Qualche giorno dopo la manifestazione del 15 ottobre (quella famosa perché "hanno sfasciato tutto") ho raccolto questa testimonianza. Ha un sapore e una tonalità (un'autenticità) diverse da quelle uscite a caldo sui giornali (e sulle quali molti dubitano). E' rimasta in sonno qualche tempo, ma ora eccola, sul Venerdì di Repubblica di oggi, 2 dicembre 2011, forse più attuale che mai. Ho preferito che le parole di "Valerio" non fossero interrotte da nessuna interlocuzione, e chiudere le virgolette solo alla fine. Al monologo segue poi un mio breve commento.
Ho ventotto anni...
"Mi chiamo Valerio, ho 28 anni, laurea in Scienze politiche a 24 e un master a Londra, oltre a un liceo classico alto borghese dove ho sgobbato fin da ragazzino, e sono disoccupato da anni in cerca di una prima occupazione che non arriva mai. Ho provato, campando di espedienti, a prendere con altri una casetta al Pigneto, quartiere di fighetti dove ormai tutto è carissimo, anche un tè o un bicchiere di vino. Sono addirittura tornato dai miei genitori, che pure tra l’altro la crisi la stanno sentendo: la carta di credito è diventata come un bancomat, se non hai i soldi sul conto non struscia più. Mi rode il culo che con tutto quello che ho studiato non trovo niente, anzi sono incazzatissimo, tant’è che scendere in piazza per me è un’occasione anche di sfogo. Vorrei che fosse occasione per una prospettiva, un progetto, ma il 15 ottobre me lo sono vissuto solo a sfasciare tutto.
"Dopo la maturità ero stato a Genova cogli amici di scuola, al Carlini [
lo stadio dove nel 2001 nacque il movimento de “i disobbedienti”], dove sotto le tende avevo tante aspettative… Anche quando sono entrato alla Sapienza ho gravitato per un periodo nell’area dei “disobbedienti”. Poi però quell’auletta di scienze politiche mi sembrava la piazza di un paesino tipo Albano: sempre più provinciale, un mondo chiuso in se stesso. Nel 2003/2004 di quell’ambiente che seguivo senza essere un vero militante ero deluso. Vi ritrovavo forme e rapporti di potere simili a quelli del mondo che vorremmo combattere: quell’essere leader, tenersi la poltrona per anni, sempre lo stesso portavoce che va dall’Annunziata o da Santoro, quell’essere attaccati al proprio ruolo. Ho visto sgambettarsi e sgomitare come per un posticino in un giornale o un posto di dottorato, e anche nei rapporti con l’altro sesso. Perciò ho continuato a frequentare i cortei, ma la mia palestra è stata la curva. Ho iniziato ad andare allo stadio, a volte tappandomi il naso perché hai a fianco gente che dice cose indegne, ma almeno sai con chi hai a che fare. E’ negli ambienti che dovrebbero essere rivoluzionari che hai le delusioni.
"Con un gruppetto di amici conosciuti allo stadio e altri ci siamo un po’ più politicizzati, portandocene appresso altri a certe scadenze, come il 14 dicembre 2010 o in Val di Susa, e ci troviamo in piazza. Non è che facciamo chissà quali riunioni. Abbiamo la nostra vita, anche se abitiamo quartieri diversi abbiamo il nostro baretto dove ci becchiamo al pomeriggio, il posto per l’aperitivo e la birreria dove c’andiamo a ‘
mbriacare la sera. Nelle nostre discussioni abbiamo sempre davanti la politica, anche se a volte è una politica da bar - i soli con un po’ di esperienza politica siamo io e un’altro che abbiamo bazzicato i collettivi. Agli altri conosciuti allo stadio, specialmente un gruppetto che viene da Tor Bella Monaca, la militanza politica non gliela fai digerire facilmente, e da solo non sarei capace di formare un collettivo. Più facile entrarci, in un collettivo, se trovassi una proposta.
"Il problema è che ci stiamo tutti a interrogare sul lavoro: quelli che nonostante la laurea fanno i camerieri in quartieri tipo il Pigneto, San Lorenzo o Campo de Fiori, quelli che stanno a
smazzare [spacciare] la roba a Tor Bella o San Basilio o ai palazzoni, altri come me che non vogliono smazzare e dopo tanti studi non s’arrendono all’idea di fare il cameriere, e questo perché mamma e papà mi possono ancora parare, non so per quanto, se no prima o poi dovrò fare pure io il cameriere al nero o andare a
smazzà all’angolo. Ci interroghiamo su dove andremo a finire, ma io voglio campare oggi perché sono vivo adesso, mi interessa il presente non il futuro. Il futuro lo lascio a quelli che si sono nominati leader degli indignati senza che il movimento degli indignati esista. Di essere indignato non me ne frega nulla perché io sono incazzato, e anche i miei amici. Ma se esistessero dei veri indignati li rispetterei, come rispetto quelli in Spagna, come ho rispettato quelli accampati in piazza Tahrir al Cairo. Non i soliti quattro che vanno in tv e si nominano leader del movimento degli indignati. Non esiste questo movimento in Italia, ve lo siete inventato sui giornali, voi e quei leaderini post-disubbidienti cresciuti con le loro riviste culturali. Ecco, adesso siete diventati indignati, e domani? Ogni mese cambiate, siete stati quelli col passamontagna perché vi siete eletti legittimi discendenti di Marcos, ora siete gli indignati, domani che sarete, i venusiani? Vi aggregherete al dott. Spock?
"Tornando al corteo, col gruppo mio ci siamo portati quattro zainetti, con serci [sassi],
bomboni e martelli... Io non ho il mito della violenza, e nel gruppo mio neanche quelli che vengono da situazioni più disagiate hanno un mito della violenza, per quanto se la vivano tutti i giorni e ci mettano un attimo a fare a botte. Però ci rode il culo che anche se hai un progetto ti sentono solo quando usi la violenza e fai rumore. Io ci credo e spero che prima o poi qualcosa possa accadere, che la gente si sollevi, ci sia un insurrezione, e comunque quando ci sono cambiamenti la violenza c’è sempre. Anche se vai con le mani alzate, come Ghandi o Martin Luther King, la lotta per i diritti civili o la liberazione coloniale in India sono costati un botto di morti, perciò la non violenza non può essere la scusa per non fare un cazzo.
Non condanno le forme di violenza perché sono stato anch’io in piazza. Dico soltanto che una macchina che non mi serve per fare una barricata, e che non è di lusso, io non la brucio, e specialmente mentre passa il corteo: metti che abbia la bombola perché va a gas, se zompa fa male a chi sta nel corteo. Certe stronzate il gruppetto mio non le fa, neanche i più agitati e fulminati di noi. Così come non lasci una tanica di benzina per dar fuoco a un palazzo. Perciò esagerazioni e sbagli sì, ci sono stati. Io la macchina di un poveraccio non la brucio. Brucio una macchina solo se sono costretto a chiudere la strada perché c’ho dietro le gazzelle della polizia o i blindati. Ma non le macchine parcheggiate, come ho visto a San Giovanni. Le vetrine di bar, negozi, banche si possono rompere, come i macchinoni di lusso: io li sfondo.
"Io e altri due, quelli che hanno un po’ più studiato, abbiamo provato a far leggere al gruppo un libro di un collettivo invisibile che viene da Parigi, si chiama
L’insurrezione che viene, per me una delle letture più importanti di questo periodo, e in Francia tra l’altro un grande successo editoriale. Qualcosa capivano, tra una birra e una canna, tant’altre volte dicevano “aoh, che cazzo vuol di’?’”. Alla fine gli ho fatto leggere l’ultimo libro di Marco Philopat, almeno due risate se le sarebbero fatte, ho pensato, e mi han detto: “Portaci un altro libro che faccia ridere così”. Seguo le cose che ancora escono su siti come
Indymedia,
Uninomade,
Info Aut, ma faccio fatica a tradurle al gruppo. Più facile portarli a vedere
V per Vendetta, e sicuramente più istruttivo. Giornali? Giusto ogni tanto
il manifesto per leggere cosa fanno al cinema, e il
Corriere dello sport.
"Lo stadio comincia ad essere un campo chiuso: ci hanno cacciati con la “tessera del tifoso” voluta da Maroni, anche se ci si continua ad andare, e ci ritroviamo di più per strada. Ma devo dire, nella mia ignoranza, che una crisi così non c’è mai stata, neanche quella petrolifera dei primi anni ‘70 era sentita così. Poi c’è quello che sta accadendo in tutto il mondo, nei paesi arabi, in Grecia, quello che è successo l’autunno scorso in Italia, in Inghilterra con gli studenti delle gang di periferia. Cose grosse stanno succedendo in tutto il mondo, in Spagna, negli Stati Uniti, l’altro giorno le cariche a Oakland, ma da quant’è che non c’erano cariche a Oakland? Forse neanche ai tempi delle Pantere Nere. Perciò penso sia un momento in cui occorre farsi sentire, anche senza un progetto alcuni nodi stanno venendo al pettine, bisogna agire, anche se certo il nostro è un agire un po’ random...
"Io provo questo grande disagio: alla fine questa società borghese ha abbandonato i suoi stessi figli, che non possono strisciare la carta come i genitori, che si sono abituati ad averci le Nike, l’IPhone, e che per lavorare devi avere il Lap-top portatile, tutte cose che non sono un lusso, ma sono diventati beni necessari. Noi che siamo cresciuti con questa roba, ci ritroviamo che non l’abbiamo più, e ci sale una grande incazzatura. Lo so, lo capisco che manca un progetto, non solo io che ho studiato, anche quelli meno avvezzi alla politica o che non hanno studiato. Perché anche loro la sera tornando a casa si dicono:
mo che famo? Oggi abbiamo rotto tutto, domani che facciamo? (
Pausa). Alla fine è dura".
V per violenza (e "l'insurrezione che viene")
Il 15 ottobre fui turbato, più che dalle auto in fiamme, dal video dell’incappucciato che usciva da un portone con una statuina della Madonna e la frantumava per terra prendendola a calci (altri del corteo lo inseguirono indignati). Un gesto di puro fascismo, in linea con gli ultimi 15 anni di un’ideologia al potere che ha disprezzato ogni valorizzazione non immediatamente economica. Quel gesto era l’opposto di un cartello che pure stava nel corteo: “La poesia è anticapitalista”. Nel suo provocatorio candore ricordava la forza sovversiva dell’“inutile” – come la poesia, appunto, la scuola, l’educazione o la bellezza, e come l’azzurro del manto di quell’inutile deliziosa madonnina di gesso. Provai rabbia e pena per il terribile equivoco di quel giovane disgraziato, ammalato da anni di diseducazione versata come napalm da anni di cinismo di governo. La violenza diffusa è proporzionale alla disperazione e all’assenza di orizzonti. E le parole di Valerio, che non definirei mai un black bloc, sono ampiamente condivise. Valerio è un ragazzo come tanti, e la durezza del tono e la voce arrochita non ne nascondono la simpatia. Lo sfogo della violenza non è del resto una prerogativa dei soli maschi, ma equamente ripartito tra ragazze e ragazzi: la rabbia e la precarietà come condizione esistenziale realizzano un’amara parità di genere.
Parafrasando il famoso libro di Pessoa,
Una sola moltitudine, quella dei giovani è oggi una varia solitudine, difficile a raccontarsi perché “precarietà” è soprattutto perdita di un senso narrativo della vita. La politica si è disgregata o dissolta, e la solitudine ne è la spoglia. La loro rabbia è individuale come quella dell’eroe del film
V per Vendetta, tratto dal fumetto di Alan Moore, riferimento oggi dominante del loro immaginario. (Ironia della storia, il personaggio con pizzetto e cappello ricalca l’inglese Guy Fawkes, cattolico papista e reazionario, autore nel 1605 della “congiura delle polveri” per far saltare in aria il re Giacomo I e il Parlamento protestante).
L’insurrection qui vient – “L’insurrezione che viene” – è invece un pamphlet politico firmato nel 2007 in Francia da un “comitato invisibile”, aggiornato nel 2009 e pubblicato dall’editore Hazan. Circola in Internet, così come traduzioni italiane anch’esse anonime. Spiega a modo suo alcune cose, altre le anticipa. Consiglierei di dargli un’occhiata, tra una notizia e l’altra di aumenti dello spread, e soprattutto di trasformazione della miseria e dell’esclusione sociale in problema di ordine pubblico. Se il dissenso è criminalizzato, e la politica che si affaccia viene irrisa o minacciata sul nascere (come con le allusioni dell’ex ministro Sacconi al terrorismo che scaturirebbe dalle critiche verbali), non stupiscano le forme violente di protesta. All’annuncio di migliaia di licenziamenti in Grecia hanno risposto giorni fa ad Atene centinaia di persone col più massiccio esproprio di un supermercato. Nicolas Demorand, su
Libération del 2 novembre, ha posto per primo il problema dell’emergenza democratica dietro l’emergenza finanziaria. Lo ha fatto a proposito del referendum in Grecia, “avanguardia della disperazione”. Esso ha turbato l’Europa perché pone “l’unica vera questione, totalmente tabù e finora perfino rimossa, impossibile da formulare tanto è vertiginosa e terrificante per chi ci governa: che cosa pensano i popoli della brutale cura di austerità che sta per abbattersi su di essi?”
Al corteo degli studenti del 17 novembre ho sentito discorsi più preparati di quelli di molti parlamentari. “La crisi va pagata da chi l’ha provocata”, dicevano gli striscioni. E mentre gli studenti gridavano di volersi riappropriare del futuro, bloccati a due passi dal Senato, all’interno il premier del “governo tecnico” (la freddezza della formula risaltava a fianco della calda empatia degli studenti), chiedeva la fiducia.
(uscito su Venerdì di Repubblica, 2 dicembre 2011)