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4/26/2014

Festa della liberazione - degli altri

Vorrei offrire ai lettori un paio di pensieri ancora in corso.
   Il primo nasce dal fastidio per alcuni commenti letti qui e là sul 25 aprile, dove con leggerezza e arroganza si pongono sullo stesso piano i partigiani di allora e i “ribelli” di oggi – dai No Tav a chi manifesta per la casa. Ma c’è una grande differenza tra chi “si ribella” per avere o ottenere qualcosa (soldi, casa, cose, etc.), per rivendicare un diritto (reale o presunto), e chi si ribella non per sé, non per avere qualcosa, non per ottenere soddisfazione o un risarcimento, ma per essere e permettere ad altri di essere, per contribuire a liberare, comunque sia, senza altri scopi né meriti, un mondo al di la di sé, perfino un mondo senza di sé – un mondo che si può immaginare senza il proprio “io”, un mondo nel quale possiamo benissimo essere assenti: ed è questo che furono i partigiani della generazione di mio padre, così come lo furono i combattenti volontari della guerra di Spagna bombardati dai fascisti italiani, come Ernest Hemingway, etc. etc.
   E’ la stessa differenza, credo, tra chi vive religiosamente per avere il premio agognato di un Paradiso, e chi vive evangelicamente senza nemmeno saperlo, senza accorgersene, senza maturare nemmeno inconsciamente un fantasma di credito o di premio per le proprie azioni, ma lo fa solo perché è giusto, pulito e soprattutto naturale farlo. Con bontà che vorrei chiamare “animale”.
   Finché non sarà chiara per tutti la differenza, il mondo sarà di continuo attraversato da tragici ma infantili conflitti di falsi ego, capaci di uccidere e di uccidersi per un giocattolo – per il fantasma ossessivo di un diritto, di un possesso, di una rivendicazione, di una cosa, di una qualsiasi impermanenza.

   Il secondo pensiero lo suggerisce il poeta Carlo Bordini sulla sua pagina Facebook, dove per richiamare l’attenzione sulla nuova ondata di semplificazione che investe ogni ambito, dagli editori che chiedono che i libri siano scritti in modo “semplice”, ai governanti che parlano con slogan di 25 parole ripetute all’infinito, e i cui programmi politici sono composti da dieci, massimo quindici parole, invita a leggere il brano di un articolo uscito tempo fa su l'Unità:
   “Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione – che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria più volte denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce, svuotando di senso il concetto e la realtà di una Repubblica. Il costo umano, sociale culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere irreversibili.”
   Il brano è tratto da un articolo intitolato “La lezione degli studenti” (parlava delle loro lotte), e uscì il 24 ottobre del 2008. L’autore, anche se me n’ero totalmente scordato, ero io stesso. Ma la cosa inquietante è la sua attualità. Rientra nella violenza della semplificazione, oggi, la contrapposizione “prendere o lasciare” tra conservazione e innovazione, dove la seconda per definizione è “di sinistra” e deve per forza essere vincente – e che importa se invece la conservazione riguarda Pompei o la Biblioteca Nazionale, le scuole pubbliche, l’educazione e la memoria. E così la sera del 25 aprile, venerdì, in una trasmissione televisiva, un giovane esponente del centro sinistra irrideva come bizzarria conservatrice la sacralità delle feste (quelle civili) in cui si scoraggia il lavoro, il commercio, il negozio. Che importa, diceva, la memoria del 25 aprile, se un commerciante vuole approfittare della festa per vendere più merce? La sicumera con cui venivano esibite queste parole che mandavano al macero (rottamavano?) decenni e forse secoli di educazione civile, di lenta acquisizione di consapevolezza che ci sono cose “non in vendita”, valori non economici e comunque non monetizzabili, mi stordiva; e pensai che sì,  una nuova barbarie è cresciuta dentro di noi, e niente è più al suo posto. L”irreversibilità di cui sopra è già iniziata da tempo.
   Alla rozzezza del negozio, del profitto a ogni costo, festa o non festa, corrisponde una simmetrica rivolta dei forconi e dei cosiddetti ribelli. Nell’attuale scacchiera sociale senza memoria né orizzonti tutto sembra intercambiabile con tutto. Non c’è differenza, nessuno sembra più capace di immaginare cosa sia un mondo senza se stessi. Alla sola ipotesi, il commerciante come il senza casa, come  il banchiere, come il politico, sono certo che si porterebbe una mano sulle palle, altro che guerra di Spagna: chi se ne frega “per chi suona la campana”, speriamo non per me.
   

2/14/2013

"L'inferno sta salendo a voi"




“L’inferno sta salendo da voi…”
(Un’intervista a Furio Colombo sulla sua ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, trent’anni dopo - l’Unità, 1 novembre 2005 - e che rileggo e pubblico qui sette anni dopo che avergliela fatta)


   Nell’emozionante collage di testi di Pier Paolo Pasolini portato in scena da Fabrizio Gifuni (‘Na specie de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci), alcune delle frasi cruciali provengono dall’ultima intervista rilasciata dal poeta a Furio Colombo l’1 novembre 1975, ovvero l’ultimo giorno di vita di Pasolini. E’ un’intervista dura e intensa, con frasi che suonano inevitabilmente testamentarie. Non è l’unica ragione per cui ho proposto a Furio Colombo di commentare l’unanime, forse troppo unanime commemorazione di Pier Paolo Pasolini a trent’anni dal suo assassinio. Furio Colombo ha rappresentato in questi anni una evidente “scomodità”, condivisa del resto col giornale da lui diretto fino a qualche mese fa (un giornale di Cassandre, come ha detto qualcuno).
   Parliamo della plurinvocata “mancanza” di Pasolini oggi, che dovrebbe presupporre una diagnosi severa sulla distorsione della nostra democrazia. Perché così tanti, anche quelli pienamente organici alla “società dei consumi” (che Pasolini chiamava barbarie), e alla sua espressione ultima (il berlusconismo, diciamo pure) scrivono che “manca” Pasolini? Cosa c’è dietro questo coro?
   “Se dovessi rispondere con una scena, ne illuminerei tre. La prima scena è questa: l’assenza o mancanza di Pasolini è quella illustrata da Nanni Moretti quando, allegro, giovane e disincantato, faceva dire al suo personaggio: “mi si noterà di più se vado o se non vado?” Ovvero, mi si noterà di più se sono presente o se sono assente? Egli notava cioè come la realtà si stesse trasformando in puro atto di presenza. In questa scena si invoca quindi la mancanza di una figura che ha occupato un ruolo di grande rilievo nella storia del Paese, così come l’assenza di qualcuno a un party. La sua assenza viene “notata”, ma il vuoto o la mancanza avvertita dai commentatori è superficiale e mondana, è un’assenza sociale. Sulla seconda scena di questa”mancanza”, come dici tu invocata, compare invece l‘intellettuale importante, l’autore di successo, con la sua valigia di valori originali, con quelle caratteristiche immortalate da Giorgio Gaber: non è di destra e non è di sinistra. Qualcuno che crede in un mondo fondato da lui stesso, da cui può uscire e andarsene in vacanza. Se sulla prima scena c’era un’assenza sociale, qui si tratta di un’assenza culturale. Ma Pasolini non si concedeva mai vacanze, e anzi aveva una tendenza e una concezione dell’impegno che oggi, molti, definirebbero ossessiva. La terza scena è occupata da coloro che pensano che farsi notare sia dire sempre la cosa inaspettata, che stupisce. Se sei di sinistra, dire una cosa di destra (il caso contrario è molto raro, d’altronde quelli di destra non hanno molte cose da dire). Per gli altri si tratta di parole che meritano attenzione, e su cui riflettere. Così si sente la “mancanza” per contrasto. Ma Pasolini diceva sì l’inaspettato, ma lo faceva pagando un prezzo molto alto. Un prezzo che lo allontanava un po’ di più da tutti e non lo avvicinava a nessuno. Qui invece si tratta di osservare un rigoroso sistema della moda: ‘io voglio essere quello che dice sempre cose interessanti, anche (o meglio) contro la sua parte’. Ecco come interpreterei la “mancanza” di Pasolini: un triplo vuoto, nel quale si sente all’improvviso e quasi come un capogiro la mancanza del fortissimo senso di responsabilità che Pasolini si portava addosso. Lui che era e viveva fuori dalle strutture della società organizzata e dell’establishment per bene, parlava come se avesse la responsabilità di governare, invece di andare in televisione come se avesse tempo libero da buttare.”
   Anche se molti lo accusavano di nostalgia, la denuncia di Pasolini della “trasformazione (degradazione) antropologica della ‘gente’” era frutto di un’attenzione acuta allo stemperarsi delle differenze, al livellamento di idee e comportamenti, cosa molto attuale. Cosa ne pensi?
   “Nel denunciare lo stemperarsi delle differenze Pasolini era molto più profetico di quanto si credesse e si dicesse, ben oltre quel senso di nostalgia che gli si attribuiva incorniciandolo in una definizione dell’antiquato, di una società arcaica, del paesaggio coi mulini o delle lucciole, ecc. Quella rappresentazione della nostalgia pasoliniana conteneva un’intuizione profetica che sfuggiva anche ai più intelligenti, mai capita a suo tempo nemmeno da noi che eravamo nel Gruppo ’63, che pure lo ritenevamo un maestro anche se lo discutevamo polemicamente in nome di un maggior dinamismo. Ovvero l’aver capito che lo sfaldamento delle intelligenze stava portando non a delle successive trasformazioni e promozioni sociali, ma a quello che è successo: il contadino che non è più niente, l’operaio che non è più niente, il quadro di fabbrica che non è più niente, il dirigente d’azienda che non è più niente, un annullamento generale dove resta soltanto un’unica, barbara e drammatica modalità di identificazione sociale: il povero e il ricco, chi è sopra e chi è sotto. Con in mezzo i cortigiani (quelli che stanno nelle tv), gli avventurieri (per esempio gli immobiliaristi) e tutti gli altri, sottomessi e spaventati, nel lavoro precario. E non trovi più nulla per distinguere una persona da un’altra perché nessuno è nessuno, salvo i ricchissimi. Pasolini ha rimpianto le lucciole prima che le differenze tra l’uomo più ricco e l’uomo più povero nello stesso Paese (stiamo parlando del mondo industriale avanzato) si moltiplicasse all’improvviso per mille volte. Vorrei inserire qui, se me lo permetti, un ricordo personale del tempo in cui, molto giovane, ho lavorato con Adriano Olivetti. Poiché lo assistevo per la questione del personale, nel periodo in cui stavo a Ivrea lui mi chiedeva di raccomandare ai contadini diventati operai di non vendere la loro terra; se necessario era disponibile a fare loro dei prestiti, affinché il contadino diventato operaio restasse anche contadino. In questo caso, nei momenti difficili avrebbe avuto altre risorse. Quando stavo in America e avevo la responsabilità del personale americano di quell’azienda, ricordo questo ammonimento: il più alto in grado di noi non deve guadagnare più di dieci volte dell’ultimo entrato nella fabbrica, altrimenti si perde ogni legame umano. Ecco, se Pasolini era un nostalgico, lo era di questo mondo”.
   Vorrei ragionare con te sul senso di “letteratura civile”, fatta di attenzione alla memoria, di un farsi “parte civile”, cioè testimoniare affinché certi crimini non cadano mai in prescrizione. La “mancanza” di Pasolini è spesso alibi per non riconoscere l’esistenza di altri scrittori civili, altri testimoni oggi attivi…
   “Sì, ma non vorrei che ci avventurassimo in classifiche sulla presenza degli scrittori civili, cosa che apparterrebbe all’effimero televisivo. Nel cinismo e opportunismo che attraversano il presente, incoraggiati dalle convenienze, succedono ancora cose esemplari. Per esempio dare il premio Nobel a Dario Fo, oppure darlo a Harold Pinter. Vuol dire – ed è un’anomalia grandissima e benefica – non solo che esistono i Dario Fo e gli Harold Pinter, ma che c’è chi, lontanissimo dai loro luoghi, se ne accorge e vuole prenderne atto. Pinter è l’unico scrittore di teatro che si sia accorto dei desaparecidos, dei crimini spaventosi del fascismo argentino e cileno, che non vengono messi in alcun conto, né hanno accreditato alcun “libro nero”. Gente che veniva gettata viva da aerei in volo affinché tacessero per sempre, opposizioni che venivano stroncate uccidendo giovani madri e dando i loro bambini in regalo a gerarchi del tempo. Ecco, il fatto che ci siano stati scrittori che di cose del genere si sono fatti testimoni, ci rassicura. Le voci civili non sono mai una folla, ma ci sono sempre. Il fatto che in momenti successivi e non lontani alcuni professori se ne accorgano, le riconoscano e le premiano, ci dice che su questa strada disselciata la civiltà va avanti, e nonostante il cinismo e l’opportunismo, gli indici di gradimento e la forza della pubblicità, cose che contano e che lasciano il segno accadono ancora. Nel nostro stretto panorama Italia, c’è chi ha pagato e continua  a pagare prezzi alti per non rinunciare a rendere testimonianza, benché continui a essere sconveniente e rischioso come nel tempo e nel destino di Pasolini”.
   Analizzando la situazione politica italiana, poi parlando di sé, nella tua intervista disse Pasolini: “Perché dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità? Voglio dirvelo fuori dai denti: io scendo all’inferno e vedo cose che – per ora – non disturbano la vostra pace. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi…” Al che gli chiedesti che cosa sarebbe stato ancora possibile fare per difendersi dall’inferno. Pasolini disse che ci avrebbe riflettuto, e ti promise una risposta per il giorno dopo. Quella notte morì.
   “Io non credo che Pasolini avrebbe risposto con una formula di salvezza. Se c’era una cosa in cui un uomo come lui non avrebbe creduto, se c’era una predicazione da cui si sarebbe astenuto, scartato, se c’era una formula rituale di cui avrebbe avuto orrore, sarebbe stata certamente quella di una formula di salvezza.  Ma questo non significa affatto che Pasolini sarebbe stato un intellettuale del pessimismo e della condanna. Al contrario la sua poesia, la sua scrittura, e anche in parte il suo cinema, erano una predicazione con un alto contenuto non solo di rappresentazione delle cose così come sono, non solo del mettere in guardia, ma anche del dire con fermezza almeno una cosa: ‘questo è il pericolo, ma non è necessario che esso si realizzi in tutta la sua forza, e che noi si assista e si subisca inutili e impotenti’. Abbiamo parlato di molte cose in cui Pasolini credeva. Ecco una cosa in cui non credeva: mettersi sottovento, accettare le cose così come stanno, e poi sperare che l’uno o l’altro di noi in qualche modo se la cavi. Lui immaginava un destino, un’epoca, e un modo in cui quell’epoca può divenire barbara o può invece essere un’altra cosa. La martellante denuncia che nei frammenti di Petrolio diventa molto più esplicita e non più solo indiziaria come negli Scritti corsari, ci dice di un progetto o almeno di un chiaro oggetto verso il quale avremmo dovuto tentare di dirigerci. Qualcosa che ha a che fare con la dignità, con l’integrità e con la capacità di non perdere un doppio prezioso contatto - che lui ci indica continuamente - con noi stessi e con la Storia, con ciò che siamo e che possiamo essere, e con tutti gli altri. Strano caso di artista quello di Pasolini, che non parla mai di una persona sola o di un destino solo, ma parla di tutti. Che non immagina niente per se stesso, ma immagina per una generazione, e poi per un’altra, e un’altra ancora. Ecco, io non so che cosa mi avrebbe detto in quella risposta mancante, ma credo di sapere che quella risposta che manca si sarebbe ambientata in questo percorso, perché corrisponde a tutto il suo scrivere e a tutto il suo vivere”.
(uscita su l'Unità del 1° novembre 2005, prima pagina e pagina 22)

9/19/2011

Le prigioni di Levinas

I disegni sono di M. Tom Dieck, tratti da Levinas/Dieck, Le visage de l'autre, Seuil 2001

Non è molto agevole parlare in un giornale dell’opera di Emmanuel Levinas - “maestro travestito da filosofo”, scrissi, “ebreo travestito da greco”, scrisse Jacques Derrida. Fondazione di un’etica che ha aperto e ecceduto la filosofia verso l’esperienza dell’altro, degli altri, in una tensione trascendentale che ne fa in realtà un immenso trattato dell’ospitalità, inanellando sinonimi vertiginosi come Dio, l'Infinito e il Volto del prossimo. Se è auspicabile che chi si occupa di cose pubbliche e di beni comuni ne facesse l'esperienza, sappiamo quanto oggi il pensiero, perfino il linguaggio non orientato a uno scopo immediato, non godano di buona fama, o siano addirittura visti con sospetto. Forse per questo, paradossalmente, un buon viatico all’opera di Levinas è proprio la raccolta dei suoi scritti di prigionia fino a oggi inediti, l’umile laboratorio delle idee di uno dei più grandi maestri del Novecento. In questi cahiers de captivité, “quaderni di prigionia”, scritti a partire dalla fine degli anni ’30 in uno stalag, campo di prigionieri militari (ma gli appunti continuano fino al 1961), si trovano le basi dell’opera futura di Levinas che culminerà in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974).
Il lettore e il discepolo di Levinas vi trova l'emozione di autentiche scoperte. Prima di tutto il fatto che, dieci anni dopo il suo primo libro dedicato alla fenomenologia di Husserl e Heidegger, Levinas desse pari dignità nei suoi appunti alla critica letteraria e alla filosofia. Nel campo di prigionia legge Dante, Ariosto, Proust, Edgar Allan Poe, Leon Bloy, e addirittura si progetta romanziere. Triste opulenza, poi ribattezzato Eros, è uno dei romanzi abbozzati in quel periodo, suscettibile di illuminare le sue idee filosofiche: come la descrizione del “mondo infranto”, che prima ancora della prigionia dice la disfatta di fronte all’hitlerismo della Francia e dell’Europa; mondo della “caduta dei drappi”, delle istituzioni, che è la caduta stessa della realtà. Ma è anche la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger: “Le cose si decompongono, perdono il loro senso: le foreste divengono alberi - tutto ciò che nella letteratura francese voleva dire foresta scompare (...) Ma non voglio parlare della fine delle illusioni; piuttosto della fine del senso (il senso stesso come illusione)”. L’avversione per Heidegger, detto per inciso, precede l’adesione al nazismo di quest’ultimo.
Altra scoperta di questi appunti, forse la più emozionante per chi scrive, è quella della fecondità del linguaggio, del suo potere di significare al di là di quanto dice, e del miracolo della “metafora”, che Levinas preferisce al “concetto”: meraviglia per la potenza della parola ordinaria che per suo tramite si innalza fino a lambire - tendere, indicare, significare - il Divino, l’Infinito, che per Levinas è (anche) sempre metafora dell’altro, del prossimo, della relazione sociale. Meraviglia che condividiamo, leggendolo, per il potere rivelativo del linguaggio, assistendo alla genesi dell'inconfondibile e iperbolico stile della sua opera, che nasce nella scrittura. L’esaltazione della potenza polifonica delle parole ordinarie (“il più abita il meno”), della loro trascendenza (trans, attraversamento, e scando, risalita), salda in una sorta di etica del sublime-umile il piano del linguaggio e quello della relazione e della condizione umana.
Infine, è nella prigionia che Levinas scopre l’ebraismo, come condizione elettiva (pur essendo un prigioniero militare francese, Levinas era raggruppato con altri israeliti). Paradosso di un uomo che combatté in difesa della lingua francese e scoprì la lingua ebraica, cui si dedicherà all’indomani della Liberazione seguendo i corsi di Chouchani, base dei suoi celebri “scritti talmudici”. Vorrei illustrare l'ultimo punto, che in realtà sarebbe il primo: la scoperta, grazie alla prigionia, di quella nuova soggettività che trova l’infinito nel finito.
E' la prigionia (certo non paragonabile a quella dei campi di sterminio, ma pur sempre un’esperienza della sospensione del senso) che permette a Levinas una singolare evasione, simile a quella affermata qualche anno prima in un'opera filosofica anti-heideggeriana dal titolo appunto Dell’evasione: “si tratta di uscire dall'essere per una nuova via al rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti”. Ed ecco allora la più scandalosa e commovente delle “scoperte”.
Nel 1945 Levinas scrive retrospettivamente della miseria della prigionia, della “monotonia delle recinzioni di filo spinato”, delle “mattinate piene di bruma in cui ci si muove per andare a lavorare”. Eppure, continua, i prigionieri, “per paradossale che possa sembrare, nella recintata distesa dei campi hanno conosciuto un’estensione di vita più ampia e, sotto l’occhio delle sentinelle, una libertà insospettata. Non sono stati dei borghesi, ed è qui la loro vera avventura, il loro vero romanticismo”. “Il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita”, “Si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze”, “mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno”. Scandalosamente, Levinas descrive “una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale”: “La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà”.

      Recensione a Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura   di Rodolphe Calin e Catherine Chalier - Edizione italiana a cura di Silvano Facioni, Bompiani, pp. 510, euro 25,00 - uscita su l'Unità del 20 settembre 2011.

1/29/2011

Basta (lettera aperta al Pd)

   Chi scrive, sia chiaro, vorrebbe da anni pensare e scrivere altro, soprattutto in una pagina di cultura. Ma trova agghiacciante l’idea, realistica se non addirittura banale, che Berlusconi la sfanghi anche stavolta (come al solito, dicono i giornali esteri, che non disprezzano tanto o solo lui, ma gli Italiani che lo supportano), e sconvolgente che si dibatta della sua criminale, abituale condotta di primo ministro in termini giuridico-legali, versione della difesa contro versione dell’accusa, come se fosse credibile e creduta da qualcuno una ragione diversa per la presenza di escort minorenni ad Arcore la notte; come se non fosse già oltre il limite della dignità di una nazione che un premier debba “rispondere” di cose così ai giudici, e non fosse già ampiamente motivo, ovunque, di dimissioni immediate e vergognose. Ma questo governo è sostenuto (adesso!) da transfughi del Pd (v. Calearo, geniale invenzione delle ultime liste elettorali), mentre il Pd ripete come un mantra, un loop, un disco rotto, che Berlusconi sta “oltrepassando”... che cosa? la misura, i limiti, ecc. Ha già oltrepassato tutto da anni, e da anni c’è bisogno di intransigenza, non di quelle connivenze linguistiche e non solo che hanno eroso la comunità “elettiva” del Pd. Aveva ragione Luttazzi: il "bunga-bunga" è ciò che Berlusconi fa da 15 anni all’Italia (la devastazione antropologica) e alla sinistra consenziente (la corruzione politica e mentale).
   Cara Sinistra, caro Pd, sono e siamo stanchi. Per favore, se davvero volete rappresentare me e gli altri che la pensano come me e non ne possono più di questo scempio ignobile, basta con le tattiche, basta con il tè e i biscottini. Uscite dai palazzi e restate in piazza a oltranza, come in Albania e Tunisia, finché questa tragica farsa non si chiuda. Coi despoti non si discute educatamente, si abbattono. Poi parliamo d’altro. D’altro, capite?

(rubrica domenicale "acchiappafantasmi", l'Unità del 30.1.2011; ma una prima elaborazione su Facebook di questo sfogo, è stato firmato da decine di donne e uomini)

9/06/2010

Indifference - Clandestine di Renato Meneghetti ("Che cosa è il contemporaneo?")

Per la serie "Che cosa  il contemporaneo?", sulle pagine di cltiura de l'Unità, oggi  uscito questo mio intervento sull'opera di Renato Meneghetti, che ho appunto scelto...


L’oscurità crescente del concetto di “contemporaneo” in riferimento all’arte (e non solo), è parte costitutiva del senso delle opere. E se è vero che le opere contemporanee hanno a che fare col “gesto”, come suggeriva Jean-Luc Nancy, si capisce come questa oscurità derivi costitutivamente dal confondersi e convergere in esse di istanze linguistiche distinte, significato, intenzione, effetto suscitato (locuzione, illocuzione e perlocuzione) che al gesto e all’ostensione sono proprie; a cui aggiungerei la testimonianza, e l’attenzione al contesto dell’opera.

   Ora, se lascio da parte i due artisti che più amo e su cui ho più volte scritto - Christian Boltanski e Claudio Parmiggiani - mi pare che il fantasma del “contemporaneo” sia proprio in ciò che unisce e separa due opere, le più importanti e recenti, di Renato Meneghetti: le teste (e volti) di Indifference-Clandestine, il cervello che si gonfia, vuoto e trasparente, di Optional.
   Immaginate – come è accaduto pochi giorni fa all’Arsenale di Venezia - che una specie di preservativo afflosciato per terra cominci a gonfiarsi smisuratamente, mostrando meandri di tubi trasparenti che lentamente si gonfiano fino a formare gli emisferi cerebrali, una gigantesca cupola assolutamente vuota che contiene gli stessi attoniti spettatori. In quest’opera-perfomance che si ripete ogni 12 minuti, sgonfiandosi e rigonfiandosi, le reazioni e i pensieri dello stupito pubblico corrispondono al risveglio (erezione) del cervello come pubblica coscienza. Che, ahimè, è solo un optional.
   L’opera precedente, Indifference, continuamente replicata in ogni spazio pubblico anche con tecniche di guerrilla urbana (l’ho vista quest’anno sia a Roma, in apertura di Road to Contemporary Art al Macro, che clandestinamente posta sulla pedana d’ingresso di Art Basel a Basilea), consiste in una distesa per terra di teste di ceramica bianca, calchi del volto dell’artista e di altri (anche un bambino): crani e volti inermi e fragili, con gli occhi chiusi, e un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità, che interferiscono e a volte interrompono il flusso e la circolazione delle persone, o quanto meno le obbligano a considerarle, evitarle, oppure al contrario a infierire su di esse e frantumarle.

La prima volta che le vidi mi sembrò uno spazio sacro (un camposanto, pensai), e mi incantò vedere la fenomenologia dei comportamenti del pubblico, le diverse andature e retoriche deambulatorie (come avrebbe detto Michel De Certeau): esitanti, rispettose, curiose, distratte, ignare, noncuranti, irreverenti, mondane. O indifferenti, appunto. Ma fu una carneficina di cocci, con signore che si facevano fotografare dai mariti non solo mentre prendevano a calci o sfondavano le teste con i tacchi a spillo, ma mentre le sollevavano e, sotto il flash del telefonino, le lasciavano ricadere a terra dall’altro gustandone il rumore di cocci infranti come ossa. Altri camminavano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Fui molto turbato dal crescendo di aggressività indifferente, tanto più che l’inermità dei volti e teste per terra è già in sé il perfetto simbolo dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si espone, si offre (s’offre), alla nostra simpatia o violenza. (Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì, per esempio, che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?).

   “Il volto è rivolto a me, è la nudità stessa” - ha scritto il maestro dell’etica Emmanuel Levinas – per il quale il volto è l’epifania di Dio, cioè del prossimo, “ciò davanti a cui io non posso più potere”. E in effetti, nel catalogo Electa di Renato Meneghetti (2006, a cura di A. Bonito Oliva), le teste rotte di Indifference sono giustapposte all’opera Clandestine, carrellata di immagini di profughi, mendicanti, clandestini, miserabili come I ciechi di Bruegel, che ci interpellano a mani nude e vuote, o con cartelli muti e per questo assordanti.

   A Roma (ma più o meno capita ovunque) restò un tappeto di cocci tritati che risuonava sotto le scarpe. Il campo di teste posto senza permesso all’ingresso di Art Basel – immaginatevi, per fare un esempio attuale, di trovarle sul red carpet della Mostra del Cinema a Venezia - fu rimosso con gelida efficienza dalla polizia, che le scaraventò ancora intere dentro furgoni come rifiuti, come le bottiglie nei contenitori del vetro. In una strada pedonale di Basilea solo i bambini erano rispettosi e camminavano attraverso le teste come una gimkana. Un padre di famiglia in vestito scuro e cravatta prese una testa e la lanciò come al bowling, per romperne quante più possibile; con gesti calmi, precisi, meditati, distruttivi, come un gioco al massacro virtuale. Ed ecco, ovunque le teste di fragile ceramica bianca di Meneghetti sono un intralcio proprio come i poveri e i reietti della società, clandestine ed extracomunitarie, socialmente ed esteticamente rivelatrici.

   In fondo anche questa è una “apocalisse con figure” (per citare una bellissima mostra di Parmiggiani), così come “l’indifferenza” richiama, opposto dialettico o contraltare, la “commemorazione”, che è il cuore dell’arte di Boltanski. Quanto alla componente essenziale dell’arte di Meneghetti, la previsione o induzione della risposta del pubblico, credo che sia un tratto costitutivo dell’arte “contemporanea”.

4/11/2010

Il volto che s'offre (etica e fantasma)

“Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa”. Ripenso a questa frase del filosofo Emmanuel Levinas a proposito della nuova Ostensione della Sìndone a Torino, meta di pellegrinaggio. Perché è importante? In un mondo in cui si fanno guerre per non guardarsi in faccia, e si trasformano le singole vite in cifre statistiche o “danni collaterali”; dopo secoli di fisiognomica, ossia tentativi razionali di assoggettamento e annullamento del volto (dell’alterità) dell’altro, la contemplazione dell’impronta di un volto non può che dare speranza.
Si sa, la Sìndone non raffigura Cristo, ma un povero cristo, il lino è medievale, ma che importa: la sua eccezionalità, disse Papa Woytila nel 1998, è nel testimoniare le più intime e private delle impronte, gli umori del dolore (sudore e sangue) che la morte ha fissato sul lino: “icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi”. La Sindone commuove per la sua nudità inerme: volto che soffre, che s’offre. Testimonianza, non reliquia, aggiunse Woytila: “la contemplazione di quel corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e l’egoismo (…), ricorda all’uomo moderno distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita a interrogarsi sul mistero del dolore”.
La Sìndone è una ghost story che ammonisce alla sacralità assoluta del volto del prossimo, dello straniero; che ricorda i volti dei morti e dei dispersi, e l’obbligo dell’accoglienza; fino allo scandalo dei volti velati delle donne, o coperti dal burka, oggi per noi la nudità più inerme, ma inaccettabile. E’ l’archetipo del volto che sfugge all’imposizione poliziesca e razzista dell’identità, e che, agli antipodi del ritratto, è tanto più volto quanto più è sfuocato, frontale, fantasmatico, e soprattutto anonimo [proprio come nelle immagini di volti di morti, sgranate e ingrandite, cui ci ha abituati da anni Christian Boltanski].
Questo della Sìndone ci commuove.

(L'immagine riportata sopra è della mostra di Christian Boltanski Après appena conclusasi a Vitry-sur-Seine, Parigi)

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità dell'11 aprile 2010)

per un approfondimento sul tema del volto, in opposizione al ritratto, cfr., tra l'altro, questo articolo apparso su l'Unità del 27/3/2003)

2/14/2010

Il dono e gli sciacalli, parte 1

Shock economy, il saggio della giornalista canadese Naomi Klein del 2007, mostrava il nesso tra le politiche neoliberiste (liberalizzazioni dei salari, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica) e le catastrofi (causa di shock collettivi), siano esse provocate ad hoc, come le guerre, o “naturali”, come l’uragano Katrina che devastò New Orleans spazzando via i poveri, nel gaudio degli immobiliaristi e di settori dell'amministrazione Bush, colpevole di omissione di soccorso. L’effetto generale dell'economia delle catastrofi è l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di molti.
Finché c’è guerra c’è speranza è invece il titolo di un film del 1974 girato da Alberto Sordi e da lui stesso interpretato. Tullio Kezich così lo salutò: “attuale come un articolo di quotidiano, onesto come una dichiarazione di voto”. E’ l’amara storia di un mercante d'armi che, dopo l’iniziale scandalo e senso di colpa di moglie e figli, viene da loro incalzato a continuare il suo commercio di morte affinché non perdano lussi, privilegi, soldi (basta che il suo nome non finisca in tv).
Sono due pensierini venutimi leggendo le intercettazioni di coloro cui è affidata in Italia la protezione civile e la realizzazione di “grandi” opere (pare che l'aggettivo basti a sottrarle a ogni controllo e trasparenza). Il terzo pensiero, quello che mi turba di più, è l’anestesia morale degli Italiani di fronte all'impunità del suo governo (del tutto simile a quella descritta da Elsa Morante in uno scritto su Mussolini nel 1945: leggetelo!).
Poi penso alla vita di tutti i giorni, agli sforzi che la gente fa per andare avanti (vero habitat e nutrimento di ogni scrittore), ai tanti aiuti spontanei e umili ai terremotati d’Abruzzo, compreso il work in progress chiamato DONO messo in moto dalla MicroGalleria dell’Accademia delle Belle Arti de l'Aquila, in cui sono stato coinvolto. E di questo, prometto, parlerò la prossima volta.

(rubrica "acchiappafantasmi", che doveva uscire su l'Unità oggi, domenica 14 febbraio, e inmvece è saltata per spazio - uscirà domani)

1/31/2010

Siamo in affitto (rubrica "acchiappafantasmi")

Faccio parte naturalmente di chi pensa che la vittoria di Nicki Vendola sia un’importante vittoria culturale (a prescindere da chi vincerà le elezioni per il governo della Puglia), che ha mostrato per l’ennesima volta che sono sempre i mezzi a giustificare i fini, non il contrario. Peccato solo che le battaglie culturali (cioè politiche) ormai si facciano all’interno del centrosinistra, mai contro la destra; la quale viceversa vince in quanto compattata nei suoi valori di destra (gli stessi, con qualche avatar pubblicitario, di sempre).
Mentre sui giornali di sinistra si dibatte se sia lecito scrivere sui giornali di destra, anche uno così urlato e schierato come Libero, mi torna in mente una poesia di Tiziano Scarpa bella e dolorosa del 2002, “El capitalismo foràneo”, che uscì per la prima volta in un volume collettivo dal titolo, guarda un po’, Non siamo in vendita (poi raccolta in un volume edito da Fanucci, Batticuore fuorilegge): “Solo l’essere amati, solo l’essere / voluti conta (…) / Capisco gli elettori del padrone / di mezza Italia, perché nella vita / l’unica cosa che conta è incappare / in qualcuno che voglia la tua vita. / Silvio Berlusconi mi vuole, mi ama, / mi fa sentire che ho anch’io qualcosa / da dargli, che a lui risulta gradito! (…) Il potere mi vuole! Vuole me! / (…) Non si vive se nessuno ti vuole. / Mi volete forse voi comunisti? / Mi volete forse voi democratici di sinistra?” Non è così lontana dall’esigenza di un legame sentimentale di cui parla Nicki Vendola. Nel frattempo i democratici non sono più “di sinistra”, e il nuovo paradigma di svariate prestazioni, non solo sentimental-sessuali ma politico-intellettuali, si rivela essere l’“escort”: si può scrivere ovunque, basta che paghino. Se i mezzi mostrassero troppo apertamente di non giustificare i fini, basterà aggiornare quel vecchio pamphlet (del cui titolo si appropriò Casini alle ultime elezioni: “non siamo in vendita”): “Però siamo in affitto”. Avrebbe molte adesioni.

(l'Unità, 31 gennaio 2010)

1/24/2010

Gli avatara nascosti (rubrica acchiappafantasmi)

Da giorni volevo parlare della parola sanscrita avatar, nella cui origine induista significa “discesa in terra”, ovvero l’incarnazione della divinità in un corpo fisico: per esempio di Visnù, tra i cui diversi “avatara” uno, il leone antropomorfo, fu descritto da Emilio Salgari più volte nei suoi romanzi d’avventure. Volevo ricordare questa antica radice indoeuropea perché sono intimamente conservatore (amo la cultura, la memoria, la Storia) e mi inquieto quando un nuovo mito fondatore, scaturito da Internet o da un film americano (per quanto bello e giusto come quello di James Cameron), rischia di fare tabula rasa di un simbolo o di un concetto.
Ben prima di designare le nuove identità virtuali di Second Life, la parola “avatar” era usata nella psicanalisi francese come sinonimo di trasformazione, ripresentazione, resurrezione, rigenerazione (di un sintomo, di un affetto, di una nevrosi ecc.). Volevo dunque descrivere questa parola quando la cronaca, come spesso accade, mi ha richiamato l’attenzione sul continuo riproporsi di “avatara” anche senza che si chiamino così. Prendete la riabilitazione del pregiudicato per reati legati alla corruzione Bettino Craxi in grande statista e perseguitato politico, vero e proprio avatar politico; prendete il doloroso disfarsi della responsabilità civile ed etica degli scrittori italiani cammuffata da libertà, impoliticità, neutralità delle scelte e dei contesti (il riferimento è a coloro che scrivono su Libero, ottimamente sintetizzata da Marco Rovelli su l’Unità di ieri). Il fatto è che il regime pubblicitario in cui siamo immersi è da tempo il trionfo dell’avatar, della second life e oltre, fino al dissolversi della realtà; e la Storia, per chi ancora ci crede, è un ben triste avatar se, di fronte a quegli 11 professori che rifiutarono il giuramento fascista nel Ventennio, che ci sembravano così pochi, l’idea è che oggi non ve ne sarebbe forse nessuno.

(su l'Unità del 24 gennaio 2010)