11/24/2013

Adelphi, cinquant'anni di libri color "pastello"



   In un suo “pensiero” Giacomo Leopardi ironizza, molto cortesemente, sulla “bella e amabile illusione” delle ricorrenze, secondo cui “i dì anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare con essi più che con qualunque altro dì dell’anno, paiono avere con quello un’attinenza particolare, e che quasi un’ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti”. Non ci imbarazza quindi celebrare forse per ultimi il cinquantesimo anniversario della casa editrice Adelphi, dedicandole un ammirata testimonianza di lettori e i nostri auguri. D’altronde, le parole leopardiane citate sopra a memoria le ritrovo al paragrafo XIII dei Pensieri di Leopardi editi nella Piccola Biblioteca Adelphi, con una tipica copertina rosa corallo o rosa pesca, non saprei decidere.
   Ecco, già nei colori delle iconoclaste copertine Adelphi riconosciamo una nota inconfondibile dei nostri scaffali, libri che perfino i più esigenti e problematici ordinatori di biblioteche, di solito più competenti e saggi dei critici di prpfessione (l’arte di disporre i libri non ha soluzioni definitive, solo la pazienza di sistemazioni provvisorie e approssimative) cedono a volte alla tentazione di sistemare i libri Adelphi senz’altro metodo che la comune appartenenza, come i venditori di mobili e i non lettori che sistemano i libri secondo il colore delle copertine. Ma anche questa soluzione, un tempo irrisa dai colti, viene dialetticamente redenta nell’idea adelphiana del catalogo editoriale come forma, libro dei libri, di libri che stiano bene insieme tra loro anche nelle diversità, secondo la teoria del buon vicino evocata spesso da Roberto Calasso.
   Tornando ai colori delle copertine Adelphi, è importante notare che non si tratta mai di colori assoluti, o saturi, e che siano invece tutti interpretabili, “pastello”, colori al limite marginali, minoritari, identità non rigide ma flessibili -  ceruleo, lilla, violaceo, lavanda, sabbia, malva, verde pastello, salmone chiaro, etc. Non sono un esperto, ma nella gamma dei colori adelphiani trovo la promessa mantenuta di quella libertà e rottura degli steccati ideologici che ispirò il fondatore Luciano Foà (consigliato da Roberto Bazlen), in polemica con una certa “monotonia editoriale di sinistra”. Quando, per capirci, il non fare esternazioni manifestamente di sinistra e il pensare pensieri inattuali equivaleva a essere considerati di destra. Il colore, si sa, connette con tutti gli altri sensi, connette sfera cognitiva e sfera emotiva, promuovendo quella generale interconnessione di tutto con tutto che è la letteratura, oltre che il metodo di Gregory Bateson, una delle grandi menti del XX secolo a cui tutti dovrebbero guardare (soprattutto i politici), il cui Verso un’ecologia della mente Adelphi pubblicò già nel 1977.
   Di questa connessione universale che coincide con la letteratura la rete, nel senso del web, è invece spesso un’ambigua e ostile parodia. Roberto Calasso ha scritto un articolo appassionato sul New York Times in polemica risposta a Kevin Kelly di Wired, che preconizzava con malcelata soddisfazione la sparizione del libro di carta a favore dell’e-book, e proprio a partire dalla sparizione delle copertine. Le copertine sono la pelle del libro, ha detto Calasso, e quindi la prima cosa ad essere scorticata da nemici e detrattori. Il testo è raccolto nel bel libro recente di Calasso, L’impronta dell’editore (Adelphi). L’odio verso l’oggetto libro che viene da un certo mondo del web è in fondo “una profonda e giustificata avversione, perché il libro corrisponde a una modalità della conoscenza incompatibile con quello propugnato dalla rete, che è la conoscenza come protesi, l’occupazione della mente con uno sciame di bit digitali, esattamente l’opposto di ciò che è la conoscenza in senso metamorfico, che trasforma cioè il soggetto che conosce”.
  E’ buffo, finora abbiamo parlato solo o quasi di copertine. La casa editrice Adelphi nacque nel 1962 per iniziativa, come abbiamo detto, di Luciano Foa (uscito dall’Einaudi col pretesto di un litigio sulla pubblicazione delle opere integrali di Nietzsche a cura di Giorgio Colli) e Bobi Bazlen, ma i primi quattro libri uscirono l’anno dopo, cinquant’anni fa: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, le opere teatrali di Georg Büchner, il primo volume di tutte le Novelle di Gottfried Keller, Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo: si noti, fin dall’inizio dunque, l’insieme di libertà, imprendibilità e qualità inattuali delle scelte che caratterizzeranno il catalogo editoriale Adelphi. Roberto Calasso vi collaborò dal 1967, per diventarne poi direttore editoriale e autore della casa. Dagli anni ’70 il marchio Adelphi era ormai noto: Hermann Hesse e Joseph Roth (in nessuna stanza di studente mancavano Siddharta e La leggenda del santo bevitore), letteratura mitteleuropea (Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki uscì nel 1965) e Indiani d’America (Alce Nero parla di John G. Neihardt, 1968), Robert Walser e Antonin Artaud, Il libro dell’Es di Georg Groddeck (1966) e Lezioni e conversazioni di Ludwig Wittgenstein (1967), i Quaderni di Valery e La sapienza greca di Giorgio Colli, Elias Canetti e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig (1981) e così via, fino alle opere di Nabokov e a quelle di Simenon, i romanzi (postumi) di Guido Morselli e quelli di Giorgio Manganelli, e dal 1981, con Perturbamento, le opere del grande Thomas Bernhard, che ai miei occhi, o meglio alle mie orecchie, incarna al meglio lo spirito Adelphi: una scrittura complessa e irriducibile, irriverente e a suo modo consacrata, capace di rifondare in modo assolutamente non-ideologico il concetto stesso di avanguardia, con una totale dedizione alla sintassi e alla verità – scomodissima, appunto - della letteratura. Senza trascurare la mitologia classica e la spiritualità orientale, soprattutto quella indiana (in coincidenza con l’interesse personale dello scrittore Calasso). Ognuno può sfogliare la propria memoria del tempo scorrendo le pagine di Adelphiana, un volume-catalogo pubblicato in occasione del cinquantenario.
   Se i libri Einaudi li riconoscevi dall’odore, ed era un’aroma eccitante di impegno e di costruzione di sé, attualizzata dalla politica, tutt’uno col sentimento di appartenenza al fronte frastagliato dei ribelli, i libri Adelphi erano un’esperienza diversa e complementare, innanzitutto tattile e visiva (la pelle delle copertine, ancora una volta), poi un invito destrutturante al sogno e all’immaginazione, come la siepe dell’Infinito; un altro indirizzo dell’intelligenza, non superiore ma più esoterico. Ma non sentivamo all’epoca nessun conflitto (parlo degli anni Settanta e Ottanta).
   Un ricordo intimo: ore trascorse in luoghi diversi, col mio amico Giorgio Messori, a leggerci e rileggerci a voce alta i nostri adelphini preferiti, che tenevamo sempre nella tasca del giaccone, I temi di Fritz Kocher di Walser e soprattutto L’imitatore di voci di Bernhard, ,e non riuscire a smettere di ridere. Il libro più commovente della collana? Uomini tedeschi di Walter Benjamin, monumento stoico all’antiretorica, all'inerme luminosa verità, ancora una volta, della letteratura.
(articolo pubblicato su l'Unità di domenica 24/11/2013)

11/22/2013

After Shining, appunti su Stephen King

(Nella foto, Stephen King nel tour promozionale di "Doctor Sleep" a Parigi, alcuni giorni fa. Articolo pubblicato su Venerdì di Repubblica di oggi, 22 novembre 2013, con un'intervista a Stephen King di Antonella Barina)


  Che Stephen King sia una star conclamata e un marchio sicuro del genere horror non deve nascondere il fatto che sia un grande scrittore del nostro tempo, autore di romanzi raffinati e godibili che hanno rotto le barriere tra letteratura alta e narrativa popolare. Pescando a caso tra i titoli degli ultimi dieci anni, Buick 8 era una specie di metaromanzo intorno a un oggetto alieno e inspiegabile; Colorado Kid, un giallo,  decostruiva il mondo delle notizie giornalistiche per approdare all’indeterminatezza del concetto di evento; La storia di Lisey partiva dalla poetica dell’archivio (gli appunti lasciati alla vedova da uno scrittore morto molto simile a Stephen King) per fare ipotesi sulla natura aliena dell’immaginazione narrativa; Duma Key raccontava una rinascita e una conversione, The Dome parlava di politica fingendo di parlare di fantascienza, e il bellissimo 22/11/63 (data dell’assassinio di John Kennedy), reinventa il viaggio nel tempo con uno straordinario affresco di un’epoca, un passato non remoto ma prossimo, e per questo ancora più perturbante.
 Il principale talento letterario di King consiste infatti nel produrre suspense raccontando la vita comune, la nostra, ma evidenziando qui e là i tocchi e le pennellate non abbastanza nascoste di inquietudine e di insondabile malvagità, additando le crepe più sottili e per questo scabrose nella superficie liscia delle cose. Quello insomma che Freud chiamava l’Unheimlich, il perturbante, o “inquietante famigliarità” – procedimento che l’arte contemporanea ben conosce. Nessun autore realista della nostra epoca ha saputo raccontare la vita ordinaria e la commedia umana di una città come Derry, Maine (teatro di It e di molti altri romanzi di King), descrivendo interni con famiglie, scuole, centri commerciali, facendo scorrere minuziosamente la normalità mentre il lettore senpre più allertato attende l’inevitabile apocalisse, il turbamento dell’ordine.
  Altre volte l’ordine è già capovolto, e in The Dome, dove il bene e il male si scontrano in un microcosmo, una città tagliata fuori dal mondo da una cupola trasparente e insondabile dove vediamo come nasce una dittatura. Oppure in 22/11/6, dove la vita di bar, autobus, sale di scommesse e college, descritti con un senso di lutto immanente mischiato a nostalgia, sono visti col pathos clandestino del protagonista che viene dal futuro per cercare di fermare Lee Oswald, l’assassino di Kennedy, ma vive anche un’impossibile storia d’amore al ritmo del primo rock di Little Richard.
  Ci sono infine romanzi che dalle crepe perturbanti della realtà prendono direttamente le mosse, ed è il caso di Doctor Sleep, il seguito di The Shining. Parla di Danny, il figlio di Jack Torrance, lo scrittore alcoolizzato di Shining (1977), guardiano d’inverno dell’Overlook Hotel sulle montagne del Colorado, posseduto dai dèmoni. Danny aveva cinque anni quando sopravvisse alla furia omicida del padre grazie alla “luccicanza”, lo shining, forma di preveggenza e di sensibilità psichica. Ma che ne è stato di lui, e che ne è oggi, dopo tanti anni?
  E’ diventato il Doctor Sleep, appunto, uno strano terapeuta che accompagna dolcemente alla morte, grazie al dono della medianità, gli anziani della Rivington House, un ospizio in cui è ambientata buona parte della storia. All’origine dell’idea, ha confessato King, c’è la notizia che tanti di noi hanno letto anni fa sui giornali del gatto che in un ospedale inglese si accoccolava immancabilmente sul letto del paziente che sarebbe morto di lì a poche ore, senza altri segni premonitori. Nella Rivington House di King gli spostamenti del gatto sono diagnosi infallibili, e quando accade viene chiamato Dan Torrence, il Doctor Sleep, capace di vivere insieme ai morenti il trapasso. Il capitolo quarto racconta il primo di questi passaggi con la delicatezza narrativa del miglior King, con l’elenco dei momenti “fatidici” della vita del morente, vere e proprie luccicanze, come “le pagliuzze d’oro dei momenti felici” del Gattopardo di Tomasi da Lampedusa. 
  Ma questa è solo la situazione di fondo. Tutti o quasi i romanzi di King mettono in scena il conflitto tra il bene e il male, ma gli eroi del bene sono sempre persone che trovano la loro forza, la loro arma segreta, nella propria debolezza, in tutti i casi lontano anni luce dal modello di adulto macho, civilizzato e vincente: bambini o adulti infantili, donne sole e portatori di handicap, “scrittori” affetti da alcoolismo o dal morbo di don Chisciotte. Doctor Sleep racconta le tappe principali della vita dell’ex bambino Dan, che passa anche attraverso la lotta contro i fantasmi (in tutti i sensi) dell’Overlook Hotel, e contro l’alcoolismo ereditato dal padre, con l’aiuto dell’Anonima Alcoolisti. Danny dovrà vedersela ora con una banda di nomadi assassini, dèmoni (empty devils, “diavoli vuoti”) che si nutrono di sofferenze terminali (“mangiano urla e bevono dolore”), e mirano a uccidere esattamente quelli che, come Dan, hanno il dono  dello shining. E della dolcezza.

11/20/2013

Preferisco Witttgenstein, e Thomas Bernhard [Letteratura: allargare la coscienza non è un gioco a premi]

   Provavo già disagio anni fa vedendo in edicola la pubblicità di dispense, vendute coi maggiori quotidiani, che istigavano a scrivere, anzi a diventare scrittori, con testimonial di prestigio come Roberto Saviano; i quali si dimenticavano però di dire che non si scrive per diventare scrittori, ma per diventare altro, per spogliarsi, non per addobbarsi di qualcosa, e forse soprattutto perché è rischioso farlo, non perché si è incoraggiati e premiati.
   Non c’è poi nulla di innocente nell’istigare a scrivere se la valorizzazione della letteratura, ammesso che si possa ancora chiamare così, non è che il pretesto intercambiabile con altri per affermare i valori già dominanti del successo sùbito, del profitto economico e del potere dato dall’apparire. Quello stesso apparire enunciato come massimo precetto da Lele Mora e Fabrizio Corona (due delle cozze, forse nemmeno le peggiori, abbarbicatesi agli scogli del berlusconismo) nell’agghiacciante affresco della nostra epoca che è il film Videocracy di Erik Gandini.
   Ma, dopo anni di conclamato degrado morale e antropologico, tutto continua a essere fatto della stessa pasta. L’estetizzazione della realtà modellata sullo spettacolo televisivo, dopo aver fatto della politica una corsa alla ricchezza e al potere personali, dopo aver trasmutato le idee in merci di consumo che, prima di essere proposte al pubblico, devono essere verificate da sondaggi di mercato (sic!), ha dilagato come un blob sradicando ogni opposizione culturale. Chi ha la responsabilità e il privilegio di rivolgersi al grande pubblico si guarda bene dall’andare contro i valori e i codici dominanti (ciò che invece fa ogni giorno, suo malgrado, qualsiasi insegnante di lettere a scuola). Ma che gli stessi metodi possano contaminare l’ultimo spazio gratuito di pensosità e di autonomia, quello della letteratura, che è in sé un’opposizione culturale per natura, è un’idea triste, come un ennesimo guasto ecologico.
   Trent’anni fa Gilles Deleuze descriveva la “giornalistizzazione” degli intellettuali e il “pensiero da tv”, e nel suo ultimo romanzo (Qualcosa di scritto) Emanuele Trevi accenna alla recente riduzione di tutta la letteratura alla sola narrativa, ma la realtà è più violenta: un radicale assoggettamento di ogni scrittura alla “comunicazione”, ovvero alla pubblicità. L’influenza, il senso di accerchiamento è tale che anche scrivendo un commento su un giornale mi sembra a volte di cedere alla generale corruzione delle parole orientate a uno scopo, che offuscano la coscienza. Scrivere, fare letteratura (come altre arti) non significa invece, come ricordava Allen Ginsberg, “allargare l’area della coscienza” – la propria e, se possibile, quella degli altri? Essere scrittori significa, credo, preservare, affermare nuovi spazi, sperimentare usi affrancati della lingua, forme irriducibili al dominio economico-pubblicitario. Sottomettere ogni ideologia al rischio della verità della letteratura, non il contrario.
   Alcuni anni fa, dialogando in pubblico con Christian Salmon, fondatore del Parlamento degli scrittori di cui fu presidente anche Salman Rushdie, ci si chiese come possa la banalità del potere fagocitare e banalizzare a sua volta “l’atto solitario più indipendente e sovrano, il più autentico, il meno soggetto alla pressione sociale, alle convenzioni, alla morale”. Non pensavamo allo scrittore engagé, ma a una resistenza diversa e irriducibile, vicina all’intransigenza di Flaubert e al mutismo di Beckett. O, oggi da noi, alla postura etica e all’invisibilità di Gianni Celati.
   Per questo, dopo che mi hanno raccontato la trasmissione-spettacolo sugli aspiranti scrittori fatta da scrittori già “aspirati” (uno dei quali un amico), inauguratasi domenica sera su Rai Tre, ho sentito il bisogno di rileggere tutto d’un fiato un librino a portata di mano, l’ottima traduzione di Goethe muore di Thomas Bernhard, così, per immergermi in una sintassi irriducibile, delirante e risanatrice - la storia dell’impossibile incontro, così lontano dall’oggi, tra il grande romantico tedesco e il filosofo Ludwig Wittgenstein, per discutere insieme “il dubitabile e il non-dubitabile”.

(articolo uscito il 20 novembre 2013 su l'Unità)

I miei auguri per gli 80 anni dell'Einaudi

   Uno degli ultimi libri che ho letto, guarda caso targato Einaudi, è il romanzo Levels of Life di Julian Barnes, “Livelli di vita”. E’ organizzato intorno a un espediente poetico molto vicino alla vita vera: “Metti insieme due cose che insieme non sono mai state; a volte funziona e a volte no”. Metti insieme due cose, o due persone, che non hanno niente a che fare l’una con l’altra, che proprio non c’entrano. Ecco fatto: metti insieme la casa editrice Einaudi, quella di Vittorini, Calvino, Robbe-Grillet, quella di Beckett con le copertine di Bacon, di Ripellino e di Dylan Thomas, dei saggi di Marcuse, Adorno, Benjamin e Malcolm X, delle collane Il Politecnico, i Paperbacks, gli Struzzi, i Saggi dal bordo arancione, i Coralli, dell’Einaudi Letteratura col libro Idem di Giulio Paolini, delle poesie di Holan, quella i cui libri li riconoscevamo dall’odore, quella delle benemerite agenzie rateali Einaudi che ci permettevano di comprarli; con il padrone delle televisioni commerciali, dei giochi a premio e delle ballerine nude, quello di Videocracy insomma, oltre che della P2 e dello stalliere di Arcore.
   Parlare dell’Einaudi, per la mia generazione, vuol dire parlare di un elemento importante della propria formazione, quel genere di cose in cui ai primi posti c’è Bob Dylan, per intenderci. Ora, come è potuto accadere che la casa editrice Einaudi sia finita nella sfera delle attività e delle proprietà di uno come Silvio Berlusconi, l’imprenditore più agli antipodi della letteratura e dell’esercizio del pensiero, lo stesso che col sorriso sfacciato e sprezzante diceva che il dottor Fellini era fuori dalla realtà, all’epoca dell’ultima battaglia culturale in Italia, quella di Federico Fellini sulle interruzioni pubblicitarie dei film d’autore?  E’ successo, ed è così strano che ci si potrebbe scrivere un romanzo (di fatto ne ho appena finito di scrivere uno quasi su questo).
   Il fatto che l’Einaudi sia rimasta l’Einaudi, nonostante tutto, è uno di quei miracoli ecologici che fanno sperare nella tenuta del pianeta.
(testo leggibile anche nel sito Einaudi, qui)