Un frammento ritrovato che vi offro e mi offro, così, per festeggiare non so bene cosa... Lo chiamerei "quando eravamo fantasmi", oppure anche "La carne dei fantasmi"
... Come lo spazio senza confini del sogno, o del sonno, solo la fusione dei corpi mi alleggeriva la mente, allargava l’orizzonte e mi allagava il cuore. Solo l’abbraccio, il dilatarsi e fuoriuscire del corpo in tutti i suoi umori, la perdita dell’appartenenza fisica – ginocchio, volto, culo, pancia, mani, fica; saliva, sperma, lacrime, sudore, battito del cuore - mi davano respiro, l’affaccio su un oltre che intuivo spazioso e immenso, e a cui anelavo come le foglie alla luce.
Mi ripugnava scorgere negli altri il loro essere se stessi, il loro penoso discernimento, tanti piccoli punti di vista a oscurare tutto il resto, ognuno un fascio limitato di luce e di ombra, un cono ottico e spirituale. Non sopportavo gli individui, né l’individuo che essi ricordavano ed esigevano in me. Provavo il desiderio di sparire non appena mi rendevo conto con orrore di essere anch’io tutt’uno con me stesso, copia e replica di altri esseri umani singolari e asciutti, distinti, sazi, con un modo personale di guardare al mondo e agli altri, invece di precipitarsi a compiere l’unica cosa auspicabile per annullare un po’ questa condizione - perdersi, confondersi, sbavare, uscire da se stessi e riversarsi fuori - fottersi, fottere, essere fottuti.
L’orrido punto di vista in cui si riduce una persona era un'espressione, spia di un libero arbitrio, meschinità di scegliere un atteggiamento, segno di una pretenziosa presenza, un esserci parziale, un altro oppure un io. La realtà: un metaforico masticare di chewingum, uno sguardo pensoso oppure ebete, una parola detta o un’altra, un silenzio mai davvero muto. Il senso di un io presente a se stesso, viltà di un’esclamazione o di un’impassibilità, risata che si spegne o battere di ciglia, mordersi le labbra, volto che si atteggia a volto, avviso di presenza come il fruscio di un pensare, fruscio della serpe tra il muro e la siepe. Una finzione comunque sia, un voler sopravvivere, pensare un pensiero che valuta, misura, soppesa, considera, attende, miserabile avanzare passo dopo passo, esistenza singolare gelosa di sé e del proprio indivisibile conato di esistere, confermare se stessi.
L’unica uscita, estasi, era così l’abbraccio, quando non era più mio il sesso che zampillava gocce acute e dense di anima e penetrava nella carne rosa e buia nuotando fino allo sfinimento nelle sue tiepide secrezioni, quando quella carne umida non era estranea ma altra, capace di rendere altra la mia stessa carne. Bocche mischiate alle bocche fino a coincidere nel comune sussulto, l’esultare fisico e chimico che come un’esplosione ci disgregava in molecole per proiettarci e ricomporci (puri spiriti?) in un altro Spazio. Perdersi e fondere la propria anima alle altre, l’anima dei corpi, dissolvere l’io in una nebbia, al di là delle forme e dei contorni, universo privo di individualità e libero da peso, gravità, distinzione - una beatitudine vegetale e animale, bestie e piante essendo le sole creature ad avere un’anima anche nella vita terrena. Quando in silenzio, finalmente indistinti come morbide ombre che potevano lambirsi o sovrapporsi, respiravamo lo stesso respiro rosa madreperla: non più ‘lontani da casa’, ma al di là di ogni lontananza e di ogni vicinanza fluttuando finalmente senza storia. (...)
5 commenti:
...fra le "cose buttate", ne hai ancora che, come questa, potresti ritrovare?
credo di sì... (buon anno, ross)
Mi ripugna scorgere negli altri il loro essere se stessi, il loro penoso discernimento, tanti piccoli punti di vista a oscurare tutto il resto, ognuno un fascio limitato di luce e di ombra, un cono ottico e spirituale. Non sopporto gli individui, né l’individuo che essi ricordano ed esigono in me.
CONDIVIDO FINO IN FONDO, un abbraccio.
Barbara
piacere, barbara. buon anno a te, ricambio l'abbraccio.
(buon anno Beppe)
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