11/02/2008

Jean-Luc Nancy, "Stagioni del mondo" (un inedito)

Ho ricevuto dal filosofo Jean-Luc Nancy questo testo inedito (e recentissimo), Saisons du monde, che ho tradotto per l'Unità, in edicola oggi. (Sempre oggi su l'Unità parte una mia rubrica dal titolo "Acchiappafantasmi" - questa prima sugli studenti, gli anni Settanta e sul fantasma di Cossiga, nei confronti del quale sta per partire una denuncia di cui vi aggiornerò. Ora è più bello leggere Nancy).

STAGIONI DEL MONDO, di Jean-Luc Nancy

Le «età del mondo» rappresentavano il più delle volte una forma di successione continua, uguale a quella delle età della vita e che spesso, come la vita, passava da un’infanzia a una maturità, poi a una vecchiaia. L’infanzia stessa poteva a volte essere luminosa e inaugurale, altre rude e oscura; ma l’invecchiare era assicurato, e con esso la perdita della brillantezza e del vigore, sia quelli dell’infanzia che dell’età matura. Si poteva anche concepire l’idea che alla vecchiaia seguisse una rinascita, ma sarebbe allora un altro mondo, non più un’altra età. Sarebbero un’altra vita e un’altra natura – oppure le stesse, ma sotto altri cieli.

Passata l’età delle età, il mondo incontrò la storia, non più regolata sul modello di una vita, ma su quello di una concatenazione di azioni notevoli. Tali azioni erano quelle degli umani, e ci si allontanava così dal processo di un mondo. Gli uomini fondavano, inventavano, conquistavano, producevano. Producevano se stessi nelle loro civiltà, nelle loro culture, nei loro pensieri e nelle loro rappresentazioni. Questa produzione conosceva delle epoche e delle aree. La geografia delle aree – oriente o occidente, isole o continenti, spazi aperti o chiusi – incrociava nella sua distribuzione contingente delle successioni di epoche, cioè delle durate relativamente stabili e identificabili, come un ordine interno di significati, ossia come un « mondo » (il «mondo greco», il «mondo delle cattedrali», ecc.). Ma questa successione di mondi non apparteneva a sua volta a un mondo: la storia in quanto movimento eccedeva l’idea di mondo. Piuttosto, essa trasformava il mondo: sia con incessanti modificazioni o mutazioni di quella stessa idea – e soprattutto, con l’invenzione di « nuovi mondi » - sia al contrario proiettando la finalità di tutto questo processo – o progresso – come la produzione di un ultimo mondo che sarebbe di fatto una nuova natura: quella di un’umanità strappata agli assoggettamenti dell’antica.

La storia ha fatto epoca: la sua epoca al tempo stesso si richiude e si prolunga. Si richiude in quanto rappresentazione di un processo (e ancor più di un «progresso»), e si prolunga in quanto evento, mutazione, spostamento. Non c’è più fine né orizzonte. Niente più fine, né mirata (visée) né visibile (anche se pensiamo sempre – e dobbiamo farlo – di poterci dare degli «obiettivi»); e niente più fine come compimento. Né skopostelos. Di conseguenza, più nessuna «fine ultima»: niente più eschaton – a meno che, potremmo anche pensare, non vi ci sia già, e senza saperlo procediamo verso il nostro giudizio finale in una conflagrazione cosmica.

***

Noi non possiamo anticipare. Eppure sembra proprio che la grande trasformazione del mondo in cui siamo entrati – che si chiama «mondializzazione», come se la sua posta in gioco fosse tutta nel sapere se ci sarà ancora «mondo» oppure no – proceda a grandi passi fuori dalla natura e dalla storia, fuori dalle età e dalle epoche, verso un altro spazio-tempo, un altro ritmo.

Noi possiamo tentare di parlare di stagioni, intendendo con questo ciò che non è né età (ciò che tornerebbe, all’interno dello stesso mondo) né epoca (perché non si stabilizza come un ordine o una struttura); e che non rimanda a un processo continuo, né progressivo né regressivo. Le stagioni ritmano un ciclo, ma ciò che conta in questa parola - «stagione» - è meno il ritorno ciclico che non le variazioni del cielo, dell’aria e della terra, dei colori e delle fragranze: un tremore discontinuo della sensibilità.

Noi non consideriamo, parlando di stagioni, né il semplice valore naturale dei vari sbocciare e ibernarsi, né ben inteso il valore storico secondo cui, tendenzialmente, «non ci sono più stagioni», perché la lunga portata del processo le rende insignificanti. Cerchiamo al contrario, al di sopra di natura e storia, o a lato di esse, spostato, il valore della sensibilità al cambiamento, e della capacità di conformarsi o confrontarsi ad esso.

Più che del tempo che passa, si tratta del tempo che fa. Più che del tempo cronologico, del tempo meteorologico. Non di un vettore uniforme, ma di una costellazione mobile di eventi, umori, passaggi e fughe, occasioni – possibilità e rischi – disseminate lungo un tragitto imprevisto, aleatorio, piuttosto che nel corso di una durata omogenea.

Secondo la stagione – che non è mai la stessa che negli anni passati – si tratta di adattarsi, non con sottomissione ma con ingegno e attenzione. Non di restare al riparo della pioggia o del sole, ma di coglierne il gusto, gli umori, aggirarne gli ostacoli favorendone le risorse. Sono, questi, il sapere e la facoltà dei contadini: noi non cesseremo mai di esserlo, per quanto operai e cittadini siamo potuti diventare.

Del resto, non vediamo trasformarsi anche i nostri lavori e le nostre città, fino a non assomigliarsi più? Non diventiamo forse qualcosa d’altro che operai e cittadini ? Contadini di un altro paese, di un altro paesaggio. Coltivatori di una terra sconvolta di cui ignoriamo ancora se sia coltivabile, e quali frutti potrebbe portare. Né Oriente, né Occidente, né Sud, né Nord, ma in tutti i sensi spostamenti, ricomposizioni, derive di continenti, desertificazioni e innalzamenti dei mari: natura rimodellata, storia dai racconti multipli e reversibili, destini improbabili privati di Dei come di astri.

Stagioni: ciò che vorrebbe dire prima di tutto suspens e attenzione sul bordo di ignote germinazioni, forse mostruose, forse generose; ciò che vorrebbe dire farsi o lasciarsi diventare sensibili ad altri ritmi, altre andamenti del cielo e della terra – e forse alla possibilità che non ci siano più cielo né terra, ma una configurazione inedita, un altro mondo, più cosmico o tellurico, più intrigante e non meno inquietante di quello cui si esponevano i primi uomini.

Stagioni: cioè ragioni di sentirci ancora, se è possibile, al mondo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Perche non:)

Anonimo ha detto...

good start