si meriterebbero 587 morti, che non si meritano neanche gli artisti e gli scrittori che sono saliti sul palco. Quaranta, venti, cinquanta, trenta spettatori. Passanti. È vero, non c’era un cartello o un’insegna che spiegasse cosa stava succedendo, non c’erano sedie davanti al palco, e pochi sono disposti a sedersi per terra, sul pavè impolverato davanti al Colosseo. È vero, l’organizzazione dell’evento lasciava a desiderare. Ma quel vuoto davanti al palco, al Colosseo, ci racconta che siamo ormai anestetizzati, ci dice che abbiamo solo voglia di distrarci, non di occuparci delle tragedie quotidiane. E di quanto la vita in comune non ci interessi. Siamo soli. Vuoti. Come adesso quegli scarponi.

Intervista

(l'Unità, 30 luglio 2007)

Henri (fatto) a pezzi
Una vita oltre Diana


di Paolo Di Paolo

Alla sola figura «interamente, banalmente umana» della tragedia che dieci anni fa costò la vita a Lady Diana e a Dodi Al Fayed, Beppe Sebaste ha dedicato un romanzo strano e commovente, appena tornato in libreria: H.P. L’ultimo autista di Lady Diana (pagine 258, euro 11,00 Einaudi Stile Libero). Passò per responsabile dell’incidente, Henri Paul; fu bollato dai giornali come alcolizzato; il suo corpo, dopo la morte, fu ostaggio «di perizie e controperizie legate alla costruzione di una verità ufficiale» (la più facile, e forse proprio la meno attendibile). Nella casa del signor Paul, lasciata in ordine quella sera di agosto del 1997, c’erano delle baguette fresche in cucina, e un curioso biglietto in soggiorno: «Non fidatevi della stampa». Da qui - da una ricerca di tracce - comincia il romanzo di Sebaste, guidato dalla imprevista simpatia-empatia provata per questo «signor nessuno» schiacciato da una storia (un «gioco mondiale di Tarocchi») troppo più grande di lui. Nel rumore attorno alla morte della Principessa, chi si è preoccupato di salvaguardare la dignità dell’esistenza ordinaria di H.P.? e chi l’ha sentito il dolore della sua famiglia, stretta in una ingiuriosa morsa mediatica? Sebaste, portandosi dietro questi interrogativi (oltre a quello, il più angoscioso, di Celan: «Chi testimonia per i testimoni?»), tenta con coraggio un atto di restituzione. Mette in gioco sé stesso (i sentimenti non lo spaventano) e si fa accompagnare da H.P. in quel tunnel de l’Alma (ovvero dell’Anima), il cui nome, a posteriori, pare un’indicazione decisiva. Così compone un romanzo che è insieme indagine, testimonianza, diario; un libro straordinario in cui entra molta vita, che «è già senso»: ciò che di noi - di H.P. e di tutti; di tutti gli H.P. della Terra - si deposita qui (oggetti, gesti, parole; nelle case, negli occhi di chi resta). Perché «è solo parlando di qualcuno in particolare - da cui sei stato scelto, per così dire, piuttosto che aver scelto - è solo parlando della vita di qualcuno, senza illudersi di esaurirla, che si può far sì che chiunque possa riconoscersi».
H.P. L’ultimo autista di Lady Diana è un libro che coinvolge, commuove - e fino alle lacrime, a tratti: fa piangere perché, con il respiro della compassione, ci avvicina il valore delle nostre vite ordinarie, la complessità preziosa del nostro «privato». Sebaste riflette, domanda, ricorda; e spende di sé amori, passioni, incontri (appaiono con la forza di rivelazioni intuizioni e atti di Lévinas, di Derrida, di molti maestri, filosofi e scrittori) - per capire. Chiede molto alla letteratura, ne avverte (ne rinnova) la necessità. E senza schematismi o indici alzati, mostra - empiricamente - a molti suoi colleghi quali e quante domande essenziali hanno smesso, da troppo tempo, di porsi.
Beppe Sebaste, quando apparve per la prima volta, nel 2004, questo suo libro sembrò inaugurare, almeno in Italia, un genere nuovo, ibrido. Che cosa c’è dietro questo singolare approdo?
«Il tentativo di partecipare a una ricerca nuova che investe letterariamente sugli apporti di ciò che si chiama testimonianza, archivio, documentario. Porzioni intere di realtà vengono impastate di narrazione soggettiva, finendo col risultare - come hanno evidenziato in molti - più romanzesche di qualunque romanzo di finzione. È una modalità di scrittura che si sta affermando a livello planetario, e non solo in letteratura. Penso anche al cinema, a quanta vitalità intellettuale e sentimentale scaturisca dai documentari, lirici o avventurosi che siano. La scelta del documentario rappresenta una fortissima e necessaria reazione alla pervasività e all’invadenza di una cattiva dimensione narrativa, simulacrale, di vera finzione, prodotta da quegli organi che dovrebbero essere teoricamente deputati al racconto della verità. Sto parlando, va da sé, dei media. Immersi come siamo in una tale inutile, a volte nauseante, finzione-simulacro fine a se stessa, paradossalmente proprio chi che era deputato a raccontare storie, a produrre finzioni, mondi immaginari (lo scrittore) si trova invece a dover raccontare la realtà. C’è dunque una valenza politica in questa scoperta non solo italiana della dimensione documentaria nella fiction, di contro a una “finzionalizzazione” della realtà (e della politica)».
Pensa che la definizione di «romanzo» vada stretta a questo suo libro?
«No. H.P. è a tutti gli effetti un romanzo; ha partecipato al Premio Strega, che è un premio per romanzi. Lo si può considerare naturalmente il risultato di una evoluzione del genere. E d’altra parte, il romanzo non vive se non evolvendosi (da Balzac a Proust, da Joyce a Robbe-Grillet). È quando resta uguale a se stesso, che diventa para-letteratura, non-letteratura. O, tutt’al più, letteratura da stazione».
«H.P.» però non racconta un personaggio ma una persona. Questo non complica le cose?
«Ma in realtà Henri Paul, famoso per caso, è stato per la stampa esclusivamente un personaggio. E in fondo il titolo di questo libro accetta, con una certa amarezza, il cliché giornalistico: l’autista di Lady Diana. Quando lui non era né un autista, né tanto meno di Lady Diana. Era una persona normale, che faceva un mestiere affascinante: il responsabile della sicurezza dell’Hotel Ritz, il più complesso e leggendario albergo d’Europa. Proprio perché non sono un giornalista, ma uno scrittore, ho cercato - con i mezzi della letteratura (con il suo approccio “lento”, non semplicistico) - di far tornare persona un personaggio. L’intuizione che dietro quel colpevole designato, quel capro espiatorio ci fosse una persona, per la quale ho sentito empatia, mi ha guidato nel raccogliere testimonianze su di lui e, quasi senza soluzione di continuità, anche su me stesso».
Raccogliendo le tracce dell’esistenza di Henri Paul, qual è stato il sentimento in lei dominante?
«Forse lo stupore. “Che cos’è lui per me? chi sono io per lui?”, mi chiedevo. Queste stesse domande risuonano nell’Amleto di Shakespeare, in uno dei passi che mi emozionano di più. Quando viene messa in scena, davanti al principe, la morte di Ecuba, e l’interprete si commuove. “Che cosa è Ecuba per lui? Chi è lui per Ecuba?”, si domanda Amleto. Ecco, questa è l’etica della letteratura, della finzione che non è più finzione: perché le lacrime sono vere. Per me, la letteratura è un incontro infinito, di uno stupore infinito e senza nessuna traccia di pregiudizi, con l’umano, che è inesauribile. Attraversare e farsi attraversare dall’umano: questo è scrivere».
E quel «no trespassing» («non oltrepassare») che lei richiama nel libro - la frase che, nel film «Quarto potere», sta a protezione del privato del protagonista Kane - come lo si aggira, come va inteso?
«Il no trespassing indica l’impossibilità di incontrare l’umano attraverso il voyeurismo giornalistico, che è l’equivalente della pornografia. Il giornalismo, soprattutto quello televisivo, nella sua pretesa di penetrare tutto e dappertutto, in realtà non penetra niente. L’umano è irriducibile alle modalità di racconto dominanti. Mentre invece oltrepassare quella barriera, quella frontiera del “privato”, qualunque cosa significhi, non solo è possibile, ma è il dovere della letteratura, perché la letteratura non parla d’altro. E l’ambito, l’esperienza dell’umano oltre questa frontiera è talmente inesauribile che coincide con l’inesauribilità, l’illimitatezza della letteratura stessa».
Di verità e sconfitta della letteratura si dice nella quarta di copertina. Perché «sconfitta»?
«Sconfitta in senso politico. Se fosse vincente questo modo di accostarsi all’umano, se fosse la modalità diffusa, ci sarebbe una tale consapevolezza nel mondo, che non esisterebbero forse molte inutili sofferenze, molti inutili conflitti. Vivremmo nella reciproca comprensione e compassione, intesa in senso non religioso, ma più ampio, universale. “Sconfitta”, dunque, perché la letteratura non è un valore dominante. Penso a molti nostri politici. Hanno un’idea della complessità umana e della realtà quotidiana? Riescono davvero a capire, a sapere che cosa sono le persone ordinarie?».
Proprio la riflessione sulle esistenze ordinarie è stato uno dei moventi di questo libro.
«Riconoscere la commovente ordinarietà di una vita diventa più facile in uno scenario così fuori dal comune, così eclatante perché coinvolgeva la morte pubblica non tanto di una persona ma di un’icona, appunto Lady Diana. Una vita ordinaria, diceva Lévinas, richiede più coraggio di quella di un samurai».
Un altro dei temi del suo libro è quello dell’ingiustizia. Ma un destino umano può essere ingiusto?
«Non è ingiusto il destino di Henri Paul, nessun destino è ingiusto: ingiusto può essere invece il racconto che ne viene fatto, ingiuste le menzogne che occultano il senso di una vita. Ingiusto è stato che sui giornali di tutto il mondo Henri sia stato oltraggiato come ubriacone, come responsabile di una tragedia. Era invece una persona brillante, coscienziosa: due giorni prima di morire aveva superato un esame di volo molto complicato; suonava il piano, era uno splendido amico per i suoi amici. Dunque il motivo dell’ingiustizia riguarda anche la consapevolezza di come una famiglia - la famiglia di H.P. - possa essere spezzata, ammutolita dal dolore non solo per la morte di un figlio, ma per il modo in cui questa morte è stata trattata: un modo non “democratico”, nel senso di una democrazia radicale, biologica, necessaria. Farsi parte civile, in circostanze come questa, è un altro dei doveri della letteratura».

INTERVISTA CON LO SCRITTORE Beppe Sebaste che nel romanzo H.P. L’ultimo autista di Lady Diana indaga sul capro espiatorio della morte della principessa e sulla inesauribilità dell’esistenza umana

7/22/2007

"Quale silenzio?"

E' vero, in questo periodo con questo caldo non si ha voglia di fare niente. Perfino il blog radiofonico a Farhrenheit, cinque minuti al giorno, è stato faticoso (ogni volta il patema di improvvisare). Non ho avuto riscontri (non ho parlato con nessuno che mi abbia ascoltato: c'è qualcuno in linea che invece sì?), e in questo momento non ho realplayer, ma chi ce l'ha può ascoltarmi sul sito di radiotre che mi riguarda, che è questo. In uno di questi blog al telefono ho parlato di silenzio, e di vuoto. E siccome sul silenzio voglio leggere domani sera al Colosseo, per una serata sulle "morti bianche", una breve poesia di Raffaello Baldini dal titolo "Cinque minuti" (grazie a Deborah Gambetta che me l'ha spedita), mi anche venuto in mente un mio vecchio articolo sul silenzio scritto per l'Unità nel 2001, ora leggibile qui nel sito, anche cliccando qui. Insomma di cose da leggere, nonostante il caldo, ve ne dò. Pensieri e associazioni di idee per lavori presenti e futuri ne ho tantissimi, troppi. Manca solo la forza di passare all'atto. Ma è così bello stare in panchina, per un po', in tutti i sensi!... A proposito: domenica 29 su la Repubblica dovrebbe uscire un mio pezzo politico-letterario proprio sulle panchine. Infine: il titolo di questo post è una citazione difficile: un frammento di Kafka, un dialogo grottesco tra due voci, intervallate dal silenzio (che non appartiene a nessuno), un silenzio tipografico e impersonale, uno spazio bianco. Ma l'ultima voce (è questo il tratto geniale) dopo il bianco esclama: "Quale silenzio?" (P.S., nota autobiografica: il dialogo appare nel primo, primissimo librino che feci a 24 anni con Giorgio Messori, L'ultimo buco nell'acqua).

7/15/2007

Alla cieca

Ho passato una settimana di metà luglio piuttosto originale: raffreddore e bronchite, con necessità di antibiotici. Negli stessi giorni una proliferazione di inviti per apparire in trasmissioni televisive, naturalmente caldeggiate dall'editore. Tema, lady Di - di cui ho ormai la nausea (io non ho scritto un romanzo su Diana, ma vallo a spiegare...). Un inferno col naso tappato, o meglio, per non abolire la speranza, un purgatorio con la tosse. E poi un pessimismo colossale, dubbi atroci sul futuro, smarrimento, ecc., che non so se c'entra con l'influenza. Una vita "privata" che fa acqua e non mi disseta (privata di cosa?). Disponibilità, forse, a cambiamenti radicali per il futuro. Quali? E' anche questa una metafora?
Non che ne sia uscito. Qualche mail di conforto, una gita ieri a Santa Marinella col pretesto di una mostra di paesaggi in scatola (letteralmente), e la performance di un'amica, ex allieva (Rakele Tombini); lo scoprire che posti vicini possono essere meravigliosi, come Santa Marinella appunto, con un mare aperto e limpido, roccioso, e una serenità assoluta. Anche la visita al sito di Deborah Gambetta, stanze bianche, mi ha fatto piacere. Grazie.
Potrei rifugiarmi in Salento qualche giorno ma scopro che il 23 luglio sono impegnato con altri scrittori a una serata al Colosseo sulle morti bianche ("lavoro nero, morti bianche"). Non ho idea di cosa potrò leggere. A parte la litania dei nomi dei morti, un rosario di insensato martirio (morire sul lavoro è quasi come morire in guerra, se non peggio).
Due sere fa è morta la mamma di un'amica cara. Si chiamava Gemma, adorava le rose. Quando potevo gliene regalavo, ma il regalo lo faceva lei, in realtà, restando per ore rapita ad ammirarle, come un pittore, come Cézanne che contemplava la Montagne Sainte-Victoire. Una meraviglia.
Da domani, e fino a venerdì prossimo, farò un blog orale, anzi radiofonico a Radiotre, in chiusura di Fahrenheit. Ogni volta cinque minuti, massimo dieci. L'idea è carina. Magari ci si sente. Ma ancora una volta mi chiedo cosa sia un blog, e se queste parole che ho appena scritto lo siano. Se basti la sincerità, o l'impudenza. Un inventario alla cieca (cioè un diario). E quali siano, altrimenti, le parole da dire.

7/07/2007

In panchina

I tre giorni al festival dell'architettura e del paesaggio a Cagliari non giustificano questo silenzio, però l'uscita del libro, il brindisi per l'uscita del libro, la cosiddetta "promozione" (non mi oppongo a nulla a quanto mi chiede l'editore), le ultime lezioni all'accademia, gli esami, il caldo, la stanchezza, il desiderio di non far niente, tutto questo insieme un po' sì, lo giustifica. E anche, perché no, lo Strega a Niccolò Ammanniti l'altra sera. Ho desiderio di scrivere in silenzio, appartato. Il blog è troppo poco, a meno che non scriva un diario impudico e spezzato. A proposito: l'altra sera, alla libreria del cinema a Roma dove si brindava ad HP (le parole potevano dirsi solo col bicchiere in mano) mi è arrivato un sms da un amico di Parma che non ho potuto fare a meno di leggere a voce alta: "oggi la giunta comunale ha deciso di non querelare beppe sebaste...". Applausi dagli amici. E io li faccio anche a voi, a tutti quanti mi avete appoggiato testimoniandomi solidarietà.
A Cagliari ho incontrato amici che non vedevo da tempo, e già questo è molto piacevole. Anche la città è molto bella e piacevole, tra mare e una specie di laguna e montagne all'orizzonte. Il problema, tra tanti grandi nomi, è che gli ospiti difficilmente dialogavano tra loro, per esempio gli architetti non ascoltavano gli scrittori (viceversa, credo, è meno grave a un festival sul paesaggio e sulla conoscenza dei luoghi) e anche il celebre Rem Koohlaas ha questo di deludente, che non ascolta gli scrittori, e quanto mi dicono nemmeno la gente (quella che abita nei luoghi in cui gli scrittori vogliono intervenire: per esempo le periferie, per esempio quella di Cagliari, detta Sant'Elia). Confesso che, a arte il libro collettivo Periferie (Laterza 2006) sono un po' un pioniere di questa pratica - descrivere, andare in giro, uscire da proprio studio, perdersi e ritrovarsi là fuori, perdersi nel non sapere che cosa sia importante dire e osservare, andare sul terreno come i fotografi insomma - e qusto lo devo al lavoro negli anni '80 col grande Luigi Ghirri e tanti altri amici, come Giorgio Messori e Gianni Celati. Infatti, tra gli amici che ho avuto piacere di rivedere a Cagliari, vorrei citare il fotografo Gabriele Basilico. Gli ho parlato di questo, tra l'altro: il mio progetto (già avviato) di un piccolo libro sulle "panchine". Proprio così, questi oggetti interni/esterni in via di estinzione, che persino a Padova (sindaco DS) , dopo Treviso e Trieste, hanno deciso di abolire: sulle panchine si siedono i poveri e gli extracomunitari, e altra gente pericolosa. Infatti io mi siedo spesso. Che sia anche per questo che ricevo minacce di querele? Baci, a presto.