Oggi su la Repubblica (ediz. romana) è uscito questo mio breve reportage, dal luogo in cui una mamma e il suo bambino sono bruciati vivi in una miserabile baracca)
Calpesto terra scura e umida e nere braci. I miei occhi toccano stoffe, utensili, pentole con dentro resti di cibo, pezzi di legno e di ferro non identificabili, e il vuoto carbonizzato dove prima c’era una baracca di legno, plastica, cartone. Vi abitavano una madre e il suo bambino di tre anni, Dorina e Kristinel, bruciati vivi mentre cercavano di scaldarsi accendendo il fuoco in un recipiente di metallo, come fanno tutti. I poveri sono pericolosi, sì. ma solo a se stessi. Nel labirinto di sentieri del sottobosco ci hanno guidato qui, Flaminia Savelli e io, tre gentili carabinieri. Solo pochi chilometri di questo stesso intrico di pini e lecci ci separa dalla tenuta del Presidente della Repubblica. Ho il permesso di varcare il nastro che transenna la tragedia. Guardo, in un luogo dove si dovrebbe ormai solo pregare, le baracche attigue superstiti.
Un luogo che non è in un altro mondo, ma negli interstizi del nostro. Arrivati alla rotonda di Ostia, di fronte al mare e alla luce, si gira a sinistra sulla litoranea che porta alle spiagge tra le dune, costeggiando a sinistra la pineta di Castelfusano. Dopo appena un chilometro, di fronte allo stabilimento Mariposa, con parcheggio e campo da tennis che arriva alla strada, un buco nella rete che cinge la pineta segnala il passaggio che conduce a uno degli insediamenti nascosti dei più poveri tra i poveri. “Extracomunitari”: la formula è giusta se non si riferisce a coordinate geografiche, ma economiche ed esistenziali: la comunità è dei ricchi, i consumatori; gli “extra”, gli esclusi sono i poveri, rom o rumeni che siano.
C’è freddo nel bosco, alle due del pomeriggio. Il sentiero scosceso si ferma in un anfratto piatto protetto dagli alberi, perennemente in ombra. Una batteria Bosch, un pentolino senza manici, alcuni piatti di plastica sparsi, vasetti di fiori rovesciati, uno specchio semicoperto di terra, tappetini di auto. Man mano che mi avvicino ai resti carbonizzati: una padella con rimasugli di cibo color zucca, un tavolino e una sedia di plastica bianchi, pezzi di motore di scooter. Tra i resti freddi del fuoco, neri e grigi, l’incongrua nota di colore di un lembo dell’inconfondibile tela verdazzurra per trasportare i morti, impigliato a un rovo. Ho i piedi gelati, è naturale volersi scaldare, qui. Ma sono gelato dentro. Cammino tra vetri rotti, carcasse di ferro, sedie di vimini rovesciate sugli aghi di pino.
A pochi metri la “casa” della vicina, Veronica, 35 anni, che aveva cercato di soccorrere Dorina. Mi affaccio: un materasso annerito, coperte, poco spazio per altro. Altro che consiste in un mobiletto bianco con su una pentola ancora piena di carne e sugo rappreso, un tavolinetto basso con sopra un tubetto di crema Nivea, un pacchetto di tè, fazzolettini di carta. Per terra una bottiglia d’aranciata e un bicchiere di plastica.
Proseguo il sentiero verso l’alto, una a una scorgo altre baracche, come quella di Lorenzo. Di fianco all’entrata, una stanza da bagno all’aperto, a suo modo molto ordinata: uno specchio tondo appeso a un ramo, un altro rettangolare incollato alla fragile parete, un pettine. Per terra, scarpe allineate e una collezione di saponi. In ogni baracca c’è una batteria da automobile per alimentare corrente. Salgo ancora, tra i pini una baracca che prima non vedevo. Anche qui lo spazio è occupato dal materasso, un tavolino di plastica è la cucina, accanto alla pentola un vecchio minuscolo televisore. All’ingresso un calendario cinese 2007 con disegni di animali, tappeti scoloriti. Nella rudimentale veranda, pattumiere di plastica e una scatola da scarpe che contiene bucce di patate, su un ripiano mezzo peperone e gambi di sedano in una vaschetta. Una bicicletta appoggiata a un albero, protetta da un telo verde. Sulle pareti esterne, rivestite di cartone da trasloco ancora con lo scotch, un foglio con un elenco di otto nomi, Tabel Benzina, un mini-censimento interno. Torno indietro, riconosco lo scheletro di una baracca in costruzione. L’appuntato Muzi mi riaccompagna. Emergo dal bosco e respiro guardando il cielo albicocca sul mare.
Ci sono tanti insediamenti di baracche come queste nella pineta. A uno di essi si arriva dall’ingresso della riserva naturale sulla Colombo, di fronte alla via della Villa di Plinio. Dall’elicottero si vedono bene, nell’intrico di alberi è quasi impossibile. Ma non chiamateli baraccopoli, tanto meno favelas: quelle sono luoghi con una dignità alla luce del sole, qui sono nascoste. Tra la litoranea e gli stabilimenti, Flaminia mi mostra la sua scoperta: una sorta di luogo d’appoggio logistico degli invisibili: oggetti, materassi, nascosti dalla macchia e dai pini. Senza vederle, dai fruscii tra i rami ci accorgiamo di presenze, come se invece che uomini si trattasse di topi. Vivono tra gli interstizi delle nostre case, dei nostri luoghi di svago. Come forse in nessun altro luogo in Europa, qui ci sono uomini che vivono come topi. Poveri. Cioè extracomunitari.
5 commenti:
Namastè.(si può solo ammutolire e chinare il capo)...
sì. ciao, un bacio.
ho abitato lì vicino c'era un piccolo circo umano (senza animali) le acrobate avevano le calze bucate, un'esperienza bella, era piccolo piccolo erano gli anni '80 e noi andammo via vincendo una pesca perchè ero l'unica mamma con in borsa un rossetto. é molto toccante per me quel luogo, troppo vicino e troppo lontano dal mare laura palmer
adesso, laura, non c'è davvero un briciolo di gioia felliniana.
èagghicciane che l sndaco alemano a fatto un censimento di questi miserabili (chissà a ce non si debba incolparli di qualcosa, mica per proteggerli o aiutarli) e che (soprav)vivano così.
quest'anno tanti lettori, io compreso, si sono divertiti e commossi a leggere Firmino di john savage, il romanzo sul topo che vive come un umano; non credevo di misurarmi con umani che vivono come topi. mi ha scosso, molto.
un abbraccio, beppe
(uff, mi scuso di tutti i refusi, scrivo come un cane, neanche come Firmino)
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