Domani a Milano in via Appiani 1, presso la galleria Federico Rui Arte Contemporanea si inaugura, col titolo "Il teatro dei sogni", una mostra di Claudio Bonichi.
Figlio e nipote d’arte (il celebre Scipione della “scuola romana” era suo zio), padre d’artista (la figlia Benedetta, nota per le sue “radiografie” e i suoi tableaux vivants con scheletri), Claudio Bonichi è un grandissimo pittore di origine piemontese che da decenni vive e lavora a Roma - ora nello spazio che fu la Casa della Cultura (che ospitò tra l’altro la salma di Pier Paolo Pasolini nelle sue prime commosse esequie civili). Amo molto il suo studio, il cui silenzio resiste perfino allo sferragliare novecentesco del tram sotto le finestre, e ho con lui una lunga frequentazione. Ho perfino abitato per un breve periodo della mia vita al cospetto di alcune sue tele, quelle più fantasmatiche, della sua preziosa collezione privata. Ma altra cosa è scrivere dei suoi quadri: parto allora dal bianco del foglio (virtuale), che come il bianco della sua tela è, dice Bonichi, “la pagina perfetta”, capace di accogliere ogni idea confusa (tutt’altro che meno degna di un’idea chiara), e che può portare assolutamente ovunque.
Il mio primo tratto è il brano di un filosofo, non ricordo quale, che ammoniva di non rimproverare ai concetti metafisici (all’utopia?), e neppure a quelle teologici, di non corrispondere alla realtà, ma di criticare piuttosto la realtà, che è inadeguata a quei concetti. Il secondo tratto è un’esperienza recente: mi sono beatamente perso guardando la sua ultima antologica a Cava de’ Tirreni - Il viaggio metafisico di Claudio Bonichi – trovando rifugio nei suoi dipinti, come se potessi entrarci e permanere nella dimensione color nebbia, color ghiaccio e perla, color terra, dei suoi fondi; non come le contemplazioni degli arabeschi sul tappeto nei racconti che sconfinano nel delirio in Poe, o nel metaromanzo in Henry James, ma come ci si rifugia magicamente dentro i quadri, dimensioni vive e parallele, nei romanzi salvifici di Stephen King.
Dice Claudio Bonichi che quei fondi sono il suo autoritratto, e gli oggetti in primo piano nello spazio, spesso minuscoli, sono i suoi trucchi, giochi, le sue maschere - poetiche e meravigliose contingenze. Non li chiamerei “nature morte” - per quanto con la morte e l’oblìo dialoghino intensamente al modo di un Luciano di Samosata (i suoi Dialoghi coi morti); ma “nudi” di pere, nudi di cocomeri o d’uva, nudi di cenere e foglie d’autunno, nudi di rosa (le strazianti rose recise in un bicchiere), oggetti deperibili quanto i bellissimi corpi di donna, con o senza maschera,di altre sue tele. Tutto muore, ma tutto ciò che è dipinto è salvato.
Immaginate lo spazio mitico, costruito dalla sapienza delle luci, del set di un fotografo pubblicitario. Claudio Bonichi usa solo disegno e pittura, e nel vuoto luminoso preferisce immortalare una mela marcia che una collana di Cartier. Il grande critico Maurizio Fagiolo dell’Arco osservò che i fondi delle sue tele, che enfatizzano, isolano e quasi inghiottono l’oggetto in primo piano, sono un caso unico nella storia della pittura. La verità è che Bonichi è pittore di fantasmi, spettri nel senso più puro, revenants che tornano senza essere mai stati presenti, ci visitano da un altrove come clandestini. Infine, ultimo tratto di questa breve pagina, il ricordo delle nostre conversazioni politiche, l’orrore che ci ispira da anni la realtà, la sua confessione di visualizzare i personaggi del regime pubblicitario in Italia come esseri mostruosi dalla cui bocca fuoriescono immondi scarafaggi. Le sue tele, la loro bellezza, quei fondi dipinti colmi di luce trattenuta, terre promesse e imperturbabili, madreperlacee, sono una delle critiche più vigorose e sovversive che si possano rivolgere alla nostra realtà indecente.
Claudio Bonichi, olio su tela, 2010
(articolo scritto per l'Unità di mercoledì 2 marzo 2011)
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