4/26/2014

Festa della liberazione - degli altri

Vorrei offrire ai lettori un paio di pensieri ancora in corso.
   Il primo nasce dal fastidio per alcuni commenti letti qui e là sul 25 aprile, dove con leggerezza e arroganza si pongono sullo stesso piano i partigiani di allora e i “ribelli” di oggi – dai No Tav a chi manifesta per la casa. Ma c’è una grande differenza tra chi “si ribella” per avere o ottenere qualcosa (soldi, casa, cose, etc.), per rivendicare un diritto (reale o presunto), e chi si ribella non per sé, non per avere qualcosa, non per ottenere soddisfazione o un risarcimento, ma per essere e permettere ad altri di essere, per contribuire a liberare, comunque sia, senza altri scopi né meriti, un mondo al di la di sé, perfino un mondo senza di sé – un mondo che si può immaginare senza il proprio “io”, un mondo nel quale possiamo benissimo essere assenti: ed è questo che furono i partigiani della generazione di mio padre, così come lo furono i combattenti volontari della guerra di Spagna bombardati dai fascisti italiani, come Ernest Hemingway, etc. etc.
   E’ la stessa differenza, credo, tra chi vive religiosamente per avere il premio agognato di un Paradiso, e chi vive evangelicamente senza nemmeno saperlo, senza accorgersene, senza maturare nemmeno inconsciamente un fantasma di credito o di premio per le proprie azioni, ma lo fa solo perché è giusto, pulito e soprattutto naturale farlo. Con bontà che vorrei chiamare “animale”.
   Finché non sarà chiara per tutti la differenza, il mondo sarà di continuo attraversato da tragici ma infantili conflitti di falsi ego, capaci di uccidere e di uccidersi per un giocattolo – per il fantasma ossessivo di un diritto, di un possesso, di una rivendicazione, di una cosa, di una qualsiasi impermanenza.

   Il secondo pensiero lo suggerisce il poeta Carlo Bordini sulla sua pagina Facebook, dove per richiamare l’attenzione sulla nuova ondata di semplificazione che investe ogni ambito, dagli editori che chiedono che i libri siano scritti in modo “semplice”, ai governanti che parlano con slogan di 25 parole ripetute all’infinito, e i cui programmi politici sono composti da dieci, massimo quindici parole, invita a leggere il brano di un articolo uscito tempo fa su l'Unità:
   “Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione – che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria più volte denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce, svuotando di senso il concetto e la realtà di una Repubblica. Il costo umano, sociale culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere irreversibili.”
   Il brano è tratto da un articolo intitolato “La lezione degli studenti” (parlava delle loro lotte), e uscì il 24 ottobre del 2008. L’autore, anche se me n’ero totalmente scordato, ero io stesso. Ma la cosa inquietante è la sua attualità. Rientra nella violenza della semplificazione, oggi, la contrapposizione “prendere o lasciare” tra conservazione e innovazione, dove la seconda per definizione è “di sinistra” e deve per forza essere vincente – e che importa se invece la conservazione riguarda Pompei o la Biblioteca Nazionale, le scuole pubbliche, l’educazione e la memoria. E così la sera del 25 aprile, venerdì, in una trasmissione televisiva, un giovane esponente del centro sinistra irrideva come bizzarria conservatrice la sacralità delle feste (quelle civili) in cui si scoraggia il lavoro, il commercio, il negozio. Che importa, diceva, la memoria del 25 aprile, se un commerciante vuole approfittare della festa per vendere più merce? La sicumera con cui venivano esibite queste parole che mandavano al macero (rottamavano?) decenni e forse secoli di educazione civile, di lenta acquisizione di consapevolezza che ci sono cose “non in vendita”, valori non economici e comunque non monetizzabili, mi stordiva; e pensai che sì,  una nuova barbarie è cresciuta dentro di noi, e niente è più al suo posto. L”irreversibilità di cui sopra è già iniziata da tempo.
   Alla rozzezza del negozio, del profitto a ogni costo, festa o non festa, corrisponde una simmetrica rivolta dei forconi e dei cosiddetti ribelli. Nell’attuale scacchiera sociale senza memoria né orizzonti tutto sembra intercambiabile con tutto. Non c’è differenza, nessuno sembra più capace di immaginare cosa sia un mondo senza se stessi. Alla sola ipotesi, il commerciante come il senza casa, come  il banchiere, come il politico, sono certo che si porterebbe una mano sulle palle, altro che guerra di Spagna: chi se ne frega “per chi suona la campana”, speriamo non per me.
   

4/18/2014

"Comizi di felicità". Una giornata al mare, dal mio panettiere di Ostia


Giuseppe Ungaretti in spiaggia in "Comizi d'amore" di Pier Paolo Pasolini

   Tutte le volte che ho parlato del bel film di Roberto Andò Viva la libertà, con un lapsus lo chiamavo Viva la felicità, come se volessi evitare quella parola abusata e, credo, sopravvalutata (“popolo delle libertà”). Mi accade la stessa cosa cercando un pezzo di Goffredo Parise nel Sillabario n. 2 col titolo Felicità, ovviamente senza trovarlo perché si chiama infatti Libertà: “un pittore americano che pedala una bicicletta giallo canarino sotto i pini di Villa Borghese”. Qual è in effetti la didascalia migliore?
   Gli Americani la vollero nella Costituzione [errata corrige: nella "Dichiarazione d’Indipendenza"] e anch’io penso oggi che felicità sia una parola nuova e rivoluzionaria. Ma cosa significa? Chiedo a Mira, albanese, ex maestra elementare, da molti anni a Roma come babysitter e collaboratrice domestica, se sia felice. “Stamattina sì”, mi dice sorridendo, “perché ho dormito un’ora di più. Mi sentivo riposata e quindi felice, ho preso tutto alla leggera. Altre volte sono in ansia per il ritardo dell’autobus, oggi no”. E’ questo la felicità, avere tempo? “Anche, ma non solo: oggi ho dato un bacio a mia figlia e non mi ha respinto, forse sta cambiando. L’amore di un figlio, capirsi in silenzio, è felicità. Quanto al mondo di fuori, la politica, non c’è nulla che mi piaccia, ma non ha più alcun ruolo nella mia felicità”.
   E io, mi chiede, sono felice? No. Perché? Perché ho paura di non riuscire a esserlo, mi frego da solo. Mi chiede comunque un esempio di felicità. Quando ho visto per la prima e unica volta il famoso raggio verde del sole al tramonto, che credevo ormai non esistesse. Dove? A Ostia. E mi viene in mente che, quando prendo la Via del Mare verso Ostia, mi sento sempre bene. Forse felice.
   Così eccomi a Ostia, quartiere balneare di Roma prossimo alla foce del Tevere e all’aeroporto di Fiumicino. E’ sabato, la luce è perfetta e cammino sul lungomare di ponente, quello più povero, dove si vede ancora il mare. Al ritorno mi fermo a un panificio aperto giorno e notte. E’ un punto di riferimento non solo per il pane fresco e le pizze calde, ma anche per mangiare altre cose.
   Il proprietario, Piero Morelli, già presidente dei panificatori di Roma, mi fermò un giorno per parlare di libri, poi mi mostrò il suo studio, una specie di piccolo museo del pane. Adesso mi parla dell’infelicità nuova che vede dal suo osservatorio, dall’esercizio di un lavoro che consiste nell’accontentare la gente, servirla. “Siamo in un mondo in cui la felicità è effimera, artificiale e imposta dall’alto, ma tocco con mano un disagio mai visto, un’impazienza tesa e sgarbata, una predisposizione a rispondere a una carezza con uno schiaffo. Con gli anziani ancora si parla, c’è chi si abbandona alla confidenza e perfino al pianto, ma i giovani non concedono nulla. La notte soprattutto, aspettando che si scaldi la pizza, una battuta o qualsiasi parola che non sia strettamente di servizio viene interpretata in modo aggressivo. Lo stato attuale dei rapporti tra le persone, visto anni fa in un film, sarebbe sembrato fantascienza”.
   Vede le tensioni e i litigi familiari, le asprezze, la rassegnazione, la tristezza per il futuro incerto dei figli, la cupezza di chi non ha più lavoro a cinquant’anni. “Ho un cliente che lavorava in un’impresa di distribuzione di carburanti, ora farebbe il lavapiatti pur di non subire l’umiliazione di sedersi la sera a tavola senza il coraggio di guardare in faccia i figli”.
      “Io sono felice perché ho i miei anticorpi, Radio Tre la mattina, i libri, le tue Panchine, Ceronetti, Cioran, mio figlio dietro al banco del panificio che ha l’insegna col nome di mio padre, classe 1909, che dormiva sui sacchi di farina di Piazza Venezia di fianco alla chiesa della Madonna di Loreto, protettrice dei fornai di Roma”. (Intanto annoto: è la durata che fa la felicità, il senso narrativo della propria esistenza, antidoto alla logica della precarietà? Interiorizzare già da giovanissimi la paura di non trovare un lavoro mi sembra un’infelicità recente e crudele, chi l’ha creata? Ai miei tempi non avevo un soldo, ma sarei scappato chissà dove pur di non avere un lavoro fisso).
   “Potrei sfruttare del tutto legalmente le opportunità del precariato. Spenderei la metà, ma distruggerei il patrimonio di questa azienda basata sul rapporto affettivo coi clienti, sulla memoria acquisita dal personale dipendente”. Insieme al pane qui si offre gentilezza, conforto. C’è la signora Maria che scende con la vestaglia e chiede lo zucchero. Un senso di comunità che la grande distribuzione, Eataly di Farinetti compresa, che è come uno zoo in cui si va a vedere lo spettacolo del cibo, non può dare. Il fornaio Morelli mi parla invece dei negozi tradizionali, che rispondono a un’esigenza di rapporti col territorio e la vita del quartiere. “Un amico, vedendomi coi miei clienti ha detto che gli sembrava un film di Totò o di Pasolini”.
   E’ un raro esempio di negozio (negotium) che non si contrappone all’ozio (otium), ma lo completa. Oltre ai tavolini fuori, da anni ci sono due grandi panchine, comode e gratuite. Si ha l’impressione di stare su una soglia magica del mondo in cui prima o poi passeranno tutti, il luogo ideale per fare delle interviste, dei “comizi” pasoliniani sulla felicità. Del resto, questo pane ai cinque cereali appena sfornato o questa morbida colomba pasquale sono un esempio profumato e tangibile di felicità. Da una gazzella dei carabinieri scende un vicebrigadiere impeccabile e gioviale. E’ felice? “Oggi più di ieri”, sorride alludendo alla luce quasi estiva. Mi racconta la pena, durante i controlli di routine, delle persone cui sembra cadere il mondo addosso per un’infrazione, ma che viceversa è bellissimo veder rinascere quando la si aiuta e condona. Mi parla dei tentativi di felicità della gente, anche solo uscire dalla nebbia depressiva della città per immergersi nella luce e vedere il mare.
   Ci sono tanti mondi dentro il mondo. A due passi da qui, dove il sindaco Alemanno voleva fare un casinò, c’è la biblioteca Elsa Morante, una chiesa del Sant’Egidio, una comunità di extracomunitari e una moschea. Passa una donna senza età, volto radioso e sereno. “Felicità è la lucidità di comprendere che la vita non è servire i sensi e il mondo materiale, ma l’anima, che è una scintilla del Divino. Sono felice, vivo con altre dodici persone in un tentativo di comunità  intrapreso per fuoriuscire dall’egoismo e avere un destino spirituale comune. Il mondo di fuori influisce, sì, ma come sabbie mobili”, conclude ridendo. Con lei un uomo sui trent’anni, consigliere regionale umbro: “La politica può fare tanto per migliorare le condizioni di vita delle persone, ma ho imparato facendola che non è esaustiva, deve connettersi con una dimensione spirituale. Felicità è rendersi conto di essere una parte, magari infinitesimale, del Creato”. Valeria, avvocato: “Ci si sente felici quando, dopo una perdita o un’interruzione, c’è un recupero dello stato precedente, con una consapevolezza che prima non si aveva, perché si era nello stato naturale, quello senza il senso della perdita. La politica, il mondo di cui parlano i giornali, crea turbamento, ma non influisce sulla nostra felicità di fondo”.
   Il cielo comincia a tingersi di viola e arancio. Mi ha raggiunto un amico poeta, Sergio, ex aviatore che abita qui a fianco (“Sei felice?” “Sì, perché uso lo stratagemma di avere desideri minimi, evitando quelli irraggiungibili”). Nel via vai incontra un ex collega romagnolo, Giulio, pilota ex cassintegrato Alitalia che ora vola sui jumbo cargo di una compagnia con sede a Malpensa. La felicità, dice, è entrare in un panificio a Ostia e trovare un amico fraterno. Qui ce ne sono tanti come lui, versioni aeronautiche di Ulisse, sempre desiderosi di essere altrove. Ma la vera felicità è tornare a casa, dice, l’emozione che prova ogni volta al ritorno dal giro consueto Milano-Osaka-Hong Kong-Baku-Milano, quando scorge le Alpi e cala verso Bolzano. Ama svisceratamente l’Italia e ogni paesino. L’Alitalia, dice, era uno specchio delle sfaccettature del Paese, un patrimonio anche di persone.
   La felicità è qualcosa che ti attraversa come un fantasma, che non potrai mai prendere né possedere, come la memoria del mondo, qualcosa di cui puoi solo fare parte.

(articolo uscito su Venerdì di Repubblica del 18/4/2014)

4/13/2014

Le mie panchine e i suoi freddi imitatori. Un caldo articolo di Paolo Lagazzi confronta stili letterari e saggistici

Riporto qui di seguito un articolo del critico e saggista Paolo Lagazzi uscito oggi, domenica 13 aprile, sulle pagine culturali de l'Unità. A mia conoscenza è l'unico commento ufficiale (di privati ne ho sentiti parecchi) sull'imbarazzante somiglianza del libro recente di un universitario svizzero, Michael Jakob, dal titolo Sulla panchina..." (Einaudi), al limite del plagio - per esempio nel "paratesto" dell'edizione italiana - al mio libro Panchine... (Laterza).


   Tra le molte specie di libri, quelli che amo di più hanno il carattere di luoghi. In essi è possibile abitare. Li si può attraversare nei modi più vari, in bicicletta, a cavallo, in tram o volando, con passi elastici, leggeri o cadenzati con forza; li si può misurare col respiro e coi sensi toccando cose, spostandosi e guardando, alternando le fughe alle soste, i ritmi sostenuti al piacere della lentezza.
   Uno di questi libri, apparso nel 2008 da Laterza [collana Contromano, ora alla quinta edizione], è Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne di Beppe Sebaste, un'opera in bilico tra il racconto, la poesia e il saggio, fra lo schizzo divagante, le quiete meditazioni alla Montaigne e le liriche impennate del jazz. L'autore ci conduce per mano lungo una serie innumerevole di panche, panchine, sedili mostrandoci come questi strumenti creati per il riposo siano tanto più speciali quanto più inappariscenti, capaci di schiudere delle prospettive inedite sul mondo agli amanti della flânerie e delle pause.
  Portandoci tra questi oggetti extraterritoriali, da cui è possibile vedere ogni cosa senza essere visti, o su cui si possono incontrare gli altri esseri umani completamente sciolti dalla morsa dell'”utile” o della fretta, il libro di Sebaste squaderna itinerari del corpo e dell'anima ricchi di una vera sapienza zen. Sedersi idealmente al fianco dell'autore, ripercorrere alcuni dei suoi momenti privilegiati tra Parigi, Sils-Maria, Big Sur o Manhattan, ripensare ai tanti scrittori e registi che hanno evocato panchine nei loro testi e nei loro film, o che hanno saputo immaginare la vita come abbandonati su qualche panchina, è un'esperienza epifanica, un esercizio di ecologia della mente, un'avventura nella leggerezza delle cose gratuite, luminose e ariose in un tempo liberato dal dover essere.
   Debitore nei confronti di Sebaste per molte ragioni (anzitutto per l'idea che le panchine siano oggetti particolari, davanzali sull’altrove, soglie in grado di muovere le traiettorie della visione in modi inconsueti) è senza dubbio il saggio Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell'arte di Michael Jakob (Einaudi, pp. 268, euro 28), noto docente di storia e teoria del paesaggio, attivo in Francia e Svizzera. Come Sebaste, Jakob esplora panchine non solo fra ambienti reali (parchi, ville, giardini) ma anche tra libri, quadri e film. Poiché conosce bene la nostra cultura e parla la nostra lingua, è piuttosto singolare che non ricordi mai lo scrittore italiano, sebbene sia innegabile la loro distanza: innervata dalla libertà poetica, dal respiro intimo e dalla freschezza creativa l’opera di Sebaste, sviluppato in senso teorico il libro dello studioso francofono, con affondi ermeneutici, semiotici, psicologici o ideologici che si possono accostare alle ricognizioni di Panofsky sulla prospettiva, ad alcuni saggi di Starobinski e anche, credo, alla cosiddetta “prossemica”.
   Mentre lo scrittore italiano (a sua volta allievo di Starobinski all’Università di Ginevra e traduttore di Le passeggiate del sognatore solitario di Jean-Jacques Rousseau per Feltrinelli) interpreta la panchina come un'occasione vitale per perdersi e ritrovarsi in un movimento di abbandono rigenerante al mondo, per Jakob essa è anzitutto un dispositivo ottico inventato dagli architetti italiani a partire dal Trecento per pilotare gli occhi degli abitanti delle nuove città, per indurli a contemplare in modo ideale il nuovo spettacolo urbano. Nasce, allora, una "politica dello sguardo", una strategia di prospettive manovrate dal Potere che raggiungerà uno dei suoi apici nei giardini del Settecento, ad esempio quello francese di Ermenonville legato alla memoria di Rousseau.
   Oltre alle panchine-osservatorio orientate verso luoghi simbolici, ne esistono anche alcune diventate a loro volta simboli o icone, punti di convergenza per gli sguardi di intere epoche. Basti pensare alla panchina di Gorki su cui l'ultimo Lenin si è fatto fotografare a ripetizione, al suo valore di propaganda dilatato fino a un'aura sacrale. Altre panchine, come  quelle rappresentate da Manet e Monet in due celebri quadri e da Antonioni nel finale del film L'avventura, ci attraggono, secondo Jakob, per motivi del tutto diversi: per il loro testimoniare sui rapporti tra uomini e donne, ovvero sull'incerta realtà della coppia e dell’eros tra l'Otto e il Novecento. In queste scene sguardi si sfiorano, s’incrociano e sfuggono, mani si avvicinano e si allontanano sulle spalliere di sedili segnati dalle ombre della nevrosi, dell'agguato o del sospetto... Peccato che, da tutto ciò, lo studioso non sappia ricavare altro che riflessioni eleganti ma astratte, fredde e un po' vacue, mentre è ancora a Sebaste che dovremo tornare se desideriamo cogliere la ricchezza vera delle panchine, le loro potenzialità narrative: "ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio...". In altri termini: ogni panchina non merita forse una storia, un sogno, un piccolo mito?
Paolo Lagazzi
(articolo uscito su l'Unità, domenica 13 aprile 2014)

4/03/2014

Per Giorgio Messori

Domani venerdì 4 aprile, a Bologna, si svolgerà questo incontro sullo scrittore Giorgio Messori, scomparso nel 2006. Gino Ruozzi, curatore del raccolta postuma di racconti Storie invisibili e altri racconti, ha scritto una breve e bella nota biografica dell'opera di Giorgio. Fu il mio migliore amico, abbiamo scritto e fatto insieme tante cose, e sono terribilmente impacciato ogni volta che egli diventa oggetto di discorso. Scusatemi. Qui trovate alcuni testi su Giorgio. Su Giorgio, a Roma (23-24 febbraio) e a Reggio Emilia (novembre 2013) si sono già svolti incontri di studio col titolo Io non sogno mai (come un racconto di Giorgio sulla Via Emilia). In particolare a Reggio Emilia il poeta Carlo Bordini disse queste parole.
   A Roma, nell'angoscio dei tempi contingentati, la notte prima del convegno avevo scritto di getto degli appunti su e in memoria di Giorgio, che lessi per stare dentro i tempi. Poi li inserii, nonostante il loro tono quasi trafelato, senza alcuna correzione, come appendice o rewind del capitolo sulla scrittura del mio Libro dei maestri (Porte senza porta rewind) ripubblicato quello stesso anno in una nuova edizione da Sossella - capitolo che già nell'edizione Feltrinelli degli anni '90 finiva con un meraviglioso decalogo sullo scrivere che mi aveva dato Giorgio. Nell'imminenza dell'incontro di Bologna - il cui titolo è dedicato forse ai lavori di Giorgio di descrizione e osservazione del mondo esterno, come nel bellissimo Viaggio in un paesaggio terrestre, scritto e costruito col fotografo Vittore Fossati - vorrei offrire qui, tale e quale, quel testo intimo, gli appunti trafelati che lessi al convegno di Roma quattro anni fa. Non c'è un titolo, solo una dedica. Per  Giorgio Messori.


   Non ho mai parlato di Giorgio, ho sempre parlato con Giorgio. Un parlare che d’altronde non escludeva il silenzio, anzi lo comprendeva e lo esaltava. Il “con” avvenuto con lui, la comunità delle nostre parole e silenzi, che a volte si prolungavano le une nelle altre, l’uno nell’altro, è la parte più importante della mia formazione. Educazione allo sguardo, al pensiero, al formare frasi. Educazione all’esperienza. Parlare di lui, farne oggetto e non soggetto di parole, è più grave che parlare in sua assenza, perché parlavo con lui anche in assenza di lui (è questa la magia umana dello scrivere, rendere presenti gli assenti). Lo abbiamo fatto in un lungo epistolario, per esempio. Scrivere è già sempre un gioco di fantasmi, come sapeva il suo amato Kafka. E in qualunque storia di fantasmi, siamo sempre noi, i fantasmi: gli scriventi, i testimoni.

   Ora qui siamo in un’aula universitaria. Giorgio e io ci siamo conosciuti in un’aula universitaria, a Bologna, alla lezione delle 9 del mattino di Estetica di Luciano Anceschi, a.a. 1978/79. Era l’unico corso che frequentavamo. In Estetica con Anceschi ci siamo laureati insieme, quasi fianco a fianco (in un’altra aula). [Ricordo: qualche minuto prima ci svegliavamo alle luci di un bar, dopo una note insonne e una lettura di poesie in un paesino dell’Emilia, ci facevamo domande, afasici come non mai. La sua tesi era sulle “Poetiche narrative in Peter Handke”, la mia sulla “Poetica del romanzo giallo”. Durante la cerimonia ci eravamo dimenticati di sfilarci l’impermeabile. Un’amica ci ha fotografati, attoniti, all’uscita, con le Tesi in mano. Dopo siamo andati sui colli a dormire e ascoltare musica rock. La canzone di quei giorni era Out of the blue, voce di Neil Young. Quello stesso pomeriggio del 12 novembre 1982 abbiamo fondato davanti al notaio la cooperativa editoriale Aelia Laelia, che si proponeva di pubblicare solo libri organici, necessari e felici, quelli cioè rifiutati dalle case editrici perché nuovi. La sera, un’altra lettura a Reggio Emilia, dove io e Giorgio facemmo insieme una performance quasi improvvisata dal titolo beckettiano “Tutto lo strano via”, con le scarpe in mano e una candela accesa. Era un elenco di frasi... E ora basta coi ricordi, che non finiscono mai].


   Parlo invece delle letture di Giorgio, i suoi veri interlocutori, le sue passioni, gli eroi della sua sensibilità e coscienza, che non ha mai messo da parte.
   Baudelaire e i poeti americani, su cui ci eravamo entrambi svezzati. Beckett, tutto. Kafka, quello dei Diari e dei Colloqui con Janouch oltre che i racconti e i romanzi, e tra i romanzi il grande teatro dell’Oklahoma con cui si chiude America, e l’idea che si possa descrivere un Paese senza visitarlo, e fare uso di quella descrizione come di un vademecum per il visitatore. Il parlare con l’angelo delle poesie di Rilke: la voce di Giorgio che legge per gli amici le Elegie Duinesi, in particolare l’Ottava (che lesse anche al funerale di mio padre) – “La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede / l’Aperto. Soltanto gli occhi nostri son / come rigirati, posti tutt’intorno ad essa, / trappole ad accerchiare la sua libera uscita. / Quello che c’è di fuori, lo sappiamo soltanto / dal viso animale; [...] Libero da morte...”.
   E il parlare con l’Angelo di Walter Benjamin. E Robert Walser, naturalmente, e la filosofia prima della filosofia studiata da Giorgio Colli, i Minima moralia di Adorno, l’aforisma sul verso di Baudelaire “rien faire comme une bête”, “giacere e guardare tranquillamente il cielo”, immagine della pace perpetua e della fine della dialettica, che Giorgio sentiva come un’esperienza fisica, corporale. Le poesie di Vladimir Holan di cui mi fece dono pochi giorni dopo il nostro incontro, Una notte con Ofelia - dove si trova il verso “è sempre il poetico che uccide la poesia”, dove si parla della neve, del silenzio e della “cucina dell’insonnia” - “tanto meno gesti / nulla da mettere in mostra”; e “La Ballerina”, su cui mi scrisse una lettera intensa. Fame di Knut Hamsun.
  Era l’epoca in cui entrambi leggevamo Peter Handke e ci riconoscevamo nella dichiarazione dello scrittore austriaco, rilanciata dal regista tedesco: “La mia via fu salvata dal rock’n roll”. La tasca del suo giaccone dove un tempo teneva sempre una copia dei Temi di Fritz Koch di Robert Walser passò col tempo ad albergare l’anarchico esilarante L’imitatore di voci di Thomas Bernhard, prose brevi del tutto libere, comiche e audaci, dove la finzione era mischiata a nomi di persone reali e viventi, e Giorgio che scoppiava a ridere ogni volta che le leggeva a voce alta, e tentammo di imitarle in un progetto: “L’imitatore dell’imitatore di voci”. La colonna sonora del libro che facemmo insieme, L’ultimo buco nell’acqua, era Rock’n roll Suicide di David Bowie... Anche qui l’elenco potrebbe continuare a lungo, troppo. Ma che cosa hanno in comune le letture, le passioni letterarie e non solo di Giorgio, che io ho condiviso?

   Credo questo: un certo rapporto tra la letteratura (e l’arte) e la vita, e una specie di smania pacata della verità. Giorgio Messori amava appassionatamente e laicamente la verità, l’insorgenza dell’evidenza come rivelazione laica, che è tanto più trascendente quanto più è immanente, come un’epifania che porta a una specie di beatitudine mentale, spesso addirittura al riso. Ma poteva essere “la nebbia color ciliegia” nel cielo di un  tramonto invernale visto alzando gli occhi mentre leggeva un racconto di Jim Ballard che descriveva, appunto, “una nebbia color ciliegia”, perché le frasi lette - come, scoprimmo più tardi, le fotografie dell’amico Luigi Ghirri - hanno “il potere di modellare (mi) una sensazione percettiva fino ad allora sconosciuta”, insomma prestano occhi per vedere il mondo. O come quel suo brano narrativo in cui, mimando La Nausea di Sartre, si stupisce, alla fine di una canzone che esce dal juke box, che “i miei piedi sono ancora lì”. O come in molte pagine di Max Frisch (un altro grande amore comune), e quell’intervista che gli fece Enrico Filippini (stranamente assente dalle raccolte edite dei suoi articoli), sul senso dello scrivere come mezzo di fare esperienze, “fosse anche quello di sapere che cosa si prova ad avere freddo ai piedi”. La letteratura non ha valore, secondo Giorgio, non solo se non riflette l’esperienza, ma se non si fa essa stessa esperienza. Alla cui radice, penso oggi, c’è forse quel veritatem facere con cui si è tramandato lo spirito di Giovanni nel Vangelo, rilanciato dal fondatore dell’autobiografia Agostino, da Dante, da Petrarca su cui Giorgio ha scritto, e rilanciato dalla prosa stoica nel Cinque-Seicento (Montaigne compreso: che, proprio come Giorgio, “non insegnava, ma raccontava”); e, nella nostra epoca, oltre al sempre presente, per Giorgio, Walter Benjamin, è incarnato dalla letteratura detta civile di Max Frisch. Incarnare è la parola giusta: “Evita di pensare col linguaggio”, ha annotato ancora Giorgio parafrasando Handke in suo testo (Il foglio bianco, gli spazi bianchi), “rimani nelle cose e nel loro splendore. Così diventa [il verbo è all’imperativo] il linguaggio reale, così il linguaggio diventa reale”.

  Accanto a questo, in Giorgio si è imposta molto presto una libertà irriducibile, anarchica senza mai essere screanzata, di tendenza senza essere sprezzante né irriverente verso l’altrui credere, ma nemmeno mai compromissoria, mai ambiziosa, etica in modo naturale fino al midollo, ma senza nessun dover essere; a volte perfino parodistica, se è vero che, quando montammo insieme le prose del nostro primo libro dal programmatico titolo (L’ultimo buco nell’acqua) per noi era assolutamente scontato che non saremmo mai andati a pietire un editore, e preferimmo, come nella sintassi narrativa di Robert Walser, la via più lunga e tortuosa, ossia prolungare la comunità del nostro libro plurale inventando con altri amici una casa editrice, Aelia Laelia, una “etichetta” editoriale, dicevamo, una “piccola etica”.
   Ma la seconda volta che ci siamo visti all’università, quel mattino alle 9, inverno 78/79, la lezione annunciata la fece proprio Giorgio, una relazione su Walter Benjamin e Franz Kafka. L’ho riletta. E’ molto bella. Persuaso che mai come nella nostra epoca si fosse compiuta “la trasmigrazione della filosofia nella letteratura e parallelamente della letteratura nell’esperienza filosofica”, in Benjamin - continuava Giorgio - “la costruzione metaforica, il procedere per immagini, non è qualità specifica dello scrittore, ma sostanza stessa del pensiero che si manifesta”. Ancora: “La produzione d’immagini non vuole risolversi in lui nel calco poetico del reale o nell’edificazione possibile di un altro reale, come avviene nella maggior parte dei luoghi strettamente letterari, ma diventa procedimento teso a cogliere l’essenza stessa del reale, la qualità particolare dell’esperienza”. Penso che questo brano descriva con precoce lucidità quello che ha fatto in ogni sua opera Giorgio, lo scrittore Giorgio Messori.
   Questa lucidità che scambiavamo (nel senso proprio di barattare) così spesso e volentieri per una serata allegra, per uno stordimento tra amici; quell’intelligenza che davamo allora per scontata, non hanno mai escluso né impedito una distanza irriducibile, per Giorgio più ancora che per me, dall’istituzione accademica, da quella che chiamavamo, citando Kafka, “la schiera degli uccisori”: “Strana, misteriosa, forse redentrice consolazione dello scrivere: uscire dalle fila degli uccisori, osservare i fatti”. I lavori di descrizione della via Emilia prima, grazie a Luigi Ghirri e Gianni Celati, poi altri analoghi, furono per noi una vera salvezza, oltre che i primi soldi guadagnati con la penna. Giustificarono questa passione minoritaria, indipendente, dell’“osservare i fatti”. Giorgio ne fece un mestiere magistrale. Ed è sempre questa sua idea dello scrivere come “uscire dalle fila degli uccisori” a rendere arduo, per un critico onesto, ogni parlare di lui.

   Ho naturalmente pensato a Giorgio, e a queste giornate dedicate a lui gremite di specialisti, quando alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un sito Internet nell’intervento di uno scrittore che stimo sull’etica e la scrittura, criticato dai commenti on line con terminologie di critica letteraria in cui spiccava, oltre all’accusa di dannunzianesimo, quella di “vitalismo”. Finché qualcuno, un anonimo, ha scritto: “Se davvero la vita fosse una cosa e la letteratura tutta un’altra cosa, non me ne fregherebbe proprio nulla. Della letteratura, intendo”. E io mi sono sentito assolutamente, intimamente d’accordo con lui. E so che Giorgio sarebbe stato intimamente, assolutamente d’accordo con lui. Del resto, come ha suggerito un altro lettore, tutto quello che la critica letteraria dice sui testi non lo direbbe mai la critica musicale sulla musica. Come si potrebbe rimproverare a Bob Dylan, ai Rolling Stones o ai Velvet Underground di essere vitalistici? Sto sempre parlando di Giorgio, per il quale la musica era molto importante.
  La sua distanza dalle aule dell’Università (a parte il meraviglioso stralunato mondo del melting pot sovietico della “Università delle Lingue e della Diplomazia” di Tashkent, dove insegnava Italiano e dove mi invitò anni fa a fare dei seminari), è simile al disagio che provava verso la critica letteraria, a sua volta frutto della consapevolezza, pur nel piacere irrinunciabile del leggere e scrivere, dell’irrilevanza dell’essere scrittori e del fare letteratura. Irrilevanza non significa sminuire l’importanza che accordava allo scrivere come esperienza privilegiata dello stare nel mondo, di vivere e di sopra-vivere, e di vivere meglio.
   C’era (c’è) indubbiamente, e rivendicata (lo ribadisco), una vocazione minoritaria in questa esperienza della letteratura, e anche questo si accorda a Kafka (il Kafka della letteratura minore riletto da Deleuze), e agli altri autori che amava. Una politica minoritaria. Una protesta ironica e sommessa, una libertà e una gioia senza scopo, come quella dell’autore di Mes amis, Emmanuel Bove, che scoprimmo insieme, che tradussi poi in italiano mentre il suo amato Handke traduceva in tedesco (mentre Giorgio tradusse il boviano viaggio di Peter Handke tra i grattacieli della Défense a Parigi). La scrittura di Giorgio è volutamente, naturalmente delicata (non “garbata”, come è stato detto), capace di versare tonnellate di senso con una o due parole, come gli disse Tondelli nel periodo in cui Tondelli aveva fortuna facendo proprio il contrario (quando in generale si pubblicavano tonnellate di parole, a volte quasi delatorie, per una manciata di senso). Anche la sua fragilità era rivendicata, forse all’insegna di quel verso stupendo di Vladimìr Holan che mi passò Nicolas Bouvier (autore pure molto amato da Giorgio): “Ciò che non trema, ciò che non vacilla, non è solido”. Solo ciò che è fragile è davvero solido.
   Sulla fragilità ha scritto Giorgio, molti anni fa:
   “C’è un racconto di Thomas Bernhard che amo molto. Parla di un carcerato che si alza di notte per scrivere dei racconti, delle storie. ‘Lo scrivere’, scrive Bernhard, lui lo chiamava ‘il mio passatempo’, e gli veniva come agli altri vengono i sogni, e come i sogni era fragile”. Leggo queste frasi dal testo di Giorgio sul pieghevole per la presentazione de L’ultimo buco nell’acqua a Roma, Teatro dell’Orologio, 1983. Così continua:  “Chiunque scriva sa perfettamente quanto questo stesso fatto, cioè l’estrema insicurezza, la fragilità di cui parla Bernhard, oppure pensare di non essere scrittori, il terrore di fallire qualcosa che sembra essenziale per la propria stessa vita, sia forse il motivo principale per cui uno scrive”.
   Il testo di Giorgio finisce con un apologo su una ragazza che in treno, davanti a lui, con gesto aggraziato si sfila il golfino che teneva sulla maglietta bianca. Lui la osserva, e pensa che esiste una parola per dire quella maglietta che si indossa sulla pelle, e forse anche il gesto di lei, l’atmosfera stessa che si è creata nello scompartimento, ma non la trova, pur cercandola per tutto il viaggio, pur sapendo che a partire da quella parola avrebbe voluto scrivere un racconto. Poi però pensa – e questo pensiero è una delle fulminazioni pacate di Giorgio, che non sfuggì a Luciano Anceschi (che ci propose proprio a partire dalla frase che ora dirò di tenere un corso sulla scrittura narrativa all’Università di Bologna, corso che naturalmente non tenemmo mai), “poi pensai - scrive Giorgio – “che potevo scrivere (probabilmente questa è una delle ragioni del mio andare verso la prosa,) anche se non trovavo, o mancava una parola”.
   Scrivere perché non abbiamo, non troviamo la parola giusta. Scrivere perché le parole ci mancano, scrivere perché non riusciamo a dire, e forse non riusciamo nemmeno ad amare, a desiderare, a chiedere, a prendere, e ancora a dire. Scrivere perché siamo inadeguati, scrivere perché siamo perduti, scrivere perché manchiamo. Questo Giorgio aveva imparato prestissimo a insegnare. Nel periodo in cui un altro scrittore, Raymond Carver, che come Cechov amavamo al punto di provare dei brividi alle sue pagine e alle sue frasi, nel periodo in cui la sua fama (di Carver) si era così estesa che si richiamavano a lui tirandolo per la giacca autori che vistosamente non avevano nulla a che fare con la sua umile sobrietà, intraprendenti autori che aprivano scuole di scrittura e giovani holding, Giorgio mi raccontò questo episodio di quando Carver insegnava scrittura creativa. A un allievo che gli chiedeva consigli su come finire un racconto, Carver così rispose: in qualunque modo vada a finire la storia, ricordati sempre di non far mancare il latte ai bambini, la mattina.

   Niente e nessuno mi toglierà dalla testa che questa frase, questo tono, questa semplice enunciazione etica, siano il tono, la voce, la verità intima e umana di Giorgio, dello scrittore Giorgio Messori.

(tutte le fotografie sono degli anni '80)