2/28/2010
Donne, voltità, visioni, anni Settanta, femminismo
Per spiegare cosa sia “poesia”, il linguista Roman Jakobson raccontava l’aneddoto dell’antropologo che soggiornando presso una tribù africana chiese a un indigeno come mai, loro, andassero in giro nudi. “Anche lei è nudo in una parte del corpo”, rispose. “Sì, ma si tratta del volto”, replicò l’uomo bianco. “Beh, in noi tutto è volto”, disse l’indigeno. Ripenso a questa storiella mentre cammino nella sale della mostra “Donna: avanguardia femminista negli anni ‘70”, in corso alla Gnam di Roma (dalla Collezione Verbund di Vienna). Non tanto perché “la donna è il negro del mondo” (come cantavano John Lennon e Yoko Ono); ma perché nelle circa 200 opere, soprattutto fotografie, di Marthe Rosler, Ketty La Rocca, Renate Bertlmann, Hannan Wilke, Cindy Sherman, Francesca Woodman e altre, si capisce come siano le donne ad avere aperto la strada alle ricerche dell’arte contemporanea. Mentre l’elaborazione teorica femminista allargava la nozione di significato ai contesti, al corpo e alla soggettività, l’area dell’arte si allargava alle nozioni creative oggi indispensabili di testimonianza, archivio, documentalità, fino a mostrare la visibilità dell’invisibile, la carne del fantasma, e conferire il carattere etico di “volto” a ogni cosa offerta alla visione. Le donne (almeno negli anni ’70), non avevano paura dei fantasmi, non copiavano dagli occhi, non facevano differenza tra interno ed esterno (come Kubrick nei suoi Eyes wide shut, ovvero “occhi spalancati ma chiusi”). Nel cinquantennale de La dolce vita (Fellini) e de La vita agra (Bianciardi) nel trentennale degli anni di carne (non di piombo), quei ‘70 che si protrassero fino alla prima metà degli ’80, noi siamo agli antipodi, dove anche il visibile non si vede più. Per questo l’energia della mostra è così politicamente attuale, negli anni de “la vita nulla” in cui stancamente galleggiamo.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità, 28/2/2010)
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