12/31/2008

"Io e mio padre". Incontro con Christian De Sica

(In attesa di metterlo nell'apposita sezione del mio sito, ecco l'incontro- intervista con Christian De Sica che appare oggi su l'Unità. E con questo, buon anno, buon passaggio 2008-2009 - soprattutto non cascateci dentro, nella fessura tra i due anni).

“Mio padre era comunista, e andava a dirigere Umberto D. col panama bianco come Puccini, le ghette e il principe di Galles. Aveva un enorme carisma, come quando a Napoli girando un film con la Loren e Mastroianni chiese silenzio col megafono alla folla vociante. Alla fine disse “Grazie”, e centinaia di voci risposero “Prego”. Un altro lo avrebbero preso a pernacchie, lui no. La gente sentiva che era uno in buona fede, una persona seria. La verità vince sempre. Ora siamo un popolo di rincoglioniti”.
“Cesare Zavattini è stato il mio padrino. Quando da ragazzo gli chiesi che libri leggere, mi disse: Il Capitale. Era il più grande sceneggiatore di cinema, e viveva in due camerette vicino alla Nomentana. Il 50% del denaro che guadagnava lo dava al Pci. Mi portò una volta a Luzzara a casa di Ligabue, i bambini uscivano dalla sua casa gridando: “Ha mangiato il topo!”, dentro c’era lui, aveva appena dipinto una delle sue famose motociclette rosse. A Parigi andavamo di notte con una lampadina a illuminare le vetrine delle librerie. Ma Zavattini si vergognava delle commesse, e mandò mia madre a comprargli una cravatta che gli piaceva. Era un uomo eccezionale, ogni volta che uscivo da casa sua pieno di entusiasmo”.
Sono seduto con Christian De Sica nella casa che fu già del padre Vittorio. Parla in modo così affettivo che viene il dubbio stia recitando. Ma importa? “L’attore è una puttana”, dirà lui stesso, soprattutto il comico. Resta che far stare in un articolo un’intervista a De Sica, e la lettura del suo libro di ricordi e aneddoti Figlio di papà, così ricco che ubriaca, è come per un cavallo pisciare in un bicchierino da liquore (questa è una citazione da Gadda, non da De Sica).
Christian parla di quando “la sinistra era meravigliosa: gli uomini di quell’epoca sono in estinzione. Gli italiani sono cambiati anche fisicamente, il nostro è ormai un paese cafone. Ricordo mio padre con la carrozzella comprare la treccia in via del Corso la domenica, e i fiori per mia madre, perché a quei tempi si offrivano i fiori alle donne. Ricordo Aldo Fabrizi esclamare: “Aho, è domenica, oggi c’è il pollo!” Pensa che ottimismo c’era nel nostro paese!”.
“Sono un uomo di sinistra. In un articolo su l’Espresso scrissero che la pubblicità era in genere di sinistra, tranne quella del vigile Persichetti interpretato da me, quella è di destra. Perché si tratta di un vigile urbano? Quanto ai soldi che fanno i “cinepanettoni”, sono quelli che permettono poi di fare film bellissimi come Gomorra. In Italia la sinistra ha il complesso del padreterno, è incapace di prendersi per il culo, e dimostra solo che siamo fragili. E’ un’Italia disastrata, infantile”.
Se i personaggi dei suoi film “di Natale” sono misogini, mascalzoni, puttanieri, un teatro di burattini che ricorda la galleria di italiani interpretati da Alberto Sordi (e su cui manca una vera analisi), confesso di essere stato spettatore ammirato del musical di Christian De Sica Parlami di me, omaggio al padre e agli autori del varietà italiano, come Garinei e Giovannini. Guardandolo pensavo al provincialismo italiano che ci porta ad applaudire i musical americani e a snobbare i nostri. “Quello spettacolo”, mi dice Christian, “aveva il santo protettore di papà che mi guardava dall’alto. Il momento più bello è quando mi siedo e parlo con lui. E’ lui mi ha insegnato il mestiere, e soprattutto ad amare le persone umili, la dignità della gente per bene”. Il figlio Brando, 25 anni, laurea in regia a Los Angeles, ne ha tratto un film, più fresco e stringato, e Rod Marshall, l’erede di Bob Fosse, autore di Chicago e ora di Nine, musical ispirato a Fellini, dopo averne visto uno spezzone voleva Christian nel cast con Nicole Kidman e Daniel Day Lewis. “Non ho potuto accettare perché le riprese coincidevano con Natale a Rio. Mi è rimasta la soddisfazione di essere chiamato da quel grande coreografo”.
Anche il libro Figlio di papà (Mondadori) è montato come un varietà. “Non è una sòla, il solito libro del comicone, non dice solo cose spiritose, ma alcune verità sul ‘come eravamo’. Gli amici che ascoltavano le mie storie a tavola dicevano: non ti rendi conto, sei una miniera, queste cose non le sa nessuno, devi scriverle. L’ho fatto. Sono stato figlio di un vecchio, nato nel 1901, perso a 23 anni, pensa quante cose potevo chiedergli e non ho fatto in tempo. Ma ho avuto la fortuna di avere un padre speciale che mi ha raccontato quello che un nonno avrebbe raccontato al nipote”.
Certi racconti sul padre hanno un valore esemplare. “La realtà è sempre più affascinante della menzogna. Fare film di fantascienza, parlare del passato o del futuro è più facile che raccontare il presente, la verità. Mio padre e i suoi amici erano bravi perché hanno sentito il bisogno di dire la verità. Nel libro - quando racconto del whisky con ghiaccio che mio padre beve mentre sta per morire, mi dice le bugie, ma fa capire la tristezza di lasciare i figli così giovani, poi aggiunge: “soprattutto guarda il culo di quell’infermiera” - io dico la verità, è andata proprio così. Era un attore comico, ha voluto darmi l’ultimo sorriso morendo. E’ una delle pagine più toccanti perché racconto la verità”. Il libro restituisce una memoria non solo individuale ma del Paese, estirpata da una certa tv. Christian dice con sua moglie Silvia che “il disastro in Italia è cominciato con una trasmissione che si chiamava Non è la Rai, dove le ragazze per la prima volta sbattevano le chiappe davanti alle telecamere per fare carriera. Oggi in Italia o diventi un calciatore, un cantante, un attore o un ballerino. Se non sei una di queste cose sei una merda, come diceva Andy Warhol. Nessuno vuol fare più il giornalista, il tabaccaio, l’avvocato, l’operaio. Ma dove vanno a ballare tutti questi ballerini, se in Italia si fa un musical ogni dieci anni?”
Dopo l’esordio a 18 anni con Rossellini in Blaise Pascal, il successo con Sapore di mare dei Vanzina, e 90 film (prima ancora del primo film natalizio), Christian De Sica è il numero 1 del cinema comico nazional-popolare, genere che nel libro analizza con disincanto. “Ho continuato a prendere la metropolitana, andare per strada, non rinchiudermi in questa casa scintillante che era di mio padre. Ricordo che Visconti disse a mio padre: ‘siamo vecchi, due grandi registi, ma tu Ladri di biciclette non lo puoi più fare, né io La terra trema, meglio fare film tratti da libri”. Lui fece Morte a Venezia, papà Il giardino dei Finzi Contini. Il presente, dicevano, non lo conosciamo più, perché non prendiamo più il tram”.

12/28/2008

Non chiamatele favelas. Storia di uomini e topi

Oggi su la Repubblica (ediz. romana) è uscito questo mio breve reportage, dal luogo in cui una mamma e il suo bambino sono bruciati vivi in una miserabile baracca)

Calpesto terra scura e umida e nere braci. I miei occhi toccano stoffe, utensili, pentole con dentro resti di cibo, pezzi di legno e di ferro non identificabili, e il vuoto carbonizzato dove prima c’era una baracca di legno, plastica, cartone. Vi abitavano una madre e il suo bambino di tre anni, Dorina e Kristinel, bruciati vivi mentre cercavano di scaldarsi accendendo il fuoco in un recipiente di metallo, come fanno tutti. I poveri sono pericolosi, sì. ma solo a se stessi. Nel labirinto di sentieri del sottobosco ci hanno guidato qui, Flaminia Savelli e io, tre gentili carabinieri. Solo pochi chilometri di questo stesso intrico di pini e lecci ci separa dalla tenuta del Presidente della Repubblica. Ho il permesso di varcare il nastro che transenna la tragedia. Guardo, in un luogo dove si dovrebbe ormai solo pregare, le baracche attigue superstiti.
Un luogo che non è in un altro mondo, ma negli interstizi del nostro. Arrivati alla rotonda di Ostia, di fronte al mare e alla luce, si gira a sinistra sulla litoranea che porta alle spiagge tra le dune, costeggiando a sinistra la pineta di Castelfusano. Dopo appena un chilometro, di fronte allo stabilimento Mariposa, con parcheggio e campo da tennis che arriva alla strada, un buco nella rete che cinge la pineta segnala il passaggio che conduce a uno degli insediamenti nascosti dei più poveri tra i poveri. “Extracomunitari”: la formula è giusta se non si riferisce a coordinate geografiche, ma economiche ed esistenziali: la comunità è dei ricchi, i consumatori; gli “extra”, gli esclusi sono i poveri, rom o rumeni che siano.
C’è freddo nel bosco, alle due del pomeriggio. Il sentiero scosceso si ferma in un anfratto piatto protetto dagli alberi, perennemente in ombra. Una batteria Bosch, un pentolino senza manici, alcuni piatti di plastica sparsi, vasetti di fiori rovesciati, uno specchio semicoperto di terra, tappetini di auto. Man mano che mi avvicino ai resti carbonizzati: una padella con rimasugli di cibo color zucca, un tavolino e una sedia di plastica bianchi, pezzi di motore di scooter. Tra i resti freddi del fuoco, neri e grigi, l’incongrua nota di colore di un lembo dell’inconfondibile tela verdazzurra per trasportare i morti, impigliato a un rovo. Ho i piedi gelati, è naturale volersi scaldare, qui. Ma sono gelato dentro. Cammino tra vetri rotti, carcasse di ferro, sedie di vimini rovesciate sugli aghi di pino.
A pochi metri la “casa” della vicina, Veronica, 35 anni, che aveva cercato di soccorrere Dorina. Mi affaccio: un materasso annerito, coperte, poco spazio per altro. Altro che consiste in un mobiletto bianco con su una pentola ancora piena di carne e sugo rappreso, un tavolinetto basso con sopra un tubetto di crema Nivea, un pacchetto di tè, fazzolettini di carta. Per terra una bottiglia d’aranciata e un bicchiere di plastica.
Proseguo il sentiero verso l’alto, una a una scorgo altre baracche, come quella di Lorenzo. Di fianco all’entrata, una stanza da bagno all’aperto, a suo modo molto ordinata: uno specchio tondo appeso a un ramo, un altro rettangolare incollato alla fragile parete, un pettine. Per terra, scarpe allineate e una collezione di saponi. In ogni baracca c’è una batteria da automobile per alimentare corrente. Salgo ancora, tra i pini una baracca che prima non vedevo. Anche qui lo spazio è occupato dal materasso, un tavolino di plastica è la cucina, accanto alla pentola un vecchio minuscolo televisore. All’ingresso un calendario cinese 2007 con disegni di animali, tappeti scoloriti. Nella rudimentale veranda, pattumiere di plastica e una scatola da scarpe che contiene bucce di patate, su un ripiano mezzo peperone e gambi di sedano in una vaschetta. Una bicicletta appoggiata a un albero, protetta da un telo verde. Sulle pareti esterne, rivestite di cartone da trasloco ancora con lo scotch, un foglio con un elenco di otto nomi, Tabel Benzina, un mini-censimento interno. Torno indietro, riconosco lo scheletro di una baracca in costruzione. L’appuntato Muzi mi riaccompagna. Emergo dal bosco e respiro guardando il cielo albicocca sul mare.
Ci sono tanti insediamenti di baracche come queste nella pineta. A uno di essi si arriva dall’ingresso della riserva naturale sulla Colombo, di fronte alla via della Villa di Plinio. Dall’elicottero si vedono bene, nell’intrico di alberi è quasi impossibile. Ma non chiamateli baraccopoli, tanto meno favelas: quelle sono luoghi con una dignità alla luce del sole, qui sono nascoste. Tra la litoranea e gli stabilimenti, Flaminia mi mostra la sua scoperta: una sorta di luogo d’appoggio logistico degli invisibili: oggetti, materassi, nascosti dalla macchia e dai pini. Senza vederle, dai fruscii tra i rami ci accorgiamo di presenze, come se invece che uomini si trattasse di topi. Vivono tra gli interstizi delle nostre case, dei nostri luoghi di svago. Come forse in nessun altro luogo in Europa, qui ci sono uomini che vivono come topi. Poveri. Cioè extracomunitari.

12/27/2008

per Harold Pinter

(Per una volta la dò in anticipo, la mia rubrica domenicale acchiappa-fantasmi)

Mentre non uscivano i giornali, in questi giorni di feste natalizie, moriva discretamente a settantotto anni il grande scrittore, drammaturgo e poeta inglese Harold Pinter, insignito dal Nobel nel 2005. Mi è venuto spontaneo sfogliare il volumetto di poesie (1950-2006) che Einaudi due anni fa ha fatto uscire a cura di Edy Quaggio: Poesie d'amore, di silenzio, di guerra. Una delle prime si intitola: Natale.
"Scegli un cocktail per il bambino, / da bere in un cornetto acustico. / La privazione fa arrabbiare; che almeno / gioisca nella sua cattività. [...] Siamo una famiglia felice. / Vieni, cantiamo del porto, / delle notti a rimpinzarci di bouillabaisse. / Poi andiamo a bucarci dai vicini, / facciamo un’altra festa."
C’è qualcosa di spietato nelle sue poesie. Tra le motivazioni al Nobel, l’Accademia Svedese scrisse che “nelle sue opere svela il baratro sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe a entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”. Harold Pinter, se conta (io credo di sì), era un scrittore implacabilmente di sinistra, molto critico su temi politici e sociali. Ancora comunista, pare. Sulla prima e sulla seconda guerra in Iraq, sulle bombe e l’esportazione anglo-americana della democrazia, ha scritto cose vere e tremende. Ecco un frammento di American Football. Riflessioni sulla Guerra del Golfo , una poesia del 1991:
"Alleluia! / Funziona. / Gli abbiamo fatto scoppiare anche la merda. / Gli abbiamo fatto scoppiare la merda su per il culo / finché, cazzo, gli è uscita fuori dalle orecchie. / [...] Alleluia. / Sia lode al Signore per tutte le cose buone / Gli abbiamo ridotto in polvere i coglioni, / in polvere, porca troia. / Eccome se l’abbiamo fatto. / Ora voglio che tu venga qui e mi baci sulla bocca."
Le poesie non si dovrebbe mai commentare, però una cosa si può dire sui poeti (e gli scrittori) veri; che essi per definizione non mentono mai, di qualunque cosa parlino. Quando muoiono fanno sentire più soli, ma anche più responsabili.

12/22/2008

Un eroe invisibile (acchiappafantasmi n. 8)

Ieri, su l'Unità, la mia consueta rubrica domenicale:

C’è una bella canzone di Caparezza, musica da finto western, che racconta la storia di un “eroe contemporaneo”. “Sono un eroe”, dice il ritornello, “perché lotto tutte le ore”, “perché combatto per la pensione”, “perché sopravvivo al mestiere...” La canzone è un campionario dei drammi quotidiani di salariati e precari, della vita ordinaria della gente – che, scriveva già il filosofo Emmanuel Levinas, è più eroica di quella dei samurai. Ci sono poi eroi che danno agli invisibili la dignità di eroi. Uno di questi si chiamava Claudio Schiaretti, e viveva a Parma dove dal 2000 era segretario provinciale della CGIL scuola.
Ho fatto parte del mondo di chi faceva la fila per parlare con lui, di cui divenni presto amico. Seduto ad aspettare il mio turno mi giungevano le voci esitanti o malinconiche o disperate di quanti, spesso donne, spesso madri, avevano problemi di orari, concorsi, destinazioni lontane, malattie, trasferimenti, Legge 104. Insegnanti che sperimentano ogni giorno il divario tra studi, vocazione, lavoro. Fannulloni, direbbe un umorista, specie se sindacalisti. Erano e sono problemi anche miei. Io ero il più imbranato e problematico. Anche se insieme si parlava di massimi sistemi, riforme della scuola e del sapere, Claudio doveva insegnarmi ogni volta l’a b c, mettermi la crocetta sulla caselle più ovvie dei questionari ministeriali. Lo faceva con allegra pazienza, una gentilezza mai ostentata né imbarazzante.
Laureato in matematica, docente stimato e benvoluto, la sua vocazione ad aiutare gli altri lo rese indispensabile, ricercatissimo. Lui si dava instancabile. “Claudio c’era sempre”, dicono tutti. Il 18 dicembre di un anno fa lo ha spento un male improvviso a 47 anni. No, non spento, mi scuso: forse un Liceo Scientifico porterà il suo nome, se l’augurano in tanti, specie quelli che non si stupirebbero della canzone di Caparezza.

12/20/2008

La Chiesa, Fini, il fascismo e le leggi razziali

Forse esagero, se oltre gli appunti (come l'amico Wu Ming 1) io dò in lettura anche le lettere, e perfino le lettere di altri. Ma si tratta di due cari amici e cani sciolti (storici di professione, fra l'altro, anche se uno dei due è anche poeta) su un argomento di attualità. Fanno riflettere, e dicono cose non scontate.

Caro Luigi,
non si potrebbe fare una risposta a Fini come storici e farla circolare più possibile? Fini omette non a caso la cosa essenziale: che la mancata protesta o opposizione degli italiani alle leggi razziali (ammesso che sia vero) dipende dal fatto che c'era una dittatura in atto, che non era possibile esprimere la propria opinione, che il fascismo aveva stroncato tutti gli strumenti per poter intervenire liberamente nel dibattito politico.
Nel momento in cui le lotte in corso e la rabbia crescente non hanno un referente politico, gli intellettuali dovrebbero muoversi. Noi come poeti abbiamo fatto delle piccole cose: uno striscione allo sciopero del 12, il rifiuto di partecipare a manifestazioni patrocinate dalla destra. Piccole cose. Gli storici non potrebbero fare qualcosa? Ribattere colpo su colpo certe affermazioni governative, farle circolare, fare agenzie, ecc? Un intervento sul manifesto?
Ti abbraccio e ti auguro buon anno,
Carlo [Bordini]

Caro Carlo,
hai ragione, ma in questo paese anche gli storici, come tanti intellettuali, sembrano sulla via del disarmo. O dell’Aventino. Io non mi sento in grado di preparare una risposta, non sono abbastanza esperto e la faccenda è intricata. Ci vorrebbe un contemporaneista del settore. Conosco un po’ solo la questione della Chiesa cattolica, sulla quale Fini ha parzialmente torto (a parte il fatto che la sua chiamata di correo ha chiaramente lo scopo di giustificare il fascismo). Il fatto è che quando uscirono le leggi razziali era papa Pio XI, che aveva un atteggiamento sostanzialmente antinazista e antirazzista, e in un'enciclica del 1928 aveva condannato l'antisemitismo. Pio XI incaricò alcuni gesuiti di preparare una bozza di enciclica in cui condannava il razzismo (soprattutto nazista), ma poi morì e Pio XII la riprese in mano ma la modificò profondamente, condannando in genere tutti i totalitarismi. Si può dunque parlare di un diverso atteggiamento dei due papi. Il che rende un po' problematico il giudizio sulla chiesa cattolica nel suo complesso. Certo, nessun vescovo o cardinale si pronunciò: ma è anche vero che a quei tempi la struttura gerarchica era ancora più forte di oggi.
La tua argomentazione comunque è giusta: sotto una dittatura non ti puoi aspettare forme di protesta aperta, ma al più forme di sabotaggio occulto, come infatti avvenne, visto che la stragrande maggioranza degli ebrei italiani, anche a Roma, scampò alla deportazione grazie alla protezione che ebbero da parte di privati e di ecclesiastici. Pensa che a Roma su 10.000 ebrei circa 8.000 riuscirono a nascondersi. Ho scoperto che anche la famiglia dell'allora fidanzato di mia madre, che aveva una casa grande, nascose una famiglia di ebrei.
Riusciremo a vederci durante le feste?
Luigi [Cajani]

12/14/2008

La realtà della letteratura

Sabato 6 dicembre sono stato invitato a Bologna, insieme allo scrittore Eraldo Affinati (che ho avuto il piacere di incontrare lì per la prima volta), a parlare sul tema "Libri di realtà. La funzione mimetica della letteratura e i suoi paradossi". L'incontro, organizzato dalla Bottega dell'Elefante, dal dipartimento di Italianistica dell'Università di Bologna, e in particolare da Magda Indiveri e Mimmo Cangiano, prevedeva una lettura e discussione iniziale sul saggio "Fortunata" di Erich Auerbach (da Mimesis). Gli organizzatori hanno anche prodotto un bel librino che raccoglie, oltre ad alcuni interventi del sottoscritto e di Affinati, insieme a estratti dei nostri ultimi romanzi, altri testi e interventi di scrittori classici e altri assolutamente contemporanei, compresi Girolamo De Michele, Giampiero Rigosi e Wu Ming 1. Lo stesso giorno su l'Unità uscivano alcuni miei appunti in forma di articolo, che qui di seguito ripropongo. Anche se, va da sé, quello che ho detto nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna era diverso e più variegato rispetto a quello che ho scritto, come sempre accade, ma così è la vita, e questo ho.

Nel 1967 Roland Barthes già decostruiva le certezze strutturaliste, come la distinzione tra “storia e “discorso”, in un breve saggio dal titolo “Il discorso della storia”. Quei testi, quelle enunciazioni che non mostrano traccia dell’enunciatore (l’io di chi scrive, o altri più discreti riferimenti spazio-temporali al tempo dello scrivere, o alla fisicità storica dell’autore), che si pretendono quindi “oggettivi” o “obiettivi”, non sono che il prodotto di una forma particolare di immaginazione e di strategia retorica, che Barthes chiama l’“illusione referenziale”. Essa è evidente negli scritti di chi vuole “limitarsi a “raccontare i fatti”, lasciare che il referente parli da solo - come se il significante (il linguaggio, l’enunciazione narrativa) fosse invisibile o inconsistente. E’ un atto linguistico performativo truccato, spiegava Barthes, un atto d’autorità. Ma non sarebbe (stato) possibile se, sotto l’egida della formula “è successo”, non avesse incontrato in effetti un gusto che segna la svolta dell’Occidente: il fascino a volte morboso per il “reale” e i suoi dettagli, ciò che, per esempio, costituì l’enorme successo del genere epistolare e del diario intimo, e che fu poi suggellato dallo sviluppo massiccio della fotografia, il cui tratto specifico rispetto al disegno è quello di attestare che ciò che vi si rappresenta “è realmente successo”. La figura retorica dell’oggettività dei fatti venne chiamata da Barthes “effetto di reale” (o “di realtà”), con cui un anno dopo titolò un altro suo scritto.
Ho letto in questi giorni un libro bellissimo, Approdo, dell'australiano di origine malese Shaun Tan (elliot 2008): l'immagine che si vede sopra viene da lì. L’ho letto anche se non compare neanche una parola, solo disegni, con zoomate e piani sequenze narrativi. Parla di migranti (proprio come un libro di quell’altro outsider e innovatore, lui sì assolutamente verbale, che è stato W. G. Sebald), e racconta una storia archetipale e al tempo stesso attuale, reale e immaginifica, in cui tutti i migranti della Terra possono ritrovarsi. Si basa anche su un archivio a portata di tutti: aneddoti tramandati da migranti di varie nazionalità (la trasmissione epica orale), alcuni dei quali raccolti nel libro Tales from a Suitcase; vecchie fotografie, comprese quelle dell'Ellis Island Immigration Museum; cartoline illustrate; film (Ladri di biciclette); incisioni (“Sopra Londra, in treno” di Gustave Doré), ecc. L’epica di questo libro è (anche) quella della testimonianza.
Siamo da tempo nell’Era del testimone, come titolava un libro di Annette Wievorka, l’epoca in cui (dopo la Shoah) l’avvento dei “sopravvissuti” (cioè i testimoni) e il dilatarsi della nozione di “archivio”, hanno cambiato non solo la storia e la storiografia, ma anche le arti e la letteratura. A volte la memoria si pone in conflitto con la storia, nell’ambizione di sostituire la sua oggettività arida e livellatrice con una versione più soggettiva ed empatica dei fatti. Ne tratta lo storico Enzo Traverso nel suo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica (ombre corte 2006), dove si riflette sulla differenza tra storico, testimone e scrittore in modo molto illuminante per chi si occupa di forme narrative.

E’ un fatto che da anni la letteratura trovi i suoi effetti più romanzeschi proprio lasciando da parte i modi e le strutture narrative della fiction, sempre più cristallizzata in cliché (ultimo, il noir stile “sceneggiatura”) a favore di una sorta di libero “documentario”. Non solo cioè con un “effetto di realtà”, ma con l’uso strutturale di documenti e reperti: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. inseriti nel tessuto della narrazione. Trame che si confondono con la nozione stessa di archivio e/o di inchiesta, storie costruite stilisticamente col montaggio di documenti. Ma che ricordano anche la giocosa libertà dei bellissimi “musei immaginari” che Bruno Munari insegnava ai bambini (ricordate? prendere un sasso, un rametto storto, una foglia o un pezzo di muschio, e riporli in bacheche: scoprire e/o inventare il mondo, col gesto di repertoriarlo).
Ha cominciato, se non sbaglio, il grande narratore tedesco W. G. Sebald, mostrando che la soggettività non solo non si perde né si nega nel perseguire un romanzo che assume i tratti dell’indagine più oggettiva e referenziale, ma si potenzia fino all’ossessione. Contemporaneamente l’oggettività, l’effetto di reale più estremo e vincolante, non impedisce il completo dispiegarsi della libertà espressiva dell’autore. Un po’ come lo espresse Jean-Luc Godard quando rispose così al giovane aspirante cineasta che lo aveva avvicinato: “Intanto fammi un film su questa scatola di cerini” (e gliela porse).
La narrativa che oggi mi interessa (e in cui credo di rientrare: mi riferisco soprattutto al mio HP. L’ultimo autista di Lady Diana) è fatta di libri che nascono come reportages ma sfociano nel romanzo, come il bellissimo e tremendo Ossa nel deserto di Sergio Gonzalez Rodriguez (Adelphi), dedicato ai massacri irrisolti di donne a Ciudad Juarez, tra Usa e Messico (tema ripreso da molti altri libri), o il “gonzo journalism” di Hunter Thompson, fusione di cronaca e narrativa, rigorosamente in prima persona, il cui motore è dato dalla consapevolezza che la vita è quello che ti succede mentre stai facendo qualcosa d’altro. Oppure che sono e restano romanzi pur sfociando in una specie di reportage, o addirittura di esplicita denuncia (è il caso di Gomorra di Roberto Saviano, di cui non si sottolineano mai abbastanza le incursioni all’io di chi scrive, la presenza strutturale di “tracce dell’enunciatore” nel racconto); o, lontanissimo, di Due vite dell'indiano Vikram Seth, che scopre a quarant’anni l'Olocausto e la Storia grazie alla microstoria, grazie alle lettere nella soffitta dello zio a Londra, e della zia ebrea).
Non occorre che siano storie straordinarie a nutrire questi testi, ma vicende private, ordinarie. Come i racconti orali di Ascanio Celestini, sulla scia delle testimonianze raccolte dal suo maestro, Alessandro Portelli. Come il breve film (e libro) della milanese Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, che racconta la storia della madre, morta suicida quando l’autrice era bambina, attraverso fotografie, lettere, reperti medici, diari, filmini di famiglia, in un archivio femminile in cui ogni donna ritrova qualcosa della propria identità e genealogia. Raccontare vite usando i mezzi espressivi e il punto di vista, i documenti e la memoria di chi quella vita ha vissuto. A monte di tutto questo vi è una scoperta estetica che l’arte contemporanea ha per prima fatto propria: la qualità elegiaca e universale di frammenti e oggetti della vita ordinaria degli individui, che siano volti, come quelli anonimi e ingranditi che popolano le mostre di Christian Boltanski, o oggetti, reperti di ogni genere e sostanza. Se nell’arte opera da tempo una nozione attiva di “archivio” che ne ha deterritorializzato e riterritorializzato gli orizzonti, la letteratura è appena agli inizi.
Il distacco dello storico e l’empatia del testimone compongono “documentari” che trattano la realtà come un fantasma, mostrando la scaturigine e la formazione del proprio presente, del proprio “dire” presente. Realizzano cioè il vero senso della parola testimonianza, (dal latino superstitio): si è testimoni anche se non si è oculari, anche di eventi lontani nello spazio e nel tempo.Superstitio significava il "dono della presenza"; e il dono della presenza è dato dal racconto, dal tramandare.

Michel Foucault dedicò un saggio importante sul "genere" da lui chiamato “fantastico da biblioteca”, in cui rientrano di sicuro Le tentazioni di Sant’Antonio di Flaubert come parecchi dei romanzi di Philip K. Dick, ma anche uno dei libri secondo me più importanti e innovativi degli ultimi anni, scritto di recente da un appartato scrittore sperimentale, cioè sperimentatore di linguaggi: Giuseppe D’Agata, I passi sulla testa (Bompiani 2007). Vi si racconta “semplicemente” l’inventario della sua biblioteca di romanzi, su cui grava l’incombenza di un trasloco, quindi di una perdita. Penso infine, naturalmente, a Cervantes, che cita biblioteche di libri reali (anche propri!) in Don Chisciotte, e nel secondo tomo dell'opera il Cavaliere e il suo scudiero sono invitati dal Duca a corte, perché le loro avventure li hanno resi famosi (!). Cervantes è del resto modello di una libertà narrativa e affabulatoria che insegna come dalla realtà della letteratura (e della Storia) si possa entrare e uscire, in un’oscillazione continua. Ma anche – come una sorta di Spinoza della letteratura, anzi del romanzo – Cervantes è maestro nella consapevolezza dei diversi significati di ciò che si intende con la parola “realtà”, un po’ come ricordava Gianni Celati qualche mese fa in un’intervista: “La narrativa d’oggi è ormai un’appendice dell’informazione. E’ difficile trovare un romanzo d’oggi che non si appelli all’attualità. [...] Sono libri che il lettore legge come se fossero commenti a una realtà di fatto. Qui però la ‘realtà’ indica solo modi di vedere giornalistici – i modi dell’attualità -, il tutto categorizzato secondo il criterio del ‘nuovo’. Il nuovo è un dogma ma anche una continua intimidazione, perché tutti dobbiamo avere paura di essere visti come dei sorpassati dal nuovo. A questo proposito c’è qualcosa di illuminante nel Don Chisciotte, dove si affaccia per la prima volta la questione della ‘realtà’, posta in un contrasto con l’immaginazione e le tendenze fantasticanti. E si affaccia anche l’idea che il nuovo sia qualcosa che spazza via le inutili anticaglie: i romanzi cavallereschi. Ma, posto questo schema, dove Don Chisciotte ha sempre torto, in quanto invasato dalle fantasie cavalleresche, poi succede che sono proprio le sue tendenze fantasticanti ad arricchire di senso il mondo. Sono le sue fantasie e riflessioni a farci intravedere l’aperto mondo sotto l’aperto cielo come la nostra vera casa”.
Forse, più che di realtà, si dovrebbe parlare di verità della letteratura. Ma è una questione talmente elettiva, e così necessariamente partigiana, che non mi aspetto di vederla dibattuta in modo soddisfacente sui media, e nemmeno su Internet...

P.S. Ai più interessati, consiglierei di incrociare la lettura di questi miei appunti con alcuni "articoli" e "incontri" che si trovano qui, nel mio sito: in particolare Siamo tutti testimoni e la conversazione con Christian Boltanski e Annette Messager... Altri post-scriptum li posterò nei commenti. B.S.

Contro il virtuale (acchiappafantasmi n. 7)

Su l'Unità, la mia consueta rubrica domenicale (finché dura, finché resisto) oggi è questa:
“Il personale è politico” è uno slogan degli anni Settanta. Meglio del sessantottino “l’immaginazione al potere” (che potrebbe ormai designare l’impero Mediaset e il suo padrone, che con l’intrattenimento e l’immaginazione ha instaurato un regime pubblicitario), era un modo di esprimere e praticare la fine di una frattura artificiosa: dove comincia la politica, dove finisce? Dove inizia la realtà? Come insegnano i filosofi (lo mostrava Wittgenstein), non esiste linguaggio privato: esso è per definizione dialogico, e attesta che l’uomo è relazionale. E’ invece la capacità di fare esperienze che si sta dissolvendo. Personali e/o politiche, comunque reali. Qualche giorno fa a Bologna, a un convegno su letteratura e realtà, ho applaudito uno studente che alla fine di un suo intervento ha invitato a lottare “contro la virtualità”. La formula “realtà virtuale” ha saturato il linguaggio: non si dice più immagine, storia, pensiero, desiderio, idea, rapporto, racconto, programma politico ecc., ma solo “realtà virtuale”. Ogni parola (ed esperienza) è sostituibile col suo avatar (virtuale). Compresa la parola “comunita” (e i suoi derivati). Internet ne è solo il pretesto: all’articolo “Posta” del suo Dizionario filosofico Voltaire (che a sua volta cita trattati antichi sullo stile epistolare) scriveva frasi che anticipano parola per parola la retorica del web di questi anni (ubiquità, metafisica della presenza, “rendere presenti gli assenti”, ecc.), e senza mai usare la parola “virtuale”. Se la robotica e il mito dell’intelligenza artificiale accompagnano la rimozione del corpo, oggi la realtà virtuale è l’alibi per creare, dopo la finanza virtuale e l’economia virtuale, dei partiti virtuali che fanno una politica virtuale e un’opposizione virtuale. Ben venga la crisi (reale) se modifica realmente il nostro stile di vita, e ci fa accorgere che abbiamo un corpo, un corpo che ha fame. E che sono l’immaginazione e gli slogan del potere l’unica realtà virtuale.
P.S. Dell’inizio di tutto questo, credo, e di altro, ci parlano le bellissime poesie della trentenne Lidia Riviello, Neon 80 (editore Zona). “Fatti fummo per essere al neon assuefatti / occhio per occhio, digitale celeste, anno del Dragone / fatti fummo per essere consumati. / Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo per vivere di pillole e gas...” (cito dall’Intro). Alla fine del libro c’è anche un riepilogo (in prosa) degli anni ’80: “Negli anni dell’intrattenimento franano interi paesi, si esplode in volo, s’invadono le terre, gli uomini di governo mordono tutte le metà della mela rimaste, le ragioni dei disastri non vengono più chiarite...” Tra la fine dei film western e il successo dei mobili Ikea, Lidia ricorda anche la morte di John Lennon, che non vide gli anni Ottanta: “Nessuno riconobbe nell’assassino di John Lennon un ‘nipotino’ di Ronald Reagan...”. Neon è un gas che emette luce virtuale, metafora di falso sole. Gli anni Ottanta, quelli di Berlusconi & Craxi, beh, è quando “Fummo spenti con il neon appunto.”

12/07/2008

Qualcosa succede sempre (acchiappafantasmi n. 6)

Anni fa sui muri delle case di Parigi si videro targhe celebrative che dicevano così (per esempio): Il 17 ottobre del 1977 / qui / non è successo / nulla. La prima reazione, oltre al sorriso, era dedurre che siano false, perché celebravano eventi inesistenti. Ma perché “false”, o allora perché “inesistenti”? Sono false secondo la deontologia celebrativa ufficiale, e sono forse false perché ovunque, in ogni palazzo, in ogni luogo, qualche evento è successo, ma non viene celebrato. Per darne notizia occorre raccontarlo, farne una “novella” (ossia “storia rimessa a nuovo”), ciò di cui erano maestri gli anonimi narratori medievali, o più recentemente il giocoso Georges Perec, geniale autore di Specie di spazi e di La vita: istruzioni per l’uso.
La rivista L’accalappiacani, animata dallo scrittore Paolo Nori & suoi amici, ha anche un sito. In esso c’è una rubrica che si chiama Radiogiornali liberi . E’ fatta di brevi storie, “novelle” che chiunque può inviare indicando luogo e data. Sono la giusta risposta a quelle (false) targhe. Per esempio: “A Bologna, in località Santaviola, alle ore 20,39 di martedì 29 luglio 2008, un uomo dall’età apparente di 45, o 46, o 47 anni, si è alzato dal tavolo del soggiorno, dov’era seduto, si è avvicinato alla radio, l’ha spenta e ha pensato: Non la riaccendo mai più”. “Alla biblioteca Sormani, intorno alle ore tredici (ora locale), una ragazza che voleva salire al secondo piano, ha preso l’ascensore e ha sentito dentro odor di cloro”. Oppure: “A Lucca hanno rubato dei salami”.
Sono tante, e gustose. In tempi di dibattito sul presunto ritorno alla realtà della letteratura narrativa, dove ci si scorda o si confonde che la realtà è un’invenzione del linguaggio, e che il linguaggio è parte integrante della cosiddetta realtà, occorrerebbe meditarci su.

12/01/2008

Fatti di terra (Acchiappafantasmi n. 5)

Ci sono frasi che ci restano dentro a condensare un destino, un autore o la sua opera. In questi grumi di parole la memoria si sedimenta grazie all'’oblio (salvare in memoria significa dimenticare). Per esempio, del complesso romanzo (centinaia di pagine) che David Forster Wallace ha scritto a 24 anni, ora riproposto da Einaudi Stile Libero, La scopa del sistema, mi ricordo solo queste parole: «Mi manca chiunque», e lo shining del loro nudo coraggio mi riconduce a quello del loro autore, morto due mesi fa a 46 anni. Dell'’ultimo scrittore insignito dal Nobel, Jean-Marie Le Clézio, non mi è mai uscita dalla testa questa frase di non so più quale suo romanzo: «Diciamo per terra, ma non è più la terra».
Penso queste cose sfogliando il libro di testi (trascritti, poiché i maestri non scrivono) di Fausto Taiten Guareschi, monaco e maestro Zen, Fatti di terra (Edizioni Casadei). Con un maestro (ossia la vertiginosa coincidenza dell'’insegnamento e dell'’insegnante), è in fondo usuale che una sola frase, a volte una singola parola, riassuma un mondo di senso e di esperienze lungo come un trattato (o come un romanzo). Nella sua lingua, come nella poesia, tutto è volto e ugualmente significante.
Leggo dall’'inizio: «Fatti di terra, non si può perdere né acquistare terreno. Questa è la mia terra d'’origine, la mia origine di terra, la vera proprietà, che con il suo infinito senso non ti abbandona mai». Non si ha mai terra da perdere, dice, perché si è della terra. I capitoli hanno titoli come «Non fumare è permesso nell’area aeroportuale», «Dio non fa miracoli, per fortuna neanche quello della pace», fino ai paradossi leopardiani: «E questo muro che da tanta parte il guardo esclude». Poesia e politica come sinonimi. Scienza dell'’abitare.
Non è quindi solo il fascino della brevitas, il brivido del frammento. Di questo vorrei parlare la prossima volta.
(uscito su l'Unità, rubrica, 30 novembre)
P.S. Vorrei segnalare questo appello: uno sciopero degli autori.

11/24/2008

Acchiappafantasmi n. 4 (All you need is love)

“Quando chiudi la porta con la chiave, sai quello che chiudi fuori, ma non sai quel che chiudi dentro”. Questa frase tutt’altro che rassicurante risuona nel buio della stanza più alta del maniero in un vecchio giallo inglese. Gli altri ospiti sono già tutti morti, e la persona sopravvissuta si trova ora al cospetto dell’assassino: chiusa insieme.
E’ un apologo che ho raccontato spesso, a commento della fobia e della criminalizzazione degli “altri”, gli stranieri, in seguito agli innumerevoli delitti nelle ville mono e bi-famigliari che hanno fatto la nostra Italian beauty. Ma gli assassini erano sempre i propri simili, famigliari o vicini di casa: The Others siamo noi. Un anno fa lessi su un muro del centro storico di Cagliari: “Immigrati, salvateci dagli Italiani”. Leggo ora del tristissimo omicidio-suicidio di Verona, una famiglia agiata, tre bambini, madre avvocato e padre commercialista. Nella pagina accanto leggo che la paura degli Italiani è passata, quella che ha alimentato la vittoria della destra, i pogrom contro i Rom, la Carta della Sicurezza e i sindaci sceriffi. Paura e insicurezza non ci sono più, in compenso si teme per la crisi economica planetaria e l’implosione del capitalismo. Ma è proprio adesso che a me viene paura: la deflazione dei sentimenti. Paura di ciò che può accadere quando gli italiani smettono di avere paura degli altri, quelli visibili, e ne alimentano di invisibili (le retoriche fasciste e hitleriane sono questo). Paura di chi si guarda allo specchio senza accorgersi che sia uno specchio, e viceversa guarda l’altro come se lo fosse, senza empatia, in una solitudine senza desideri. All you need is love, si cantava. Intanto questa claustrofobica normalità nutriva i delitti di Alfred Hitchcock, che avvenivano in cucina o in camera da letto, e sul senso della "normalità" insorgeva l’istrionico Orson Welles ne La Ricotta di P.P. Pasolini, se vi ricordate…
(uscito su l'Unità del 23/11/'98)

11/20/2008

Ritorno alle panchine

Su l'Unità di oggi c'è un bell'articolo di Luigi Ciotti (don Ciotti) dedicato alla socialità delle panchine: lui deve la propria formazione (o educazione sentimentale) a una panchina; ma anche il Gruppo Abele da lui fondato a Torino si riuniva su una panchina; e, tra l'altro, costruisce panchine. Lo accompagna un mio breve scritto (troppo breve, in effetti), il primo dopo l'uscita del mio libro Panchine. Lo propongo qui sotto (la fotografia riportata sopra, con lo sfondo del gazometro, è invece di Maria Andreozzi. A Roma, naturalmente).

Per rendere pubbliche le lettere, gli incontri, le testimonianze, le fotografie e i progetti di cui sono stato destinatario nei pochi mesi seguiti all'uscita del mio libro Panchine, occorrerebbe forse un altro libro. Il bel testo di don Ciotti – con cui, insieme allo scrittore Pino Roveredo, ho dialogato a Torino alla festa del libro “Portici di carta” - è uno di questi incontri.
Su Internet sono perfino sorti siti di immagini e gruppio di lettura dedicati alle panchine. L'adesione a questo “magico oggetto” (come ha scritto un giovane architetto, Mauro Tarsetti), alla “luminescenza dell'attesa”, a volte “rassegnata ma felice” (Roberto Carvelli, un lettore), della panchina, viene dal riconoscere in essa un pezzo vivo e pulsante della propria vita. Non c'è luogo, dai paesini della Valle d'Aosta a quelli del Salento, in cui parlare di panchine non mi abbia procurato scoperte, complicità, incontri – con artigiani, artisti, inventori di panchine, ma soprattutto persone che non sono disposte a perdere il proprio tempo di vita e lo spazio pubblico. Mi ha emozionato condividere con tanti qualcosa di così intimo e sociale insieme: stare seduti, guardare il mondo, pensare i fatti propri, leggere un libro, compiere quel lavoro invisibile che nessun emulo di Brunetta elargirà mai ai propri dipendenti. Come i due speciali lettori che ho incontrato al Festivaletteratura di Mantova, i ragazzi di Vicenza (li ricordate?) multati perché “sorpresi a leggere” un libro nel parco.
Le panchine sono un simbolo di libertà e gratuità che, come tante altre cose un tempo evidenti (perfino la scuola e l'educazione) rischiano l'estinzione in nome di un profitto a breve termine, o per l'ordine totalitario cui si vuole giungere dopo avere indotto paura e insicurezza. Nonostante la loro aura poetica, per molti le panchine sono il contrassegno degli indesiderabili e dei perdenti, e teatro di rappresaglie sociali. A parte quei sindaci che sconsideratamente sono disposti a sacrificarle nella loro guerra contro i poveri (poveri, oggi, si dice “extracomunitari”), penso alla panchina di Rimini pubblicata pochi giorni fa dai giornali (e forse oggi già dimenticata): vi dormiva un senza casa a cui è stato dato fuoco, per crudeltà o disprezzo, lo stesso giorno in cui il governo annunciava di voler schedare i senza tetto (e non per dar loro una casa, ma perché i poveri sono pericolosi).
Tra tutte le lettere che ho ricevuto, di una almeno vorrei rendere conto. Quella, drammatica, di Antonio, un ragazzo di Napoli che non sa conciliare la propria vita, fatta di “scambio di tempo col salario”, coll'umanistico lusso di sedersi su una panchina, e contemplare il mondo e se stessi. Parla delle soste di chi non ha il tempo di farle, perché “scrittore non è”.
Sul supplemento domenicale del giornale di Confindustria c'è una pagina dal titolo “Il tempo liberato”. Finisce così, in una vetrina del lusso, un programma di pensiero (non un'utopia) di quando la politica abbracciava davvero gli orizzonti di senso e di vita delle persone? Tra la deriva del senza casa e il presunto privilegio degli “scrittori”, le panchine ci ricordano che siamo tutti dei potenziali clandestini, degli esiliati, dei rifugiati politici.

11/17/2008

Ghostbusters (acchiappafantasmi n. 3)

No, non è un nuovo film di John Landis, purtroppo, ma il nome della rubrica che da tre settimane tengo la domenica su l'Unità (ieri è apparsa appunto la terza): Acchiappafantasmi. Sono pezzi molto brevi (1800 battute) e quindi per forza di cose densi e molto sintetici. Questa che incollo è sulla politica (considerata come "the others"), le prime due erano dedicate rispettivamente agli studenti (con preannunciata denuncia a Cossiga) e al tema del denaro (il fantasma del "valore").
(Il fantasma della politica)
C’è chi, come mio figlio adolescente, pensa che la presunta “gaffe” di Berlusconi su Obama sia frutto di stupidità, un episodio di cui è doveroso scusarsi. Penso al contrario che si sia trattato di parole omogenee a un modo di pensare intrinsecamente fascista di cui è impossibile scusarsi - salvo destrutturarsi al punto di cambiare identità (e quindi visione politica).
Chiamare “abbronzato” un afroamericano (insulto ribadito di fronte all’indignazione planetaria) è perfettamente esemplare di una concezione monologica del mondo in cui l’alterità dell’altro, la sua stessa identità ed esistenza, è negata alla radice: il nero è un bianco abbronzato, la precaria deve sposare un miliardario (come suo figlio), il borghese che vota a sinistra è un imbecille (ricordate?) perché va contro i propri interessi (difendere i diritti e la dignità degli altri non è previsto). Non sono battute, ma tasselli coerenti di una visione politica che, più che il generico razzismo, ricorda i caratteri dell’antisemitismo (che è sempre alla base un'ipertrofia fascista dell’Io) descritti da Jean-Paul Sartre in un magistrale pamphlet del 1954. Si può anche “salvare” l’ebreo in quanto uomo, scriveva, ma negarlo in quanto ebreo (la logica dell’assimilazione). Anche se oggi, per delegittimare o negare qualcuno, non si dice più “ebreo”, ma “comunista” (o “zingaro”, certo). Anche “politicizzato” è un insulto (ai giudici, agli studenti, ecc.).
Ed è proprio la politica oggi a essere rimossa, così come è bandita ogni conflittualità sociale e di idee. Anni fa si chiamava “terrorista” chi manifestava contro la guerra in Iraq (tra cui, presumo, stava il presidente Obama). Oggi si stigmatizza in ogni ambito civile chi ha una visione del mondo diversa, conflittuale. Dialogare coll’attuale governo significa dargli sempre ragione, confermarlo. Fascismo è questo: confermare se stessi a oltranza. Una patologia, prima che un regime.

Aggiornamenti sulla denuncia al sen. Clossiga

Ricevo e dò in lettura:
Cari amici,
lo studente Davide Pulizzotto, di Roma, ha organizzato sul web una raccolta di firme in appoggio alla denuncia che abbiamo rivolto a Cossiga per le sue allucinanti affermazioni. La trovate a questo indirizzo: http://www.firmiamo.it/petizionecossiga.Questa raccolta di firme di appoggio (usiamo questa parola 'appoggio' per distinguerla dalla 'adesione') non invalida la raccolta di firme di adesione che abbiamo fatto negli scorsi giorni e che conviene continuare a fare. Lo scopo è lo stesso: in ambedue i casi la cosa non ha valore legale, ma solo morale e politico. Ma siccome firmare con un clic è più facile che firmare a mano e mandare l'adesione per fax o per posta, evidentemente per la raccolta di firme su carta alcune centinaia di adesioni sono già una cifra rispettabile (siamo a oltre 700), mentre per la raccolta di firme con un clic l'obiettivo è almeno alcune migliaia. Quindi firmate e diffondete la cosa tra i vostri contatti.
E' evidente a tutti che la sentenza del processo per i fatti della Diaz rende questa campagna ancora più importante. A Genova nel 2001 hanno fatto quello che ora Cossiga propone. E le sentenze assolutorie a Genova, soprattutto nei confronti dei responsabili più elevati nella catena di comando, sono un incoraggiamento a farlo un'altra volta. Cerchiamo di prevenirlo!
Un saluto a tutti
Piero Leone

11/14/2008

Provate un brivido, lasciatevi portare dall'onda anomala, ascoltate la voce di Anna Adamolo

Sono Anna Adamolo, sono il Ministro Onda dell'Istruzione, Università e Ricerca. Il mio compito è quello di tutelare l'istruzione e l'università italiana. Il mio primo impegno sarà il ritiro della Legge 133 e della legge Gelmini.
Sono Anna Adamolo. Non capisco perché il mio ultimo bambino, che andrà a scuola fra sei anni, dovrà fare la scuola elementare con un maestro solo, mentre sua sorella da quattro anni studia con tre maestri, e sta imparando un sacco di cose.
Sono Anna Adamolo. Sono single, e lavoro. Ho già passato le pene dell'inferno per trovare un posto all'asilo per mia figlia, ed ora che lei va alle elementari rischio anche di vedermi rubare il tempo pieno. Sono piena di rabbia: vorrei pensare anche alla mia formazione, per non restare sempre rinchiusa in un ruolo che mi sta stretto. Ma come si fa? Sembra di parlare di fantascienza in questo paese. Eppure non sarebbe difficile: basterebbe avere più asili nido, non essere discriminate sul lavoro quando si hanno dei figli, il tempo pieno magari anche alle medie.
Sono Anna Adamolo. Mio figlio ha 17 anni, mi ha detto che domani ci sarà un'assemblea nella sua scuola. Discuteranno sul decreto Gelmini, cercheranno di capire perché vogliono tagliare i finanziamenti alle scuole pubbliche e lasciare inalterati quelli alle scuole private. Gli ho detto di ascoltare con attenzione, di decidere con i suoi compagni, e se vorranno occupare la scuola tutti insieme faranno bene a farlo. Sono molto preoccupata per il suo futuro.
Sono Anna Adamolo. Ho 42 anni, un'abilitazione all'insegnamento e ho vinto il concorso per italiano e storia negli istituti tecnici. Faccio supplenze da sette anni. Ho vinto un concorso, ma non ho una cattedra. Mi sa che con questa nuova legge non ce l'avrò mai.
Sono Anna Adamolo. Ho cominciato un dottorato di ricerca in fisica l'anno scorso, mi sono laureata con 110 e lode, il mio professore voleva farmi studiare a Livermore, ho preferito restare in Italia, mi piacerebbe, prima o poi, insegnare all'Università. Ho visto che in questa legge Gelmini è previsto che su cinque professori universitari che andranno in pensione, ne verrà assunto uno solo. Avrei fatto meglio ad andare a Livermore.
Sono Anna Adamolo. Sono una studentessa universitaria, non avevo tanta fiducia nell'università, le istituzioni sono dei carrozzoni e ognuno deve arrangiarsi come può. Mi fa rabbia che vogliano tagliare tutti questi fondi all'università, quasi il 25% in cinque anni. Non ci possono ridurre sul lastrico, devo passare altri tre anni qui, forse cinque. Come faremo a studiare senza risorse, con i professori sempre più demotivati, e noi non contiamo niente, niente. Mi sono sentita meglio quando sono andata alle prime assemblee, ho fatto i cortei con le mie amiche e i miei amici, abbiamo occupato. è la prima volta che riusciamo a parlare davvero, che capisco come funzionano le cose. Sono più viva, adesso. Non voglio smettere di lottare finché qualcosa non cambia... CONTINUA A LEGGERE, ANZI, AD ASCOLTARE

11/07/2008

Chiedo scuso se parlo (ancora) degli zingari

Mentre, sempre in nome della "sicurezza", il governo si appresta a schedare anche i clochards, cioè i poveri, i barboni, i senzatetto (e non per aiutarli o dare loro un tetto: schedarli, perché i poveri sono pericolosi), faccio qui una segnalazione che concerne gli zingari, e le leggende metropolitane foriere di violenza; per ricordare anche "il triangolo nero", e che "nessun popolo è illegale"; e comunque sempre a proposito di eclissi della democrazia, della re-pubblica e dei diritti civili. Da AGO PRESS:
“La Zingara rapitrice” è il tema di una conferenza stampa che si terrà lunedì 10 ottobre a Roma presso la sala Marconi della Radio Vaticana. Promossa dalla Fondazione Migrantes, sarà l'occasione per presentare una ricerca commissionata al Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale dell’Università degli Studi di Verona sui presunti tentati rapimenti, addebitati ai rom nell’arco di tempo che va dal 1986 al 2007 in Italia. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dalle notizie fornite dalla stampa nazionale e esaminati attraverso la consultazione dei fascicoli nei diversi tribunali italiani. Il risultato principale che emerge dalla ricerca è che “non esiste alcun caso in cui viene commesso un rapimento. Nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta e provata oggettivamente. Anche laddove si apre un processo, il fatto contestato viene sempre qualificato come delitto tentato e non commesso, le cui circostanze aprono ad una complessa valutazione - all’interno della quale possono a volte far capolino le categorie del senso comune - dell’esistenza o meno della volontà dolosa”.
Durante la conferenza stampa saranno presentati anche i dati di un’altra ricerca volta a verificare quanti bambini figli di rom e sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai tribunali dei minori italiani a famiglie “gagè”, non zingare.
(Commento mio (b.s.): è per questa leggenda metropolitana - gli zingari rubano bambini - che il convegno citato sopra, per quanto con estema prudenza e tantissimi eufemismi, si appresta a smontare, che sono stati incendiati ed evacuati campi nomadi, che il ministro maroni ha potuto varare la sua carta della sicurezza, con proliferazione di divieti da parte dei sindaci-sceriffi, e forse anche il fatto che roma sia governata oggi da alemanno, ecc. ecc.)

11/06/2008

"Perché denuncio Cossiga"

Le parole che riporto qui di seguito sono dell'amico Pietro Leone, da cui è partita la denuncia di cui ho dato notizia. A questo proposito ricordo che chi vuole aderire, seguendo la forma riportata nel post precedente, può indirizzare l'adesione (autografa) a: Pietro Leone, via Flaminia 287 villino 33 CAP 00196 - oppure per fax al numero 06 3220789. E ora il suo testo:

Un giudice a Berlino
Ho deciso di denunciare Cossiga per le pazzesche dichiarazioni che ha fatto e che tutti conoscete.
Perché ho preso questa decisione che può sembrare stravagante?
Innanzitutto perché finora nessun altro lo ha fatto. E soprattutto non lo hanno fatto personaggi e istituzioni che ne avrebbero il dovere.
E poi perché non ci si deve rassegnare alla rassegnazione.
Da anni viviamo in un paese in cui un politico può dire tranquillamente che ci sono i fucili pronti e continuare a fare il ministro dello stesso stato contro cui vuole organizzare una ridicola (ma non per questo meno pericolosa) rivoluzione. E allora, passo dopo passo, si può sprofondare sempre di più nelle sabbie mobili senza che ci facciamo caso. E anche l’istigazione a ferire studenti e insegnanti, e a usare per questo agenti provocatori può sembrare una cosa quasi normale. Insomma – si dice - il personaggio è fatto così, non ci sta più tanto con la testa, è un po’ matto … L’eversione viene mascherata da folclore! In questa situazione anche Gelli può diventare maestro di storia.
Ma anche i pazzi possono essere pericolosi. Come notava pochi giorni fa un giornalista, se Oswald fosse stato beccato il giorno prima che Kennedy passasse per Dallas, si sarebbe detto che un povero sprovveduto stava organizzando un improbabile attentato al presidente degli Stati Uniti. E lo stesso si sarebbe potuto dire (lo stesso giornalista di cui sopra ha fatto anche questo paragone) di Gavrilo Prinkip che con l’attentato di Sarajewo accese la miccia della prima guerra mondiale. E lo stesso si potrebbe dire di tanti altri casi.
Siamo da poco usciti da un secolo in cui le parole sono state spesso pietre acuminate. I futuristi esaltavano i lanciafiamme e le altre armi moderne. A loro sembrava un bel gesto per scandalizzare i borghesi. Poco dopo quelle armi sbudellavano realmente milioni di persone nella prima guerra mondiale. Negli anni settanta prima si mimava la P 38 con le mani, sembrava un gesto innocuo; poi la P 38 si è materializzata e ha sparato. E non voglio continuare con gli esempi.
Nel caso di Cossiga al consiglio criminale a Maroni si unisce l’esaltazione del proprio stesso operato. L’istigazione si combina con l’apologia del (proprio) reato: ovvero: confessione senza pentimento: confessione come rivendicazione (e se – ipotesi improbabile – non fosse vero, allora sarebbe simulazione di reato).
Ma che mi aspetto da questa denuncia?
C’è un obiettivo massimo e un obiettivo minimo. L’obiettivo massimo è la condanna di Francesco Cossiga per i reati che gli contesto. Se io avessi istigato la folla a rapinare una banca sarei stato arrestato e giustamente condannato. Se Cossiga fa di peggio deve restare impunito? E’ pazzo? Ma allora lo si proclami pubblicamente e si dica urbi et orbi che tutto quello che Cossiga dice va attribuito alla sua malattia mentale. Ma in questo caso non gli si faccia da altoparlante. Se invece non è ufficialmente dichiarato incapace di intendere e volere va considerato responsabile di quello che fa e di quello che dice, soprattutto quando quello che dice può influenzare i fatti, o comunque incoraggiare a commettere atti delittuosi.
E l’obiettivo minimo? Una volta un contadino prussiano aveva fatto causa non ricordo a quale personaggio importante. A chi gli obiettava che non avrebbe ottenuto nulla, rispose: “Ci sarà pure un giudice a Berlino”. Anch’io mi auguro che ci sia un giudice a Berlino. Ma se c’è o non c’è non dipende da me. Ma almeno che si sappia che non ci si rassegna, che non ci si abitua. E che qualcuno (non una sola persona, sono molti) reclama che questo giudice a Berlino ci sia e faccia il suo dovere.
Pietro Leone
P.S. Nei commenti, l'appello in francese di un giornalista (francese) sul deteriorarsi progressivo della democrazia in Italia, a partire dalle dichiarazioni del senatore Cossiga. (Nel suo appello europeo, egli riprende il testo della denuncia).

11/04/2008

Avviso importante: depositata una denuncia contro il Senatore Francesco Cossiga

Questo non è un appello, è una segnalazione. Un'informazione.
E' stata depositata presso la Procura dela Repubblica di Roma una denuncia al senatore Francesco Cossiga, come si legge nel testo che qui di seguito incollo. Dopo di esso, incollo anche il facsimile per l'adesione alla denuncia.
Aggiungo solo questo, frettolosamente: chi sa, direttamente o indirettamente, che cosa è accaduto nel 1977 e dopo; chi è andato all'epoca alle manifestazioni di protesta (erano tante, e varie) senza riempirsi le tasche di bulloni, senza delirare su "alzare il livello dello scontro", e solo per protestare; chi ha conosciuto, direttamente o indirettamente, il trauma di essere oggetto di sparatorie, accerchiato, assediato, infiltrato; chi si ricorda il significato della parola "repressione", prima e/o dopo il G8 di Genova (io lo ricordo da prima), e chi si ricorda di Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa nel maggio 1977 da un proiettile sul Ponte Garibaldi a Roma, durante una manifestazione indetta dai radicali (!), plurinfiltrata da poliziotti infiltati e armati, allora sa come si può essere indignati per le dichiarazioni oggetto di denuncia dell'allora (anni Settanta) ministro dell'Interno Cossiga.

Alla Procura della Repubblica di Roma

I sottoscritti denunciano alla Procura della Repubblica di Roma il senatore Francesco Cossiga per le dichiarazioni da lui rilasciate a “Il giorno”, “Il resto del Carlino” e “La Nazione”, pubblicate su questi quotidiani il 23 ottobre scorso, dichiarazioni tanto più gravi in quanto provengono da un personaggio che ha ricoperto i ruoli più elevati nelle istituzioni della Repubblica Italiana.
Nell’ambito di queste dichiarazioni appaiono particolarmente delittuose le seguenti affermazioni (tra virgolette le parole del senatore Cossiga, il resto del testo è costituito dalle domande e dagli interventi del giornalista).
“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno”.
Ossia?
<…>
“In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...».
Gli universitari, invece?
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti».
Presidente, il suo è un paradosso, no?
«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

(Fonte: Rassegna stampa del governo italiano: http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=32976406)

In tali dichiarazioni sono rilevabili i reati – quanto meno – di istigazione a delinquere, commesso pubblicamente come richiesto dalla legge per la sua punibilità: istigazione rivolta sia al ministro Maroni sia agli stessi organi di polizia preposti all’ordine pubblico (art. 414 CP); di istigazione di militari (i Carabinieri) a disobbedire alle leggi a violare il giuramento – sulla Costituzione - (art. 266 CP:) e di apologia di reato (ancora 414 CP), in relazione ai reati da lui commessi ed ora spudoratamente confessati.
I sottoscritti chiedono che per quanto sopra si proceda penalmente a carico del sen. Francesco COSSIGA per i reati suddetti e per tutti quelli che potranno essere ravvisati.
Dichiarano di sentirsi, come cittadini della Repubblica, persone offese da tali reati; riservano la costituzione di parte civile e formalmente chiedono, ai sensi dell'’art. 408 CP, di essere informati in caso di richiesta di archiviazione.
I firmatari denuncianti sono 5. Le adesioni allegate 218. Tra i firmatari, Pietro Leone – nato il 16 06 1939, residente a Roma - e-mail: piero.leone@gmail.com, a cui si possono far pervenire, anche per fax, le adesioni. I suoi recapiti: 06 3220789 (tel. e fax) e cell. 3396085505.

FACSIMILE PER ADERIRE:
Alla Procura della Repubblica di Roma

I sottoscritti cittadini italiani dichiarano di aderire alla denuncia fatta alla Procura della Repubblica di Roma, da Pietro Leone ed altri, nei confronti del senatore Francesco Cossiga a proposito delle sue recenti dichiarazioni ad alcuni giorni in cui i denuncianti hanno ravvisato l’ipotesi del reato di istigazione a delinquere (art. 414 CP), istigazione di militari (art. 266 CP) e apologia di reato (ancora art. 414 CP).
Cognome Nome Data di nascita Indirizzo Firma

11/02/2008

Jean-Luc Nancy, "Stagioni del mondo" (un inedito)

Ho ricevuto dal filosofo Jean-Luc Nancy questo testo inedito (e recentissimo), Saisons du monde, che ho tradotto per l'Unità, in edicola oggi. (Sempre oggi su l'Unità parte una mia rubrica dal titolo "Acchiappafantasmi" - questa prima sugli studenti, gli anni Settanta e sul fantasma di Cossiga, nei confronti del quale sta per partire una denuncia di cui vi aggiornerò. Ora è più bello leggere Nancy).

STAGIONI DEL MONDO, di Jean-Luc Nancy

Le «età del mondo» rappresentavano il più delle volte una forma di successione continua, uguale a quella delle età della vita e che spesso, come la vita, passava da un’infanzia a una maturità, poi a una vecchiaia. L’infanzia stessa poteva a volte essere luminosa e inaugurale, altre rude e oscura; ma l’invecchiare era assicurato, e con esso la perdita della brillantezza e del vigore, sia quelli dell’infanzia che dell’età matura. Si poteva anche concepire l’idea che alla vecchiaia seguisse una rinascita, ma sarebbe allora un altro mondo, non più un’altra età. Sarebbero un’altra vita e un’altra natura – oppure le stesse, ma sotto altri cieli.

Passata l’età delle età, il mondo incontrò la storia, non più regolata sul modello di una vita, ma su quello di una concatenazione di azioni notevoli. Tali azioni erano quelle degli umani, e ci si allontanava così dal processo di un mondo. Gli uomini fondavano, inventavano, conquistavano, producevano. Producevano se stessi nelle loro civiltà, nelle loro culture, nei loro pensieri e nelle loro rappresentazioni. Questa produzione conosceva delle epoche e delle aree. La geografia delle aree – oriente o occidente, isole o continenti, spazi aperti o chiusi – incrociava nella sua distribuzione contingente delle successioni di epoche, cioè delle durate relativamente stabili e identificabili, come un ordine interno di significati, ossia come un « mondo » (il «mondo greco», il «mondo delle cattedrali», ecc.). Ma questa successione di mondi non apparteneva a sua volta a un mondo: la storia in quanto movimento eccedeva l’idea di mondo. Piuttosto, essa trasformava il mondo: sia con incessanti modificazioni o mutazioni di quella stessa idea – e soprattutto, con l’invenzione di « nuovi mondi » - sia al contrario proiettando la finalità di tutto questo processo – o progresso – come la produzione di un ultimo mondo che sarebbe di fatto una nuova natura: quella di un’umanità strappata agli assoggettamenti dell’antica.

La storia ha fatto epoca: la sua epoca al tempo stesso si richiude e si prolunga. Si richiude in quanto rappresentazione di un processo (e ancor più di un «progresso»), e si prolunga in quanto evento, mutazione, spostamento. Non c’è più fine né orizzonte. Niente più fine, né mirata (visée) né visibile (anche se pensiamo sempre – e dobbiamo farlo – di poterci dare degli «obiettivi»); e niente più fine come compimento. Né skopostelos. Di conseguenza, più nessuna «fine ultima»: niente più eschaton – a meno che, potremmo anche pensare, non vi ci sia già, e senza saperlo procediamo verso il nostro giudizio finale in una conflagrazione cosmica.

***

Noi non possiamo anticipare. Eppure sembra proprio che la grande trasformazione del mondo in cui siamo entrati – che si chiama «mondializzazione», come se la sua posta in gioco fosse tutta nel sapere se ci sarà ancora «mondo» oppure no – proceda a grandi passi fuori dalla natura e dalla storia, fuori dalle età e dalle epoche, verso un altro spazio-tempo, un altro ritmo.

Noi possiamo tentare di parlare di stagioni, intendendo con questo ciò che non è né età (ciò che tornerebbe, all’interno dello stesso mondo) né epoca (perché non si stabilizza come un ordine o una struttura); e che non rimanda a un processo continuo, né progressivo né regressivo. Le stagioni ritmano un ciclo, ma ciò che conta in questa parola - «stagione» - è meno il ritorno ciclico che non le variazioni del cielo, dell’aria e della terra, dei colori e delle fragranze: un tremore discontinuo della sensibilità.

Noi non consideriamo, parlando di stagioni, né il semplice valore naturale dei vari sbocciare e ibernarsi, né ben inteso il valore storico secondo cui, tendenzialmente, «non ci sono più stagioni», perché la lunga portata del processo le rende insignificanti. Cerchiamo al contrario, al di sopra di natura e storia, o a lato di esse, spostato, il valore della sensibilità al cambiamento, e della capacità di conformarsi o confrontarsi ad esso.

Più che del tempo che passa, si tratta del tempo che fa. Più che del tempo cronologico, del tempo meteorologico. Non di un vettore uniforme, ma di una costellazione mobile di eventi, umori, passaggi e fughe, occasioni – possibilità e rischi – disseminate lungo un tragitto imprevisto, aleatorio, piuttosto che nel corso di una durata omogenea.

Secondo la stagione – che non è mai la stessa che negli anni passati – si tratta di adattarsi, non con sottomissione ma con ingegno e attenzione. Non di restare al riparo della pioggia o del sole, ma di coglierne il gusto, gli umori, aggirarne gli ostacoli favorendone le risorse. Sono, questi, il sapere e la facoltà dei contadini: noi non cesseremo mai di esserlo, per quanto operai e cittadini siamo potuti diventare.

Del resto, non vediamo trasformarsi anche i nostri lavori e le nostre città, fino a non assomigliarsi più? Non diventiamo forse qualcosa d’altro che operai e cittadini ? Contadini di un altro paese, di un altro paesaggio. Coltivatori di una terra sconvolta di cui ignoriamo ancora se sia coltivabile, e quali frutti potrebbe portare. Né Oriente, né Occidente, né Sud, né Nord, ma in tutti i sensi spostamenti, ricomposizioni, derive di continenti, desertificazioni e innalzamenti dei mari: natura rimodellata, storia dai racconti multipli e reversibili, destini improbabili privati di Dei come di astri.

Stagioni: ciò che vorrebbe dire prima di tutto suspens e attenzione sul bordo di ignote germinazioni, forse mostruose, forse generose; ciò che vorrebbe dire farsi o lasciarsi diventare sensibili ad altri ritmi, altre andamenti del cielo e della terra – e forse alla possibilità che non ci siano più cielo né terra, ma una configurazione inedita, un altro mondo, più cosmico o tellurico, più intrigante e non meno inquietante di quello cui si esponevano i primi uomini.

Stagioni: cioè ragioni di sentirci ancora, se è possibile, al mondo.

11/01/2008

Il giorno in cui è morto Borges

Aspettando il giorno dei Morti (e dei Santi), facendo ordine tra i files, i cassetti e i fogli virtuali del vecchio computer, ho trovato questa specie di racconto uscito sulla rivista "Marka" nel 1986 (avevo ventisei anni), che mi aveva chiesto un intervento sul "narrare"; e poi una foto di me vent'anni dopo. C'è un evidente legame tra l'uno e l'altra. E tra tutt'e due e il giorno dei Morti (e dei Santi).


Come se venissimo scacciati nei boschi

Vorrei cominciare da una passeggiata.
Domenica 15 giugno sono uscito di casa dopo mezzogiorno. L’idea era di sedermi a leggere da qualche parte, e magari mangiare qualcosa. Sulla strada ho comprato il Corriere della Sera, avevo con me un quaderno e il libro di appunti di Walter Benjamin su Parigi. Devo fare in questi giorni un programma di ricerca per sollecitare un nuovo credito in forma di borsa di studio, consacrato come quello precedente alla letteratura intima ed epistolare, in particolare di alcuni autori romantici. Ho pensato che leggere gli appunti di Benjamin sulla fla^nerie mi avrebbe dato delle idee: anche la lettera è un vagabondaggio.
Ho scartato l’Ile Rousseau, dove ho spesso studiato, perché il bar è troppo caro e di domenica troppo affollato. Ho pensato alla vieille ville, col sole e gli alberi. Del Café Papon, nella terrazza che si affaccia sul parco dell’università, ho il ricordo di un buon posto dove leggere il giornale.
Ma hanno cambiato l’arredo, e quando arrivo trovo dei tavoli grandi e inospitali, buoni per mangiare la pizza in comitiva (l’accento dominante tra i clienti è americano). Giro intorno al bar indeciso, quando accanto a un albero scorgo un piccione morto, forse decapitato, con del sangue raggrumato intorno. Mi esce una breve esclamazione di disgusto, più che altro rivolta all’inconsapevole indifferenza dei clienti sudati che mangiano lì vicino, e del personale di servizio. Alla fine scelgo di sedermi a un tavolo vicino all’entrata del ristorante, all’ombra e lontano dal piccione. Appena mi siedo faccio uno starnuto, mi guardo intorno per comandare qualcosa e sul muro di fianco, a un palmo dalla mia testa, vedo un buco tra i mattoni nel quale galleggiano su delle ragnatele, in un disordine amorfo, vari detriti, tra cui una chewingum masticata. Questa visione mi fa più schifo della precedente, perché non è possibile alcuna redenzione, e brontolando mi alzo seguito dallo sguardo di una coppia. Inizio così una peregrinazione sotto il sole, il libro voluminoso di Benjamin in mano, da un bistrot all’altro, ogni volta respinto da una minaccia diversa. L’ultimo posto puzzava di fonduta al formaggio.
Eppure, penso, l’aria è bella e pulita, il cielo è azzurro e bianco, c’è il sole e ho voglia di sedermi a leggere. Mi fermo sulla Terrazza Agrippa d’Aubigné, dopo aver percorso la rue Calvin e costeggiato la cattedrale. Da una fenditura tra gli edifici guardo il lago, il getto d’acqua bianca e spumeggiante che spunta sopra i tetti, le onde e le barche a vela. Le case intorno sono sobrie e color crema, dalle finestre intravedo qualche interno e mi viene voglia di trovarmi a Parigi, così, per vedere delle case. Del lago, in fondo, non mi importa più di tanto. Così mi accorgo, accendendomi una sigaretta, di non avere nessuna premura, e appoggiandomi al muretto decido di sfogliare il mio giornale. E’ morto Borges. Allora vado a pagina tre, che è tutta consacrata a questo evento. Il primo articolo che appare è di Claudio Magris, “La letteratura non salva la vita”.

Spesso mi sono riferito a dei libri. Le letture fanno parte della mia sfera di esperienza a pari titolo (forse addirittura a maggior titolo, mi rimproverava un’amica) di altri miei atti o stati del mondo. Non solo le letture: voglio dire i libri, anche quelli non letti. Di conseguenza anche i loro autori. Sono sempre stato piuttosto sicuro nel riferire frasi tratte da libri, enunciazioni che potessero sostenere le mie idee (dunque mi capitava di avere delle idee da sostenere). Ad esempio citavo Gilles Deleuze, più spesso senza nominarlo: letteratura minore, letteratura di idee, movimenti, macchine astratte, esilio, stare sempre nel mezzo come l’erba, voltità, muro bianco e buchi neri, l’ape e l’orchidea, essere stranieri nella propria lingua (cercare di esserlo), linee di fuga, concatenamenti, divenire sempre, non diventare mai, metamorfosi vs metafora, ecc. Naturalmente altri concetti e parole chiave si sono aggiunte alla lista: opacità (contro la trasparenza), racconto breve, soggettività, narrare vs romanzo, diluendosi in un territorio così vasto che la libertà mi è sembrata alla fine totale, e ogni morale provvisoria, un po’ come quella frase di Giorgio Manganelli che un mio amico ama citare, “le vie della salvezza letteraria sono infinite”; e che mi potrebbe anche far comodo, se non fosse che, della salvezza letteraria, non mi importa assolutamente nulla.
La provvisorietà della morale letteraria (che non comporta la rinuncia a un’etica) ha preso per me questa forma, di volere situare quello che scrivo in un luogo o in direzione di un luogo. Non mi interessano soltanto le coordinate, per così dire, geopoetiche di quello che scrivo o che leggo, ma vorrei riportare nella scrittura l’effettualità e la coscienza aurorale che si trovano nell’esperienza quotidiana e nell’esperienza dello spazio. Per questo forse faccio fatica, oggi, a dire la mia sul narrare, o sul racconto, come se fosse possibile enunciare qualcosa che non sia in sé narrazione, come se si potesse dare una riflessione che già non si racconti, e viceversa.
In questo mio desiderio di reportage (si tratta in fondo di questo) c’è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Parlo dell’abitare. Sono stupito dell’abitabilità. Più ancora del mistero della luce, il fatto di abitare da qualche parte, che la gente abiti qui o là e che spesso affronti il problema della casa con quieta sicumera, mi turba e mi affascina: sia che si tratti degli invisibili abitatori di quelle ville allineate sul lago, tra Ginevra e Losanna, immersi nella nebbia sei mesi all’anno, sia dei pescatori di tonno dell’isola di Lampedusa. Forse perché mi sembra questa la finzione più grande, la più misteriosa - abitare una casa, un luogo, un genere, una forma, avere delle abitudini, di fronte a cui le mie reazioni sono mutevoli e contraddittorie: nostalgia, identificazione, desiderio di essere come gli altri; oppure repulsione, scetticismo, cercare una via d’uscita o di fuga.
Alla ricerca di un gesto, di una consuetudine, ho appreso nel cuore della città vecchia di Ginevra della morte dello scrittore Jorge Luis Borges. “Devono essere tutti fioriti gli alberi del cortile del Liceo Calvino, a Ginevra, adesso che Borges è morto, a due passi dalla scuola dove andò da ragazzo”, intonava un corsivo del Corriere. Allora mi volto, è vero, sono tutti fioriti da un pezzo. Dopo mi sono sentito più calmo. Ho letto sulla fla^nerie in un baretto qualsiasi, poi ho scritto sul quaderno una traccia di questo mio intervento a partire da quella “coincidenza”: scrivere sui luoghi (la scrittura deve dare delle forme per vedere il mondo; uno di quelli che oggi mi piacciono di più è James Ballard); passeggiata nella vieille ville (incidenti, piccione morto, odore di fonduta e morte di Borges – uno scrittore che ho amato – proprio nei luoghi in cui mi trovo in questo momento); questo apologo non ha una morale, e forse non è una storia, difficile è estrapolarne i nessi, ma non è la mia preoccupazione; infine, che di Borges mi piace soprattutto il gusto per gli avvenimenti semplici, effettuali, eventuali, e insieme il fatto che la sua opera non è che una serie di frammenti, di testi molto brevi e sparsi, come ha detto lui stesso.
Borges ha soprattutto insegnato che non c’è differenza tra pensare e raccontare, e ha introdotto una possibilità nuova, anche se evidente: fare il riassunto di una narrazione più lunga, di quel romanzo che si è troppo stanchi, o pigri, o scettici, per scriverlo e abitarlo.

Esiste una bellissima storia, raccontata dai Chassidìm, che mi viene ora in mente, e che mi sembra molto adatta a rilanciare un’idea etica del raccontare, oltre che a chiudere questo testo. La cito a memoria come l’ho letta tempo fa in un libro sulla mistica ebraica.
C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.

Per concludere devo dire della telefonata di V.
La sera di domenica 15 giugno mi ha telefonato un amico da Parma. E’ un bravo poeta, in questo periodo non compra i giornali, sta molto in casa e sta ultimando una raccolta di poesie. Mi ha letto qualche suo verso, poi mi ha annunciato che, di lì a poco, gli avrebbero tagliato il telefono. Poteva quindi indugiare più a lungo del solito. Nel corso della conversazione mi ha letto una frase di Kafka tratta da una sua lettera. Non so se faccia parte delle coincidenze, o anche solo della storia, né se sia importante situarla in un tempo. Ho però trovato importante trascriverla. Eccola:
“Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci colpisce duramente, come la morte di qualcuno che amavamo più di noi stessi, come se venissimo scacciati nei boschi, via da tutti gli uomini. Come la notizia di un suicidio, un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi”.

10/29/2008

Gli studenti hanno vinto

Il decreto Gelmini, o come diavolo si chiama, è legge. Ma gli studenti non hanno perso. Gli studenti hanno vinto. Sono loro che hanno ridato aria e vita a un'opposizione sfiatata. L'idea di raccogliere firme per un referendum abrogativo è ottima. Immagino in tutte le scuole e facoltà banchetti per la raccolta delle firme. Forse tutto questo ci voleva. Anzi, ne sono sicuro. Sembra di essere tornati nei primi anni '60 (io ero neonato, eppure li conosco bene) quando tutto doveva essere, per così dire, liberato. E quando, come oggi, i fascisti aggredivano gli studenti. Ma se questa destra si fa nemica dei giovani, se i giovani si svegliano dal torpore neutrale e dall'agio, l'energia ricomincia a scorrere. (Penso che non si dirà più, almeno spero, che tutti i politici sono uguali: questi provvedimenti li sta facendo un governo di destra, votato alle elezioni). E forse Berlusconi e il suo governo non ne imbroccano una: è di adesso la notizia che si vogliono criminalizzare anche i graffitari. Scrivere e disegnare sui muri sarà reato penale. Bene. Forse una nuova stagione comincia adesso. Comunque sia, gli studenti hanno vinto.

10/28/2008

"Pubblica. Università". "La forza della cultura contro la nuova dittatura". Un pomeriggio sotto la pioggia davanti al Senato.

Mi sono infradiciato di pioggia, ma non riuscivo a scollarmi da lì. Da Piazza Madama, davanti al Senato, al di qua delle transenne che impedivano l'accesso a ragazzi e ragazze che ostinatamente sono restati lì a cantare, gridare frasi, con una gran bella energia. Ho salutato la figlia di un'amica, ci siamo parlati a una distanza di pochi metri, ma come il muro d Berlino, attraverso i poliziotti in tenuta antisommossa con elmetti e manganelli (ma tutto sommato tranquilli). Molti di loro sono di mezz'età: non vedono i loro figli? e gli altri, non riconoscono se stessi, o i loro fratelli? Alla Gelmini e i suoi non penso: mi ricordano i soldati di piazza Tienammen che massacrarono giovani e studenti, soldati scelti - nell'immensità territoriale della Cina - proprio perché parlavano un'altra lingua, non capivano quella degli studenti, quindi non c'era rischio che si capissero, che comunicassero. Ecco, lei, e quelli del governo sono cieci e sordi senza rimedio, ma per loro scelta.
Sono i pensieri "banali" che mi affioravano oggi, dopo aver passato con una certa apprensione il varco di camionette, furgoni e jeep, e una marea di carabinieri, polizia, guardie di finanza, tutti schierati a presidiare la zona sotto un cielo di piombo. Ho esibito la tessera di giornalista, sono passato, e in cuor mio camminando mi sono sentito un impostore (loro non sanno, mi sono detto, che sono anche un docente, un insegnante, uno che fa ricerca, ciò che basta e avanza per fare di me un facinoroso nemico del governo). Comunque sia, fa impressione la sproporzione tra le strade militarizzate e l'inerme generosità degli studenti che manifestano per il diritto di studiare e continuare a farlo, nient'altro. Gli slogan si alternano a musica, ora quella degli Eurythmics. Bella, chissà cos'è per i iceali la voce di Annie Lennox, dico sorridendo a una giornalista francese. Solo quando il corteo degli universitari - dalla Sapienza e da Roma Tre - si stava avvicinando - sospinto a piazza Navona, praticamente chiuso nella piazza - i poliziotti si sono messi gli elmetti azzurri. A fronteggiarli, a fronteggiare il Senato, già molto prima della discussione che dietro i finestroni accesi di Palazzo Madama sarebbe cominciata alle 17, i ragazzi delle scuole: "Siamo noi, siamo noi / il futuro siamo noi". Noi non paghiamo la vostra crisi", e sopratutto: "Non siamo / facinorosi", scandito col battito delle mani, "Non siamo / disinformati", idem. Già: disinformati sembrano essere (ma non lo sono) quelli che ancora non riescono a commuoversi, se non a dare ragione ai ragazzi. "Se vogliono studiare perché non vanno nelle aule?", blatera una che dice di essere del giornale "Libero". Scoraggiante. Vicino a me, un gruppo di poliziotti col manganello appeso alla cintura parla di soldi, si lamenta degli stipendi, uno dice che non c'ha una lira, l'altro che "siamo gestiti male". Non ho potuto fare a meno di udirli.
Saluto un'amica senatrice dell'opposizione, una che si è occupata a lungo di scuola. Cattolica di sinistra. Parliamo di cinismo. Tutti i deputati e senatori pensano ai loro interessi, a omaggiare il capo. No, non ci sarà nessuno scrupolo di coscienza ad affondare la scuola, l'università, la ricerca (solo di questa parlano gli slogan degli studenti). Troppo sudditio, e preoccupati del loro stipendio e benefici. E forse, aggiunge l'amica senatrice, questa potebbe anche essere l'ultima manifestazione, se tanto ci dà tanto. Il regime. Cosa gli impedirà di varare una legge che sopprime la libertà di manifestare? Ma dice anche un'altra cosa: che questa protesta è straordinaria, perché gli studenti che protestano stanno difendendo il loro Paese e il loro futuro con le loro esistenze, e la loro lotta è un fondamento della democrazia, ma anche di una nuova politica.
Quando a Piazza Navona arriva il corteo degli universitari, troneggia uno striscione con su scritto, su fondo rosso. "La forza della cultura / contro la nuova dittatura". E' bello. E ancora sto lì a pensare, con amarezza, che le cose sono molto chiare. Gli studenti gridano con energia soprattutto due parole: PUBBLICA / UNIVERSITA'. Non è così difficile da capire, né da sottoscrivere.
Sono fradicio d'acqua, continua a piovere a dirotto. Loro continuano a manifestare, stretti nel varco che conduce a Piazza Navona a fianco dell'ex mitico Caffé di Columbia, come continua la luce dietro le finestre di Palazzo Madama. Là dentro i tempi sono burocratici, i senatori della maggioranza non hanno nemmeno il tempo di argomentare la loro opposizione. Occorre fare in fretta, chiudere e votare domani, e chi se frega, è un decreto legge, mica una riforma. Fuori dal palazzo invece la vita pulsa, e sarò anche sentimentale ma qui ci sono esistenze consapevoli di quello per cui si battono, di quello che perdono. Poco prima, spot di tre senatori dell'Italia dei Valori, scesi a solidarizzare con gli studenti, c'erano solo i liceali, quelli che gridavano al ministro Gelmini, brandendo il proprio portafogli: "Vuoi anche questo? / Gelmini vuoi anche questo?". Il dalla Sapienza e Roma Tre doveva ancora arrivare. Ora sono qui, vogliono restarci a oltranza, tempo permettendo. Stanno gridando: "Se non cambierà / lotta dura sarà", e "Siamo tutti antifascisti", e ancora: "Pubblica / Università". Ok, fatemi uscire, lascio questa zona algida e protetta, lascio il Senato, i giornalisti e i poliziotti alle spalle, voglio andare al di là delle transenne, dove pure piove ma c'è calore, in fondo non ho mai smesso di essere uno studente, né intendo farlo.

Giallo Parma e cielo azzurro

Oggi su l'Unità c'è una mia "memoria" delle Barricate di Parma (cronaca di una duplice esperienza, le testimonianze filmate di chi le Barricate le vide e le fece, e una "passeggiata" oggi negli stessi luoghi di quell'epica, dove le badanti e gli immigrati hanno oggi sostituito i proletari di un tempo). E, sempre su Parma, incollo qui una sorta di reportage gonzo, in realtà assa serio, uscito sull'ultimo Venerdì di Repubblica, la settimana scorsa. Quello che non avrei previsto era che il direttore del giornale locale intervistasse il prefetto di Parma sul mio pezzo (ne riporto alcune frasi nella mia replica). Buona lettura.

Giallo Parma
Cammino per Parma, la mia città in cui non abito più. Ho visitato la mostra del Correggio – la sua sensualità angelica e ammiccante - e contemplato da vicino, grazie alle impalcature, gli affreschi nelle cupole del Duomo e della chiesa di San Giovanni, quel giallo vorticoso che risucchia verso l’alto (che da bambino mi ricordava l’uovo all’occhio di bue). Poi sono andato nel parco periferico in cui è stato picchiato e sequestrato lo studente ghanese Emmanuel Bonsu da un gruppo di vigili in borghese: il giallo delle foglie, dei vialetti sabbiosi “stile Versailles”, dei muri dell’ex fabbrica Eridania, ora Auditorium firmato Renzo Piano. Giallo Parma, che confonde sacro e profano. Come la foto del cadavere del giovane Mario Lupo, accoltellato nel 1972 dai fascisti, pubblicata dalla Gazzetta di Parma per annunciare il libro del fotoreporter locale Giovanni Ferraguti. C’è poco spazio per la memoria dell’antifascismo, un tempo vivissimo, nella “città cantiere” dell’ex sindaco Ubaldi. Si respira ancora l’ideologia della modernizzazione, anche se la ristrutturazione permanente è nell’agenda dei costruttori. Una politica spettacolare e spregiudicata ha sfidato il buon senso nel progetto di una metropolitana (13 km, fermate ogni 700 metri, per una città di 170 mila abitanti che vanno tutti in bicicletta), e quello del ridicolo nei ponti faraonici alla Calatrava. All’inaugurazione di uno di essi, ha detto il rappresentante europeo: bel ponte, peccato manchi il fiume. A Parma c’è solo un omonimo torrente, quasi sempre in secca.
Seduto al caffé, sui giornali locali vedo rimbalzare gli stessi titoli. Processo Parmalat; condanne confermate per i complici del killer di Gianmario Roveraro, finanziere dell’Opus Dei (che salvò la Parmalat quotandola in borsa). Il killer, Filippo Botteri, giovane consulente finanziario, emblematico della Parma bene e del suo stile di vita, sembra uscito da un romanzo giallo del parmigiano Valerio Varesi, il più simenoniano degli scrittori italiani (il suo commissario ha il volto di Luca Barbareschi in tv). Leggo dell’operazione all’occhio di Emmanuel Bonsu (detto “negro”) dopo il pestaggio, e le testimonianze che inchiodano i vigili; leggo su "Polis Quotidiano" le dichiarazioni del comandante dei vigili urbani delle Terre Verdiane sul fattaccio di Parma: “da noi non sarebbe mai potuto accadere, è una questione di stile di comando”. Timida richiesta dell’opposizione di sinistra: dimissioni “temporanee” dell’assessore alla polizia municipale. Si mormora di una futura alleanza, o inciucio, tra il centrosinistra che governa ancora la Provincia e la “Civiltà parmigiana” di Ubaldi, sindaco di centrodestra per dieci anni e padrino un po’ deluso dell’attuale.
Leggo che la “Fiera del Lusso” (?) non si farà, se non in tribunale (guerra non chiarita di carte bollate) mentre apre la nota “Mercante in fiera”: era la mostra dell’antiquariato, ora si vende un po’ di tutto. Crisi del Parmigiano: i produttori incontrano il ministro leghista delle politiche agricole, ma il ministro non si fa vedere. L’universo concettual-pubblicitario dei parmigiani è a rischio implosione. I suoi simboli sono gadget onnipresenti, come l’icona di Verdi con barba e cilindro riproposta anche intorno al gazebo che oscura in parte la statua del Parmigianino, con totem di coppe e prosciutti hard core a sedurre i turisti, e gigantografie in polistirolo di Verdi a benedire. Quale il sacro, quale il profano? C’è il “Festival Verdi”, e sotto le volte del Municipio un’installazione apposita: due poltrone rosse simil Frau, brani registrati, grandi pannelli con fotografie de La Traviata e sibillini frammenti d’opera: “Tutto è follia nel mondo”, “Gioire di voluttà”, “Di quell’amor che è palpito”. Sembra di stare in una grande osteria all’aperto. Manca solo l’accento impastato, o l’ironia sublime della voce di Paolo Nori, altro scrittore esule parmigiano.
Alla manifestazione antirazzista, mentre in piazza parlavano i rappresentanti della comunità ghanese e il segretario della Cgil, gli altoparlanti coprivano le voci con la Traviata. Ma Parma non è razzista, lo scrive Alberto Bevilacqua, e tecnicamente forse è vero. Di certo è sazia e soddisfatta di sé, sprezzante verso i poveri e i diversi, incapace di guardarsi dal di fuori. Clinicamente si dice “narcisista”: un circuito chiuso e autoreferenziale che cerca conferma di sé, dunque insicura, come gli Italiani all’estero che cercano gli spaghetti ovunque. I parmigiani si sentono speciali, ma di speciale hanno solo questo sentimento, o presunzione, un darsi di gomito che racchiude chissà quale appartenenza. Simulacri e marketing, dall’austriaca Maria Luigia ad Arturo Toscanini che emigrò in America. Ne era spia il tic linguistico, “città dell’eccellenza”, sulle labbra dell’ex sindaco. Eccellenza di che? A Parma si allunga l’ombra della camorra, avvertiva Roberto Saviano su l’Espresso. Lo ha ripetuto il parmigiano di nascita Carlo Lucarelli a un incontro pubblico. Mi ha detto poi: “Parma è bellissima, ma deve riconoscere i suoi problemi: come altre città ricche del Nord è permeabile ai capitali della mafia. L’unico vero antidoto è la cultura, la socialità, la sua tradizione”. Tra i problemi, i fallimenti finanziari della Parmalat di Callisto Tanzi (“come una brutta storia di mafia”, ha detto il pubblico ministero Greco), della Guru di Matteo Cambi, cocainomane e bancarottiere, ditte che chiudono e casse integrazioni. Altri omicidi senza passione, che hanno riempito le cronache negli ultimi anni. Sullo sfondo, i tanti appalti della “città cantiere”, anche quelli che stravolgeranno il volto della storica piazza mercatale della Ghiaia, o del medievale Ospedale Vecchio, sede dell’Archivio di Stato, trasformato in albergo di lusso. Appalti spartiti dai soliti noti.
Molti ironizzano sulle ordinanze del sindaco Vignali, e la Carta sulla Sicurezza firmata proprio a Parma. Tolleranza zero contro chi va a puttane, chi butta le cicche per terra, chi mendica, bivacca, imbratta i muri, chi parla forte e disturba il quieto vivere, chi piscia per strada. C’entrano con la sicurezza e la paura della gente? Anche l’ex sindaco Ubaldi ha preso le distanze: “Abbiamo già tre polizie per la repressione del crimine. Metterci anche i vigili è sbagliato. Si sollecitano reazioni allarmate, si autorizzano isterie collettive”. Massimiliano Brunetti, cronista di "Polis Quotidiano", mi ricorda altri discussi comportamenti della polizia municipale, come lo sgombero di profughi sudanesi del Darfur da un’ex cartiera, gennaio 2005, tuttora ospitati da don Luciano Scaccaglia, parroco della Chiesa Santa Cristina, strenuo difensore dei non garantiti.
In tutto questo, Parma è un laboratorio italiano. Le trame opache del mondo finanziario, il consumismo estremo, l’infelicità inconsapevole tra ricchezze e luccichini, il senso di diffusa anestesia e indifferenza. Valerio Varesi, giornalista e romanziere, sospira: “Parma era un laboratorio sociale e libertario, ora lo è dei divieti. C’è stato un mutamento genetico? La sua storia è di una città da sempre contro le coercizioni, insofferente ai despoti - “popolo inquieto e incline al tumulto”, scriveva Bruno Barilli – dalle coltellate al Duca alle Barricate contro i fascisti di Balbo, e nei primi anni ’60 le lotte operaie”. Ricorda Mario Tommasini, l’assessore che con Basaglia aprì i manicomi e realizzò con Marco Bellocchio il film Matti da slegare, i brefotrofi svuotati, la creazione della fattoria di Vigheffio coi malati di mente. “La Parma di oggi è invece quella omertosa delle banche, questa sì un attentato alla sicurezza dei cittadini, della finanza virtuale, personaggi da Falò delle vanità di provincia, donne noleggiate e macchine sportive, la tv spazzatura che si fa carne. Quanto lontana da quelle solide basi contadine, i piedi ben piantati nelle zolle di terra, che costruì la ricchezza di Parma, quella delle industrie agroalimentari”. Come in Novecento di Bernardo Bertolucci, penso, dove il sacro e il profano potevano anche confondersi, ma non cancellarsi.

(uscito su Venerdì di Repubblica del 25 ottobre 2008)


"Parma è sana troppo clamore". "I parmigiani sono sconcertati la città dipinta dai media non è quella che conoscono". Questo il titolo della sconcertante intervista del direttore della Gazzetta di Parma al Prefetto Paolo Scarpis in reazione al mio articolo. Per replicare si è delegato il prefetto (a quando la critica stilistica e di genere al Ministero dell'Interno, con tanto di timbro che autorizza la pubblicazione?). Per dire che "Parma è diventata protagonista sui media per episodi che hanno avuto un clamore sicuramente sovradimensionato rispetto all'entità degli stessi", ha attaccato il sottoscritto. Questa la mia replica inviata ieri per e-mail alla Gazzetta di Parma:
"Leggo con comprensibile ritardo (dove abito la Gazzetta di Parma ahimè non si trova) un'intervista del direttore della Gazzetta al Prefetto di Parma, in cui si commenta un articolo di un non nominato scrittore su un non nominato magazine de la Repubblica. Il magazine è Venerdì, l'autore è Beppe Sebaste, il sottoscritto. Osservo solo questo: è una strana cosa chiedere a un prefetto, cui di solito ci si rivolge per avere dati su crimini e sicurezza, di esprimere un giudizio su stile e opportunità di un articolo che contiene a sua volta giudizi etico-estetici sulla città, nonché una certa nostalgia. Altrettanto strano è accettare di rispondere, e commentare ("argomenti triti", "spirito fazioso"), fino all'illazione e all'insinuazione ("a quanto so, è un parmigiano pieno di livore verso la sua città e non capisco perché"). E' uno stile che si commenta da sé. (Da parte mia girerò la lettera ai colleghi che sulla città si sono espressi nell'articolo in questione)".

Detto questo, spero che oggi non piova, almeno a roma, e che il cielo resti azzurro sopra le teste degli studenti che affolleranno la strada davanti al Senato in cui si discute del decreto Gelmini.