10/26/2012

Per Tim Willocks, e per i suoi Re macchiati di sangue


   Quella che segue è la versione appena più lunga del pezzo uscito oggi 26-10-2012 su Venerdì di Repubblica ("Il mio western da veri duri che combatte il male a colpi di tenerezza", dedicata a Tim Willocks).

   Ha scritto Linwood Barclay che non si è mai pronti a leggere un romanzo di Tim Willocks più di quanto lo si possa essere prima di salire sulle montagne russe, e questo vale soprattutto per Re macchiati di sangue, appena uscito per Revolver (trad. di Katia Bagnoli,  pag. 432, euro 14,50). Anch’io sono un ammiratore di Tim Willocks. Lo sono non perché lui sia autore di polizieschi e thriller (Bad city blues, Il fine ultimo della creazione), romanzi storici (Religion, primo di una trilogia), ma perché ne evade i confini per rifondare un’epica contemporanea con una lingua contemporanea. Se dovessimo poi definire un genere, credo che la parola “western”, nella sua ambiguità, sia la più idonea a descrivere i romanzi di Tim Willocks.
   L’eroe dunque di questo western contemporaneo che è Re macchiati di sangue e si svolge in Louisiana, è uno strano doc, uno psichiatra depresso e fuori posto che, tra esplosioni di cieca violenza umana e fiumi di sangue, trova il tempo di ricucire le orecchie di un enorme cane lupo del quale è l’unico a non avere paura, e dalla cui amicizia sarà ricompensato. Come nei migliori romanzi sono infatti le pause e gli interstizi dell’azione che più ci emozionano. Il male è esattamente ciò che vuole cancellare “la beatitudine della tenerezza”. Per togliere il sangue rappreso sul volto di un uomo ferito a morte “dovette inumidire il fazzoletto con la saliva, proprio come faceva il padre con lui da piccolo”. Un po’ come l’eroe di quel capolavoro che è Religion, che nel bel mezzo della guerra più cruenta mai raccontata (l’assedio di Malta del 1565), ferito e febbricitante si perde a guardare le infinite sfumature di rosa nell’ordito di un tessuto, e in quel rosa riscopre le connessioni universali di tutto con tutto, e sarà questo a salvagli la vita.
   Tutte le storie di Willocks ridonano senso a parole come bene, male, eroe, padre, madre, figlio, guerra, amore, odio. Non vi si descrive solo la banalità del male, incarnato da temibili personaggi, ma la futilità della sofferenza, l’illogicità della violenza e della pretesa di capirla. A volte si spera in un ordine superiore (“Hai ragione, c’è troppo odio nel mondo. Ma dovrà pure servire a qualcosa, altrimenti non esisterebbe”). E c’è infine la qualità della scrittura. Mentre oggi i romanzi “di genere” sembrano sceneggiature, scritte goffamente “con” delle parole, la lingua di Tim Willocks è ricca, duttile, e coprotagonista delle storie. Sa raccontare i gesti di un fabbro che costruisce un coltello, descrivere una battaglia disperata e un amore struggente come musica jazz. E il pacifico paesaggio delle pianure alluvionali del fiume Ohopee, prima che esploda la violenza.
   Inglese di Manchester, cintura nera di karate, Tim Willocks scriveva già racconti durante gli studi in medicina, sfociati nella professione di psichiatra specializzato in dipendenze da droga. E’ un lavoro che ha lasciato alle spalle, così come la permanenza negli Usa dove lavorò come sceneggiatore con, tra gli altri, Spielberg, Michael Mann e Dennis Hopper, e da cui è tornato portandosi addosso la fama di una love story con Madonna (ciò di cui gli amici parlano rigorosamente alle sue spalle), e di essere stato coautore del Discorso per il Nuovo Millennio di Bill Clinton. Vive in un posto isolato dell’Irlanda, ma per fortuna (nostra) viene spesso anche in Italia, a Roma e soprattutto al festival del blues di Piacenza, dove si trovano ogni anno musicisti e scrittori che-non-se-la-tirano, e che amano appunto il blues. Ed è lì che ci siamo conosciuti anni fa...