10/31/2010
La scuola è finita (ma non c'è via d'uscita)
Un senso crescente di fallimento, anzi di disperazione. A ogni barlume di buona notizia o temporanea quiete, la paura quasi fisica che tutto precipiti nello schianto finale. Non c’è redenzione. Chi dovrebbe salvare dalle sabbie mobili sta egli stesso sprofondando, e mostra il peggio di sé. Tutt’intorno squallore, rinuncia. Peggio: abitudine. Tranne quel cieco, burocratico andare avanti esercitando il potere piccolo e gratuitamente oppressivo dei carcerieri indistinguibili dai carcerati. Nessuno crede a ciò che fa, e si inacidisce a imporlo. Se l’Inutile fosse una divinità, sarebbe la religione ufficiale. Nessun colpevole o responsabile del mefitico ristagno, ma concorso di tutti, come in certi gialli di Agatha Christie; ma qui non riguarda una stanza chiusa, chiusa e strozzata è la vita stessa, ogni orizzonte. La vita di chi deve ancora imparare a viverla, la cui ribellione e rifiuto a oltranza è in realtà un disperato alzare la posta in cerca di un’autorità da riconoscere. Sto parlando degli effetti del genocidio culturale, napalm versato sulla vita, di fronte a cui ogni protesta sul red carpet di un festival di cinema è folklore di lusso. Sto parlando della scuola, quella vera, in macerie, che nessuna fiction tv ha mai mostrato, coi buchi nei muri delle aule. Studenti che abitano case prive di libri, insegnanti che ai libri non credono più: noia contro noia. Nell’anestesia e insensatezza generale, il raro sogno di una liberazione, di un’estetica, ha la forma della musica che libera il corpo, o di una pasticca colorata. Sto parlando del film La scuola è finita del regista e insegnante Valerio Jalongo, ambientato nell’Istituto “Pestalozzi” di Roma, come il grande pedagogo (oggi fantascienza). E tanto peggio se la bella crudezza della prima parte del film venga anch’essa alla fine inghiottita dal vortice sentimentale di una fiction tv. Valga come autodenuncia della colonizzazione della nostra anima, della strozzatura dei nostri sogni.
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8 commenti:
L'ho messo anche su "Voci del verbo insegnare". Interpreti perfettamente come mi sento in questi giorni, al mattino, andando a scuola, un senso di desolazione che lega i miei passi, come a remare controcorrente.
C'è anche rabbia, per me e soprattutto per i miei giovani studenti, per quello che gli stanno/stiamo togliendo; e non è rabbia buona, perchè invece di incitare, ripiega. Spero che il vento cambi...
La "fuga" è oramai per tanti l'unica soluzione. Fuga da un orizzonte sempre più cupo, che tutti noi con la nostra "superficialità" abbiamo contribuito a determinare. Ciò che più mi spaventa è quel meccanico ed infondato senso diffuso di fiducia verso un miglioramento imminente che in realtà non c'è, è quel pensare che domani qualcosa o qualcuno sistemerà comunque le cose. Temo che ancora non ci sia una vera presa di coscenza dell'enormità di questa immane tragedia...
magda: è la malattia sociale più devastante del nostro paese, della nostra realtà devastata. empatizzo con te.
dmitri: sono ahimèe d'accordo. per questo ho pensato e detto alcuni giorni fa che proprio qui, in Italia (forse altrove in occidente, ma qui è annatamene marcato e dannato), c'è l'unico "conflitto di civiltà" che io conosco. (Il riferimento al napalm versato da chi governa, per la prima volta nella storia, sia con le leggi che con le tv, è scontato). (A me viene in mene l'0esclamazione di Kafka: "non voglio la libertà, voglio una via d'uscita").
A volte la via d'uscita sta proprio dove non guardiamo: dentro di noi e nelle cose più scontate. Credo che dovremmo manifestare diversamente il nostro malcontento per quanto accade nel nostro paese. Lo sciopero, le manifestazioni di massa, per quanto ancora affascinanti, lasciano il tempo che trovano...e soprattutto non trovano nessun riscontro in coloro che dovrebbero ascoltarci per poterci governare meglio...ma ci ascoltano? Potrebbero governarci non dico meglio, ma almeno in modo civile? Un esempio? un semplice boicottaggio continuo e costante di tutto quello che rappresenta uno stile di vita che non vogliamo ci rappresenti, dalle piccole cose della spesa quotidiana, fino a scelte un po' più "forti": se è vero che ci cercano di plasmare con la loro tv, ecco fatto, niente decoder... io posso scegliere e tutti noi possiamo e finchè ce lo lasceranno fare dobbiamo farlo con coscienza!
Anche io sono un'insegnante e vivo nel delirio quotidiano della lenta rovina di una istituzione in cui credo: cosa fare? parlarne sempre con le famiglie: ogni scelta che io faccio, dal programma alla gita all'acquisto del materiale la condivido, perchè capiscano quanto si fa e quanto si potrebbe fare se le scelte fossero state diverse e soprattutto quanto ci impediscono di fare e quali sono le imposizioni a cui dobbiamo sottostare. Non posso modificare le leggi, ma posso spiegarle alle famiglie, perchè la tv non lo fa, la stampa neppure e le info che girano parlano di cifre che non corrispondono alla realtà. Forse non cambierò il modo di pensare delle famiglie e forse non è quello che mi prefiggo, mi prefiggo che, se decidono di continuare a scegliere una determinata parte politica siano almeno coscienti delle conseguenze... e qualcuno diceva che uno stato si riconosce anche da come si occupa della scuola...
Buona domenica a tutti e grazie di questi preziosi spazi di pensiero!
Federica
grazie, federica.
Beppe Sebaste ha parlato di napalm, io, invece, parlerei di atomica; intesa come bomba, fatta esplodere sulla scuola (e non soltanto). Un ordigno che, al momento procura ingenti danni, ma continua la sua opera distruttiva per vari decenni a seguire. Il nostro paese (se mai uscirà da questa eterna emergenza spensierata) dovrà essere bonificato alle radici da generazioni che, noi scriventi, non conosceremo. Il mio è un ottimismo che si misura ad ere, non certo a anni.
lo sai che ne parlavo proprio oggi, che l'espressione giusta è "bomba atomica"? proprio per i danni e il tempo di recupero incalcolabile...
Un piccolo controcanto da un Liceo della periferia parigina : quella dei sassi e dei botti (non di Natale). Insegno italiano, ad articolare la lingua italiana, a dei giovanissimi, dei ragazzi che masticano i nostri suoni con la gioia che segue ad una lunga fatica ; insegno a dei più grandi a leggere dei testi letterari, e loro mi rendono le loro impressioni su quando sottopongo loro. Giusto oggi, commentnado un estratto da Gomorra, Le donne, una ragazza mi ha chiesto se é vero che le ragazze in Italia sognano di diventare le donne del "migliore" ? Dirle che é vero, e che c'é di peggio, non mi fa male. Forse é la distanza. Venite qui, lasciate l'Italia per coltivare il poeticissimo senso della nostalgia - la malattia del ritorno. Qui esistono ancora i concorsi. Si, avete capito bene. Per diventare professori, esistono dei concorsi. La nostra (o vostra ?) barbarie é anche nell'assenza di una lotta istituzionaizzata tra fratelli - che si scannano senza neanche la rassicurante presenza di un quadro (cadre, in francese suona meglio). Un caro saluto, Marco
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