7/10/2014

Perché la resistenza del giornale l'Unità ci riguarda tutti



[Quello che segue è un intervento uscito oggi 10 luglio 2014 sul giornale l'Unità, che come forse sapete è a rischio di chiusura per insipienza, arroganza e negligenza imprenditoriale dei suoi proprietari, da Soru in poi. De l'Unità, di cui mi onoro di essere stato collaboratore (delle pagine culturali soprattutto, dirette da Stefania Scateni) dalla direzione Furio Colombo in poi, ho parlato quest'anno anche qui, in occasione della festa del 90 anni. La foto postata sopra è di Maria Andreozzi.]

  La “guerra contro l’intelligenza”, diceva il filosofo Jacques Derrida, è quella perpetrata da un economicismo miope che considera produttivi solo gli investimenti a breve termine. E’ una politica ispirata dal misconoscimento cieco e dal risentimento verso tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. E’ la tragedia politica del nostro tempo. Non posso non richiamarla parlando della “crisi” de l’Unità, frutto in realtà di un’erosione che si protrae da anni nonostante l’intatta qualità dei contenuti.
   Non solo la chiusura delle sedi regionali e il progressivo restringersi della redazione, ma un impoverimento controproducente, come la distribuzione ridotta e addirittura eliminata in alcune regioni, i tagli alle agenzie di stampa e fotografiche, il quasi continuo stato di crisi e solidarietà, ecc. Un po’ come fare economia nella pubblica istruzione, chiamandola riforma, tagliando le spese di aule, libri, docenti e soprattutto tempo, ovvero dell’insegnamento stesso, tagliando alle radici ogni possibile dedizione.
   La resistenza quotidiana dei giornalisti de l’Unità, da mesi anche senza stipendio, ha qualcosa di paragonabile al lavoro degli insegnanti in certe scuole pubbliche. Il caso vuole che mentre trovo in Internet il video della conferenza stampa nella sede de l’Unità, vedo anche un’immagine di Italo Calvino con una sua frase, diffusa dal sito “Docenti senza frontiere”: “Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per i soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”. Basta cambiare una parola e il discorso funziona.
   E’ questo a rendere universale la minaccia di chiusura de l’Unità, che ci riguarda come altre minacce di estinzione in corso: di parchi, teatri, cultura, della pluralità dei linguaggi e dei concetti di realtà, dei beni comuni a torto considerati improduttivi. La prosperità di un Paese viene viceversa dalla capacità di investimenti a lungo termine. Come dirlo in un’epoca in cui i più beceri populismi si compattano con l’economicismo più miope, e il finanziamento pubblico dell’editoria viene interpretato come spreco e non come sostegno alle espressioni che non coincidono, per natura e vocazione, alle esigenze autoreferenziali del mercato? In un mondo dove si fanno i sondaggi prima di dire le proprie idee, come spiegare che la definizione della realtà non può e non deve coincidere con quella del mercato e della finanza?
   Il concetto gramsciano di “unità” è più ampio di una sigla virtuale o di un brand, e il giornale l’Unità è sinonimo di una comunità reale che rimanda a un popolo elettivo (ed elettorale) ancora più vasto, e che da anni si sente, se non orfano di una rappresentanza, quanto meno disamato. La crisi della politica nasce da qui. Come scrivemmo su questo giornale, con le parole di una bellissima poesia di Tiziano Scarpa, “la sinistra italiana non ama il proprio popolo”. L’impoverimento e l’erosione de l’Unità iniziarono forse col lungo stalking esercitato dieci anni fa dai Ds (futuro Pd) contro il direttore Furio Colombo, attaccato come se fosse insopportabile che il giornale andasse così bene.

   I problemi economici de l’Unità, è stato ribadito alla conferenza stampa, sono un fallimento imprenditoriale, non certo di chi il giornale lo ha fatto e fa tuttora benissimo. Basterebbero le pagine di cultura a evidenziarne l’unicità e la bellezza. E’ qui che ho letto ieri il bellissimo testo di Diego Fusaro sul fanatismo cieco dell’economia: “l’odierno sistema globale considera il mondo della vita non come un bene di per sé ma come bene di consumo"; va cambiato il cambiamento, dice, affinché il pianeta non cambi senza di noi. Quando il capitalismo globale guarda una persona, un albero o un giornale, ne vede soltanto il valore economico. Un giornale è un mondo, un incrocio di linguaggi, e sguardi, una moltitudine, non solo un brand. La chiusura dell’Unità sarebbe la sciagurata conferma della folle volontà di adoperare le leggi del mercato come unica legge del mondo, come sostiene chi non crede più alla differenza tra la destra e la sinistra.
   C’è bisogno de l’Unità come c’è bisogno di una distinzione tra destra e sinistra. E c’è bisogno de l’Unità proprio come c’è bisogno di situarsi: a sinistra.


7/06/2014

La vita nuova dei rifiuti (della società)

(La foto è di Barry Rosenthal, l'articolo è stato pubblicato su Repubblica del 6 luglio 2014 col titolo "I rifiuti della società")



   Nel giugno 2010 andai in provincia di Napoli e Caserta per descrivere quello che gli abitanti chiamavano l’olocausto bianco dei rifiuti. Sporgendomi sulle voraginose discariche legalizzate e militarizzate dal governo di allora, guardando le distese di spaventose ecoballe che svettavano come megaliti nella campagna di pomodori e peschi inondata di percolato, mi sembrò che i rifiuti disegnassero una nuova, monumentale e grottesca frontiera del “sacro”. Sacrare, ricordava il filosofo Giorgio Agamben, significa separare dall’uso comune, così come il suo contrario, profanare, vuol dire restituire all’uso comune. Non solo i rifiuti, gli scarti, ma anche le “vite di scarto” dell’omonimo libro di Zigmunt Bauman rimanderebbero a questo orizzonte di senso. Ricordo che mi colpì, come se fosse il massimo dell’insensato e dello scabroso, un oggetto sfuggito a un’ecoballa, nudo e fuori contesto, un flacone di plastica bianca e azzurra con la scritta AMMORBIDENTE. Avevo già imparato che supermercati e discariche sono l’uno lo specchio dell’altro: non solo perché l’edificazione dei primi serviva a creare e coprire le seconde sotto un manto d’asfalto, e così via; ma perché sono fatte della stessa sostanza, nel costante divenire scarti delle merci in vendita.
   E’ passata un’era dallo sciopero dei netturbini a Roma nel 1970, le cui condizioni di lavoro erano disumane, filmato da Pier Paolo Pasolini, che riprese volti e gesti degli spazzini all’alba, l’assemblea ai Mercati Generali, dedicando loro una poesia: «... oggi 24 Aprile 1970/ è giorno di sciopero: l’Ordine degli Scopini è entrato nella storia, / bisogna essere contenti, come se gli angeli / fossero scesi sulla terra…». In perfetta continuità col suo amore per gli umili, l’attenzione di Pasolini a quel rimosso sociale che coincideva col «basso materialismo» di Georges Bataille anticipava la celebre frase di Bauman: “i raccoglitori d’immondizie sono gli eroi non celebrati della modernità”.
   Da allora la letteratura e l’arte non hanno cessato di misurarsi col variegato mondo dei rifiuti. Tra i pettegolezzi della garbology, l’arte di frugare nella spazzatura dei famosi, e le grandi questioni ecologico-ambientali, si trattava di dare il tu ai rifiuti, di guardare in faccia le cose che buttiamo via, da Michel Tournier (Le Meteore) a Don DeLillo (Underworld), passando per Italo Calvino, Paul Auster e tanti altri. Se il tema degli scarti è oggi onnipresente grazie alle estetiche del riciclo, la condizione ontologica di separatezza dei rifiuti e la sua relazione con l’arte fu indagata forse per la prima volta da una mostra al MART di Rovereto, a cura di Lea Vergine come l’omonimo libro: Quando i rifiuti diventano arte. TRASH rubbish mongo (Skira 2006). Quanto al problema della plastica, e a parte l’industria e il design del riuso, neanche qui manca la poesia - dalle drammatiche plastiche bruciate di Alberto Burri, in polemica col piano Marshall e l’inizio dell’americanizzazione delle nostre vite, allo struggente sacchetto di cellophane che danza nel vento in American beauty.
   Ci sono poi i rifiuti “naturali”, oggetti smarriti il cui eteroclita repertorio è espresso in lingua tedesca da una parola bella e strana, Strandgut. I dizionari traducono “relitti”, ma significa esattamente i beni o le cose che il mare lascia sulla spiaggia (strand), quelle che tutti contempliamo passeggiando lungo il mare d’inverno, con cui i bambini giocano da sempre costruendo capanne e altri sogni: pezzi di legno o di tronchi, alghe, conchiglie, pezzi di barca, lattine, bottiglie, oltre che, ancora, tanta plastica. Quegli oggetti ci raccontano storie, spiegava la poetessa tedesca Eva Taylor, e non a caso tanti artisti li raccolgono e per inserirli nelle loro opere.
   Uno di essi è il newyorchese Barry Rosenthal, scultore e fotografo degli oggetti trovati che si vedono qui a fianco. Confesso di avere trovato kitsch il suo tentativo di redimere rifiuti disponendoli in file ordinate, come fanno i bambini con le conchiglie o i maccheroni. Più che salvare il trash delle cose buttate via, mi sembrava che lo producesse, rimuovendone ogni implicazione tragica. Ma Rosenthal mi ha spiegato che un’evoluzione c’è stata nei suoi allestimenti: se prima disponeva gli oggetti in modo sistematico e ordinato, è subentrato un gusto per l’affollamento e la densità, un’apertura al caos e all’incompiutezza. Cerca di comunicare la sensazione che gli danno le cose che trova nell’acqua – bicchieri e posate di plastica, flaconi di medicine, cannuccie colorate, palle da tennis - e stabilire tra loro delle relazioni. Non pretende suggerire comportamenti virtuosi né aprire le coscienze, ma solo “portare alla luce” le cose anonime che buttiamo via.
   Gli oggetti senza più contesto né appartenenza sono pur sempre simboli di una deriva, ed è difficile per noi separare le installazioni degli artisti – abiti dismessi o altri oggetti separati e orfani di un uso – senza pensare alle montagne di occhiali o di scarpe tramandatici dall’iconografia di Auschwitz. Quanto agli oggetti portati dalle onde, che siano nel Mediterraneo o nel porto di New York dove va su e giù Barry Rosenthal, è il mare a conferire loro il pathos avventuroso di un messaggio nella bottiglia. La loro versione più tragica la vidi negli oggetti sommersi e poi salvati dal mare di Ustica, dopo l’inabissamento dell’aereo colpito da un missile il 27 giugno 1980. Prima di stipare quegli oggetti strazianti, irriducibili a un’estetica, dentro casse nere, e sottrarli allo sguardo, li elencai con l’artista Christian Boltanski in un piccolo libro fatto dal Museo per la Memoria delle vittime di Ustica a Bologna.
   Che i rifiuti siano specchio del mondo, come il cielo lo è della terra, lo mostrò ancora una volta Pasolini nel 1967 nel film Che cosa sono le nuvole?. Nell’ultima scena Totò e Ninetto Davoli, attori-marionette buttati dal camion della spazzatura in una discarica, semisepolti dall’immondizia, rifiuti tra i rifiuti, vedono per la prima volta le nuvole informi nel cielo azzurro. “Che cosa sono?” Ninetto ride di stupore, Totò beato le contempla: “Ah, meravigliosa e straziante bellezza del creato!”.

7/04/2014

Mushotoku: nessuno scopo, nessun merito. Per il trentennale di Fudenji...



   «Fatti di terra, non si può perdere né guadagnare terreno… Non si ha mai terra da perdere, perché si è della terra».  Sono frasi di Fausto Taiten Guareschi, monaco buddhista e maestro Zen che insegna con l’accento emiliano, appunto, della sua terra - le colline e la campagna della provincia di Parma dove sorge il monastero di Sōtō Zen Fudenji  di cui è abate e fondatore.
   Riconosciuto come ente di culto, crocevia internazionale di dialoghi religiosi, filosofici e scientifici, per il Giappone e il mondo buddhista Fudenji, che quest’anno compie trent’anni, è un tempio con la vocazione e il compito di preservare e tramandare la dottrina di Shakyamuni Buddha (il Buddha storico) che si trasmette ininterrottamente da maestro a discepolo. Al vecchio rurale che si staglia su uno dei valichi tra Salsomaggiore e Tabiano, col tempo si sono aggiunti nuovi edifici, porticati, camminamenti e giardini segreti, dove si va con apposite ciabatte o a piedi nudi: una delle più belle fotografie di Fudenji raffigura una distesa di ciabatte allineate di fianco all’entrata del dojo (la sala di meditazione zen). Ora, di cosa parliamo quando parliamo di Zen?
   Religione della religiosità, lo Zen custodisce le forme originarie del buddhismo, migrato dall’India alla Cina accogliendo la spiritualità e la cultura del luogo, come il Tao, poi in Giappone. Sinonimo per molti di uno stile affascinante e paradossale, sfuggente come il sorriso dello Stregatto del “Paese delle Meraviglie”, lo Zen è qualcosa che non si riesce mai a definire in modo soddisfacente, né con le parole né col silenzio. Ma Alan Watts, che ne fu il primo divulgatore in Occidente, suggerì che col suo brio e la sua immediatezza lo Zen offrisse “una nuova e diversa possibilità comunicativa che non abbiamo mai davvero esplorato”, per di più alla portata di tutti. Ma occorre rivolgersi ai suoi maestri.
   Fausto Taiten Guareschi, già campione nazionale di judo, aveva vent’anni quando nel 1969, nella palestra milanese di Cesare Barioli, fece l’incontro folgorante con Taisen Deshimaru Roshi. Era, questi, un apostolo zen, un maestro sbarcato due anni prima a Parigi dal Giappone, che in pieno Sessantotto predicava con forza il mushotoku, “nessuno scopo e nessun merito”, nessuna rivendicazione. Cioè la rivendicazione più radicale e rivoluzionaria che si potesse immaginare. Per diventarne discepolo Fausto Guareschi lasciò il judo agonistico e da Fidenza prendeva il treno di notte per Parigi, iniziando così il percorso che lo porterà a ricevere a sua volta il sigillo di maestro zen - il primo europeo - e fondare un tempio in Italia.
   Io vi torno periodicamente, e lo sviluppo di Fudenji ha scandito anche la mia vita. Taiten Guareschi lo incontrai addirittura prima, nella palestra di judo in città dove insegnava “lo Zen”. Vi capitai ragazzo, fresco della lettura di Beat, Zen & altri saggi di Alan Watts e delle poesie di Allen Ginsberg, e non riconobbi niente in quella specie di ginnastica posturale: dov’era il satori, l’illuminazione che immaginavo come un incanto gioioso, forse come l’effetto di una droga naturale? Dov’era la poesia?
   Lo Zen non è un’esperienza intellettuale, è una pratica che insegna a conoscere se stessi, poi dimenticare se stessi. E’ una via (do), che insegna che la propria vita è la propria via. Dovetti aspettare anni perché mi si rivelasse che lo Zen è essenzialmente zazen, essere semplicemente seduti nella complessa, energica postura del loto, che non serve né cerca nulla, tanto meno l’illuminazione, perché la è in se stessa. Che sedersi fosse già il satori, “sedendo e mirando interminati spazi di là da quella”, lo diceva una delle più grandi poesie sul qui e ora, l’Infinito di Giacomo Leopardi. Non mi stupisce che questa poesia, che anni fa condivisi a Fudenji, sia declamata spesso da Taiten Guareschi insieme ai Sutra del Buddha.

   Ora sto camminando col maestro tra le nuove costruzioni nel rigoglioso giardino del monastero, architetture così discrete da risultare quasi impercettibili. Vorrei elencare la varietà delle piante - cedri del Libano, atlantici e dell’Himalaya, gingko biloba, bambù, olmi, gelsi, cipressi, faggi, varietà di aceri e acacie, querce, pini, tamerici, alberi di Giuda, photinia dai fiori bianchi, lagerstroemia o lillà delle Indie, berberis, ligustri, lauri, mahonie, viburni, nandina domestica dalle bacche colorate... ma sono troppe, e mancano quelle che cingono le vere aiuole zen, laghetti di pietre e sabbia a forma di ideogrammi, simboli poetici e dottrinari. Qui tutto è linguaggio - una canna di bambù, un fiore, un gesto, una pietra, una macchia d’inchiostro. E, se non è visivo, è linguaggio sonoro.
   La vita quotidiana è avvolta dai suoni dei diversi tamburi, i legni, le campane, dallo zazen delle 4 di mattina a quando la grande campana esterna avverte che è ora di coricarsi, alle 21. Tutto è ritualizzato, anche la pulizia personale, i gesti senza testimoni. Allo zazen si affiancano il lavoro in cucina, negli orti e nel perenne cantiere edile, i seminari teologici e filosofici, i corsi di calligrafia cinese (shodo, un’arte marziale), di kendo (un’altra arte marziale, quella di tagliare la testa con la spada), o massaggi shiatsu. Forse l’abitare è così dinamico perché è modellato sullo zazen, l’immobilità che contiene ogni movimento, come le montagne che “corrono come montagne” di un classico testo di Dogen Zenji, fondatore nel XIII secolo del Sōtō Zen. A volte monache e monaci vanno  nei paesi vicini a praticare l’arte zen dell’elemosina, e anche questo è un bel paradosso: l’elemosina non si chiede, ma porgendo silenziosamente la cesta a capo chino il monaco offre agli altri la possibilità di donare. Chi ringrazia chi?
   Ricordo quando negli anni ‘90 giunsero a Fudenji filosofi e professori per un convegno su “Zen e filosofia”. Mentre si muovevano esitanti e spaesati il maestro, irriconoscibile nella sua tuta di operaio (che indossa in realtà ogni giorno alternandola al kesa, l’abito da monaco) rimase a lungo chinato a lucidare uno a uno i sassi del giardino. Nessuno se ne accorse, ma il convegno era già iniziato. Che cosa vedevano, che cosa riconoscevano quegli intellettuali in un vero tempio zen, che “uso” potevano farne?
   Tra i tanti incontri e le iniziative che celebrano quest’anno il trentennale di Fudenji c’è la “Cucitura del Kesa del Trentennale”. Elaborazione sontuosa e insieme umile del kimono, il kesa è precisamente l’abito della vocazione monacale, fatto di tanti diversi scarti di stoffa messi insieme. Cucirlo è un’arte zen: non si tratta solo di confezionare un abito, ma uniformarlo da un patchwork di stoffe col filo e la compassione profonda di chi cuce. Il Grande Kesa del Trentennale, che coinvolge tutto il sangha, la comunità, è un’opera epica e insieme elegiaca. Per mesi ognuno ha offerto pezzi di stoffa, in un mosaico di testimonianze. Cucirli è stato una scrittura collettiva, racconto silenzioso e corale, opera tessile e testuale di devozione di un bellissimo indefinibile blu.
   Ho confidato a Taiten la mia associazione di idee: l’enorme bandiera rossa fatta di tante bandiere rosse cucite insieme (l’idea fu dello scenografo Ezio Frigerio) dissotterrata nell’epilogo di Novecento di Bernardo Bertolucci, in un luogo non molto distante da Fudenji. Al tempo stesso capanna, tenda, immenso e festoso aquilone con cui danzare nella corte della casa colonica grande come un villaggio. Coincidenza, Bertolucci lo conobbi proprio qui, ormai tanti anni fa, a parlare del suo film Il piccolo Buddha.
   Tutto questo è naturalmente dedicato alla memoria del vero pioniere dello Zen in Europa, Deshimaru Roshi. Nel 1982, annunciato come “anno della non-paura”, proprio quando doveva partecipare in Italia a una sesshin, un ritiro di zazen organizzato da Taiten Guareschi, Deshimaru morì in Giappone, dove si era recato per farsi curare. Fece in tempo a a far pervenire una lettera:
   «Mi dispiace non essere fra voi. Sono certo che le persone lì riunite sono impegnate in un’onesta ricerca della Via, desiderano scoprire la vera vita che è oltre i limiti del tempo e dello spazio. Quest’attitudine si sta perdendo nella nostra civiltà, diretta soprattutto da desideri egoistici e da ambizioni piccole, limitate. Lo Zen che io vi insegno e che praticherete è ben oltre questi ristretti limiti. Dovete aspirare a una meta illimitata e senza confini, la vostra meta, così vasta da risultare senza-meta, senza-fine: mushotoku».