Lo studio di Gianfranco Baruchello è pervaso di quadri, disegni, carte, cartelle, libri e soprattutto oggetti, tutti pertinenti al suo lavoro di artista che definirò «enciclopedico». Il suo nomadismo, estensivo e intensivo, è come la sua conversazione: un’esperienza di «semiosi illimitata», come trovarsi in uno dei suoi grandi spazi costellati di «geroglifici», segni, «punti cosmogonici», «accidenti in un perimetro», punti di riferimento e di crisi insieme precisi e ambigui, rigorosi e (quasi) indecifrabili, dove perdersi e trovarsi sono alla fine sinonimi. Il fatto che tutto c’entri con tutto, in una concatenazione virtualmente infinita, è la posizione filosofico-estetica comune: l’unica cosa che “non c’entra”, mi dice Baruchello, l’unica frase e domanda da bandire, è proprio: ‘Cosa c’entra questo con quello?’ Il rigore di Baruchello è nel disegno; il mio, dice lui, è nelle parole, e nell’uso della mia fragilità, o apertura. Provo con lui la stessa sensazione che ebbi nello studio di Bruno Munari: non esistono materiali sterili, si può adoperare tutto, anche l’assenza. Ma l’opera di Baruchello è, in più, venata di una consapevolezza politica (come la ricorrenza del concetto di valore d’uso di Marx), e la sua poetica mi coinvolge strettamente: amiamo entrambi gli archivi, gli elenchi, gli oggetti trovati e smarriti, la filosofia, perfino l'I Ching. La sua «creatività di confine» conforta il mio essere borderline nello scrivere. «Vuol dire non essere negli elenchi, essere fuori dai canoni», mi dice. Più metodico di me, ha segnato sull’ultima pagina bianca di un paio di miei libri (Oggetti smarriti e altre apparizioni, e H.P....), con la sua calligrafia minuta («baruglifica», direbbe Paolo Fabbri) una mappa di parole-citazioni che lo hanno interessato, col numero di pagina. Alla sua unica vera domanda a me – come io gestisca il problema della metafisica, quale sia il mio «meccanismo del pensiero», detto con le parole di De Chirico sulla pittura, appunto, «metafisica» – rispondo gestendo questo dialogo.
Guardiamo sul computer una serie di immagini di suoi lavori, e scorrono a salti un’opera e una vita intensissime: Baruchello ha fatto tutto, e prima degli altri. Dalla Coscienza del presente (awareness), esposto la prima volta alla mostra che lanciò la Pop Art (la mostra New Realists, da Sydney Janis, a New York, nel 1962), poi la stele con i libri incollati e sepolti nel bianco, Partout le silence sous le mouvement (nello stesso anno), esposta a Parigi con i collage in una mostra (Collage et objets) in cui c’erano tutti, da Picasso a Man Ray, a Max Ernst e a Rauschenberg; al grande quadro sul Capitale di Marx e gli altri di corredo (accumulatori di energia, con riferimenti a Duchamp), ai numerosi libri, al film ormai storico con Alberto Grifi (Verifica incerta, nel 1964) e quelli – una settantina – da solo. Fino al lavoro agricolo-ecologico a Santa Cornelia, nella campagna intorno alla sua casa oggi non più casa ma Fondazione. Sullo schermo appare un’immagine in bianco e nero di quella terra arata:
Ecco, qui l’opera è il confronto fra l’agricoltura e l’arte, tra valore di scambio e valore d’uso del prodotto agricolo e quelli del prodotto artistico. Il contadino vende la sua cosa, però la mangia anche lui, l’artista vende la cosa e non la mangia, anzi non può proprio vivere se non fa l’arte: ecco le differenze di valore. Su questo concetto ho lavorato e fatto libri, come Agricola Cornelia s.p.a. e poi Io sono un albero. Questo, invece (guardiamo l’immagine di un filone di pane in una cassa piena di terra) è una parte di Nascita e morte del pane, azione in cui il pane nasceva dalla terra, poi veniva martoriato, legato, incatenato, imbottito di giornali, tagliato a metà, e a un certo momento moriva, scompariva nella terra.
L’hai seppellito?
Sì, alla fine scompare nella terra. In altre azioni ho lavorato sui miti agresti, dal sacrificio del maiale dentro i solchi di Demetra al contagio di malattie veneree attraverso il fallo agreste. Questa (sullo schermo appare una pannocchia) è De senectute, pannocchie riscoperte in un cassetto dopo vent’anni, metà tarlate, che ho poi piantate nella terra: pannocchie vecchie che hanno generato nuove pannocchie. La vecchiaia rispetta il seme, mentre colpisce tutto il resto. Il mio primo film, Il grado zero del paesaggio, è del 1963; pochi giorni fa ho fatto un video per una mostra a Bruxelles che si chiama Le lieu: alla Fondazione, ho ripreso con la telecamera l’aratura di un pezzo di terra zoommando l’interno dei solchi, per fare un discorso sulla zolla…
A me interessa molto approfondire con te l’uso di concetti come capitale e valore, valore di scambio e valore d’uso, a proposito di arte. Inoltre, possiamo parlare anche del tabù del denaro? Oltre al cliché cattolico che lo vuole sterco del diavolo – una delle più astute leggende messe in giro dai ricchi per dissuadere i poveri dal diventare come loro.
È un’interpretazione che sottoscrivo. Vengo da una famiglia col culto degli industriali: mio padre era un uomo onesto della Confindustria, poi precipitato nel nulla insieme al fascismo. Dovevo assolutamente laurearmi, non fare lo stupido o l’artista, ho fatto diciotto esami e la laurea in un anno, tesi sugli Accordi monetari di Bretton Woods! Il denaro mi dà un enorme fastidio, ma bisogna avercelo, altrimenti sei perduto.
Per Marx il denaro era agente di emancipazione, liberazione...
Se ne deve parlare, infatti. Ma gli approcci sono talmente lontani, lui partiva dalla fine invece di partire dall’inizio. Tu sei qui con le mani e fai un lavoro: questo lavoro è denaro e questo denaro ti viene riconosciuto, a differenza del discorso della ricchezza fine a se stessa lontano da un’etica sociale. Ho fatto un film di recente, Sette minuti, due euro, riprendendo dalla mia finestra due muratori rumeni che facevano un lavoro (in nero) tutto a base di muscoli e pala senza alcun apporto meccanico o tecnico. Lì davvero vedi il valore, centesimo per centesimo, minuto per minuto del loro lavoro.
Quanto alla sollecitazione precedente, termini un po’ fuori corso come “valore d’uso e valore di scambio” mi sono sempre sembrati adatti a spiegare cosa cercavo di fare nel mio lavoro di artista al tempo della operazione “Agricola Cornelia” (1973). I prodotti della terra e della zootecnia hanno un valore (dunque un prezzo, una utilità) legato allo scambio, ma anche un immediato e diretto valore d’uso per essere elementi dell’alimentazione, e dunque della sopravvivenza fisica dei produttori stessi. I prodotti, chiamiamoli così, dell’arte, tentando una strumentale semplificazione, a seconda della loro natura, hanno anche loro, un cospicuo o misero prezzo, insomma, un riconoscimento economico da quello che si definisce il mercato. Ma in questo caso il valore d’uso è secondo me la capacità e la necessità di percorrere in solitudine lo spazio che precede la produzione del fare arte, cioè far vivere e funzionare il proprio “talento-mente” - pensare, percepire, immaginare ed esprimere. Il prodotto finale di per sé non esisterebbe senza questo presupposto, e l’artista non sarebbe tale se non traesse questo “valore d’uso” non già dal mercato, ma dal fatto di essere capace e partecipe della ” soddisfazione dell’essere” connessa col proprio lavoro.
Non è un orologio, è un contasecondi, tratto dal film Rétard, un termine duchampiano usato in altro modo. La parola rétard l’ho applicata al concetto di tempo che è uno dei temi base del mio lavoro. Esiste la possibilità di controllare il tempo e visivamente un oggetto qualsiasi – un albero, un cespuglio, un prato: prima guardi, poi scatti due secondi, e vedi di nuovo il prato, ad esempio, identico a prima, però sono passati due secondi. Quei due secondi hanno cambiato la struttura della materia, hanno cambiato te stesso, hanno cambiato tutto. Ho chiamato queste visioni rétard, parola inventata da Duchamp, mio amico-padre affettuoso che ha inciso la mia vita in maniera travolgente. Non è una sospensione, è un prolungamento fra due sguardi.
Hai raccontato spesso di avere iniziato con la poesia, la fascinazione della parola. Poi sei passato all’immagine, «l’immagine senza patria, senza grammatica e sintassi, immagine senza confini o prelevata dal sogno», «strumento liberatorio e ambiguo» che segna una libertà dalla logica e dal senso. Pensi lo si possa ancora dire?
Come no, l’immagine è orfana: Joyce, Pound, Céline. Le loro parole sono in qualche modo un sentiero, una specie di percorso del passato, che io rivedo in forma di immagine perché non le vedo più come parole.
È ancora possibile un’immagine orfana?
Oggi hanno troppi genitori. Io ho lavorato molto sul sogno, ho dieci volumi di sogni descritti e disegnati e su quei gruppi di immagini tratte da sogni non ho più voglia di tornare. Ho fatto un sogno l’altra notte, parlavo con sei persone e di ognuna vedevo la faccia molto precisa; poi mi sono svegliato e mi sono chiesto come sia possibile che veda una facce così precise e diverse di qualcuno che non so chi sia. Molti personaggi hanno una faccia così, un’immagine che non sai da dove viene.
Jean-François Lyotard parlava della «libertà degli orfani», e spiegava che il Sublime è l’irrappresentabile, categoria che descrive per lui l’arte contemporanea.
Lui ha detto anche che è un sentimento potente.
Anche Kant.
Sì, quando sono andato a trovare Lyotard a Fillerval, in una campagna vicino Parigi stava leggendo Kant: aveva davanti un unico libro aperto su uno spesso tavolo di vetro trasparente nel gelo di una soffitta; c’erano soltanto lui, il libro e il freddo. Era il suo modo di leggere Kant.
Il sentimento del Sublime potrebbe descrivere il tuo lavoro? Nel senso appunto dell’irrappresentabile, come l’arte concettuale, o come l’infinito?
Sì, ma come fine. Però non è facile dire «faccio una cosa pensando al Sublime». L’infinito mi funziona benissimo, nel senso del «naufragar m’è dolce», anzi se non naufrago, sto male. Pensando al tuo biografico «zigzagare», mi appari a volte come un Bouvard-Pécuchet (i miei eroi epistemologici) condannato a riuscire, a non fallire. Anche questa è un’epica dell’elenco.
Bada però che negli gli elenchi ho sempre messo una ragione – diciamo – di nonsense: sono un sacerdote rigoroso del nonsense, o mi diverte molto far finta di esserlo. Ho scritto un libro (inedito, non so se lo pubblicherò mai), I consigli del tricheco, un personaggio di Lewis Carroll che dice: «È venuto il tempo di parlare di molte cose, di navi e scarpe, di ceralacca, di cavoli e di re». Il fiabesco è un modo di elencare, non importa che cosa, con la scusa della fiaba; la poesia è il modo di mettere insieme «ships and shoes», irresponsabilmente. Se non è irresponsabile non è poesia; se c’è troppo senso non funziona.
Come in letteratura: non è la storia che conta, ma il narrare, non il soggetto, né comunicare qualcosa, ma il tono.
Non è né il soggetto né ciò che l’utente capisce. Certo, se capisce sono contento, ma non sono legato all’idea del comunicare qualcosa. Un giovane artista faceva un bollettino che si chiamava Comunicare fa male. Non arrivo a questo, bisogna anche comunicare, ma che cosa? Nella comunicazione oggi c’è l’intersezione del potere, che impone un uso distorto della parola: popolo, libertà, futuro, ecc. È stato fatto uno stupro nell’uso della parola sui giornali.
L’universo delle parole e della comunicazione è oggi ridotto a slogan o comando, parole vacue e senza referente (anche la «sinistra» sembra a traino di questa retorica).
Ho amato Ingrao, una delle poche teste politiche che si salvano della mia generazione. C’è anche Napolitano, che sa cosa dire, un uomo che non per nulla amava il cinema. Ora, dove sta la mente della sinistra, dove sono gli Sciascia?
Nel tuo zig-zag enciclopedico mi colpisce che la tua biografia sia puntuata e scandita da un confronto con Paul Klee, un ciclico ritorno a Klee. Che cos’è Klee per te?
Klee è il centro del vortice: io ho lavorato molto sul concetto di «piega», che come sai non è di Klee ma di Leibniz. Poi naturalmente Gilles Deleuze ha lavorato su questo. Ora nel concetto di piega, nell’arte, sopravviene quest’altra piega: è questa la storia dell’arte, piega di piega di piega. La piega cos’è? Klee parla del punto cosmogonico e tutto parte da questo punto – Klee è un gigante di fronte a Kandinskij, è una mia idea, anche se Kandinskij rimane un grandissimo pittore perché fa delle immagini travolgenti. Alla Klee Stiftung di Zurigo vidi un disegno, alcune ruote e linee intersecate con una data, 1939, in piena guerra, a matita su fondo bianco: il titolo era Presto cammineremo di nuovo. Quest’opera di Klee secondo me vale tutti i collage, le pennellate, i colori possibili: un titolo, una parola premonitrice, che designa uno schema, bianco e nero, la fine dei campi di sterminio e il ritorno alla vita. Ecco perché Klee è così importante. Non è un discorso della forma. Della storia, forse. Klee è un angelo, quest’angelo brilla come certi personaggi mancati, lui invece ha vissuto anche se poi si è ammalato e non ci stava più con la testa.
Penso alla tua definizione dell’arte come opposizione, come pharmakon: è ancora possibile?
Certo, è possibile: quando il mondo aspira ad altre cose che non la saggezza l’arte può essere il pharmakon. È importante provare a vivere come se si fosse artisti: è il discorso dei Consigli del tricheco, il «vivi come se» è importantissimo. L’esperienza non è mai triste, è sempre un arricchimento e può essere una sorta di opera d’arte, non nel senso di qualcosa di estetico, ma di raccontabile. L’esperienza è come il coito, si vive il piacere e successivamente non si è affatto tristi, ci si sente più ricchi.
Il tuo lavoro eccede i generi, e insegna che si può usare, fecondare qualunque materiale: un metodo che è anche un’etica…
Il mio genere è lo spreco, e lo spreco è tutta la mia vita. Nel film Ars memoriae ricompongo la mia vita e le persone che ho incontrato, frugo nel mio passato. Ho fatto un archivio di sessantadue schede in cui ci sono personaggi ed esperienze con cui ho creato il film, suddiviso in quattro parti. In una ci sono io che spiego post factum l’operazione. Alla fine, ho optato per l’oblio e mi sono ripreso mentre, una ad una, bruciavo le schede dell’intero archivio. Ricordare è infatti un dramma perché riporta in vita i fallimenti e gli errori commessi. Ancora oggi io continuo a sprecare la mia vita senza però farne un dramma.
Recentemente sei tornato al tema della terra, svolta ecologico-economica, ma anche riepilogo di tutte la tua opera. Cosa è la terra, e cosa «il luogo»?
Le tappe del mio tragitto sono l’oggetto, la natura, la materia. La terra come radice di un luogo, l’essere, e poi la materia. Ave, materia!, diceva Teilhard de Chardin, ora dimenticato. Ho fatto quattro disegni sulla zolla, sezioni di terreno, sezioni del bosco, l’aratura, avevo anche pensato di portare una zolla alla mostra di Bruxelles. Queste operazioni e questi disegni rispecchiano il mio modo di pensare. Mentre facevo il film per Bruxelles (da Greta Meert), Le lieu, ho girato parecchie inquadrature al cimitero di Prima Porta. Sono andato a guardare le sepolture dei senza tomba: quella terra serve a squagliare i corpi sepolti. Ci sono mucchi di terra già usata pervasi di morte, spinti in un angolo speciale del cimitero dai bulldozer. Questa parte, tra il retorico e il funebre (una retorica del funebre) nel film non c’è, non l’ho montata. L’idea è che comunque la terra non muore mai, anche se è pervasa di morte; accetta il seme e lo fa nascere.
«Il luogo» è tappa di una mia riflessione sull’essere e sul sublime nel senso che gli Lyotard (lettore di Kant): “ni universalité morale ni universalitation esthétique, mais plutôt la destruction de l’une par l’autre dans la violence de leur différend, qui est le sentiment sublime”. Mi approprio di immagini filosofiche, le concateno e le uso per cercare come sempre di fare apparire con le immagini l’inesistente ma possibile: «Le lieu et la formule», diceva Rimbaud. L’arte è strumento per un tentativo di capire il mio rapporto personale con l’essere, e il fine ultimo è l’étonnement d’e^tre, anzi una satisfaction d’e^tre, come dicevamo all’inizio, il piacere. Parametro che in me sostituisce il «successo».
C’è qualcosa che vuoi aggiungere alla fine (provvisoria) di questo dialogo?
Nel momento in cui le immagini del mio lavoro appaiono in molte delle pagine di questo “Alfabeta 2”, vorrei dire che questa presenza io la vivo come contributo personale al dibattito che questo numero propone nelle diverse articolazioni culturali e politiche. Anche se da un artista visivo non ci aspettano parole, queste immagini sono da “leggere” come testi che negli anni hanno espresso posizioni e interventi coerenti con la mia idea che l’arte può essere uno strumento per capire, commentare e, anche, resistere.
(la conversazione appare nel n. 4 di Alfabeta 2, in edicola e in libreria dal 16 novembre. L'intero numero della rivista è illustrato da immagini del lavoro di Gianfranco Baruchello)
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