9/06/2009

Lo chiamavamo regime

Torna alla domenica su l'Unità la rubrica acchiappafantasmi:

“Alla politica si è sostituito il potere. La gestione delle cose, gli affari privati. C’è una specie di accettazione. Il senso dell’inutilità dell’agire collettivo. Non serve, si dice. Non produce effetti. Solo la pubblicità produce effetti... E’ stata una trasformazione molecolare... Vista dall’estero l’Italia resta solo un esempio da studiare sul declino della democrazia”. Sono alcune delle frasi di Nadia Urbinati (l’Unità, 12/8/2009) che hanno avviato un bel dibattito al femminile. Ma non riguardano, è chiaro, solo le donne. Mi riportano alla memoria un piccolo libro collettivo che uscì in marzo 2002 col titolo Non siamo in vendita. Voci contro il regime (fu anche distribuito con l’Unità). Il mio intervento si chiamava: “Dove comincia il fascismo?”. Faceva seguito un forum che organizzai a Parigi all'Ecole Normale col titolo "Italia: la resistibile caduta della democrazia". Alla sinistra (segretario Fassino) non piacque il libro né l’uso della parola “regime”. Eppure c’era già tutto. Nel libro c’era anche un breve testo di Giorgio Agamben (scritto nel 1994!) che avvertiva della soffocante dittatura mediatica che si sarebbe potuta istaurare sotto l‘egida di Berlusconi, “in cui la sistematica falsificazione della verità, della lingua, e dell’opinione, che ha già largamente corso, diverrebbe assoluta e senza spiragli, e in cui, abolita ogni critica, letteralmente tutto tornerebbe a essere possibile, perfino nuovi campi di concentramento...”.
Circolava già la sensazione di essere tutti, se non clandestini (non era ancora un reato), dei rifugiati politici. Lo so, i politici raramente vedono i germi delle cose e degli eventi. E il criterio pubblicitario-spettacolare, quello del successo, è stato ampiamente introiettato, soppiantando ogni giudizio (il successo si constata, non si giudica, e le idee si sottopongono prima ai sondaggi). Ma ora, pur avendo altri pensieri, e mentre l’Italia mi sembra raccontabile solo da un film horror, riprendo l’invito di Nadia Urbinati: massì, ribelliamoci come in Iran o in Birmania. E smettiamo di parlarne (del regime) come di un soggetto di conversazione da bar.

(uscito su l'Unità di domenica 6 settembre 2009)

1 commento:

Giuliano ha detto...

Quello che non mi sarei mai aspettato, venti o trent'anni fa, è che si potesse sorvolare sui legami di un politico con la mafia, accertati con sentenze passate in giudicato.
Gli italiani si sono appena un po' incuriositi alle "vicende private", ma hanno continuato soavemente a mandare al governo uno condannato per corruzione (quanti anni ha preso Previti? Sette, dieci?) e anche per mafia (quando arriverà la sentenza della Cassazione su Dell'Utri? forse mai, vista l'aria che tira).

Intanto, chiudono le fabbriche, si licenziano maestre e postini, ma se parli con i lombardi (e adesso anche con gli emiliani) la colpa è tutta degli extracomunitari...

Riflessioni tristissime ma vere, le tue.