12/16/2011

Per festeggiare B.B.

   Oggi ho rivisto un amico di nuovo al lavoro (in questi ultimi tempi ci eravamo un po' persi di vista a causa, anzi grazie a questo) e che sprizzava di felicità. Si era messo il cappello marrone a falde larghe, un po' da vecchio cow boy elegante, come ha sempre fatto durate le riprese dei film: non per bellezza, ma per ripararsi, mi ha confidato, anche proprio in senso fisico, da quello che (ac)cade mentre gira un film. Il luogo era magico - lo studio labirintico e senza finestre dell'artista Sandro Chia, adibito a set cinematografico e trasformato in cantina, ecc. ecc. . La storia che vi si racconta è tratta dal romanzo Io e te di Niccolò Ammanniti, e l'amico è Bernardo Bertolucci, arrivato alla fine delle riprese del suo nuovo film dopo un'interruzione di una decina d'anni. C'è di che festeggiare.
   Il resto lo leggerete domani, penso, su tutti i giornali, visto che critici e giornalisti vari sono stati poi invitati a una conferenza stanpa, dove l'amico regista irradiava gioia e intelligenza. Una cosa sola tra le tante voglio ricordare, detta da Bernardo Bertolucci in risposta a una domanda sull'uso del 3D, prima ventilato e poi abbandonato dopo alcuni provini (“Il 3D rallenta enormemente le riprese, io ho tempi più veloci quando giro”) per tornare al vecchio 35 millimetri. La cosiddetta definizione non è tutto, ha detto dopo avere raccontato i tentativi fatti anche col digitale. Mi sembra una posizione poetica importante. La retorica della "definizione" mi ha fatto pensare a quella sulla comunicazione di questi ultimi anni di vertiginose innovazioni tecnologiche: a cosa serve poter comunicare così bene se non si riesce ad avere nulla da dire? - che in questo caso diventa: a cosa serve definire così "altamente", perfettamente, se non c'è niente da vedere, e se di ciò che è importante non si riesce più a vedere niente? "Cinema", mi ha detto più di una volta Bernardo Bertolucci, "vuol dire aprire gli occhi"...
(Il film lo vedremo tutti a maggio dell'anno prossimo. Qui di seguito, il pezzo che Stefania Scateni de l'Unità, che era con me oggi, ha scritto per il giornale di domani (se alcune parole coincidono con le mie, è perché ne abbiamo parlato assieme. Buona lettura).

   "Il luogo è magico, non solo come sempre sono i set dei film durante le pause delle riprese, come scenografie di un teatro pirandellianamente vuoto, col tempo sospeso. Ma perché le caratteristiche del luogo rendono speciale: il labirintico studio senza finestre dell’artista Sandro Chia, a due passi dall’Orto botanico di Roma, trasformato nella cantina dove si rifugia il protagonista (come nel romanzo di Niccolò Ammaniti da cui è tratto il film...), con sofà semisfondati, vecchi mobili ammucchiati, attrezzi di ferramenta e biciclette dismesse. Alla fine del tour, ecco alla magia aggiungersi la naturalezza di un miracolo: «Soltanto un anno fa non avrei pensato di fare un altro film e ora che sono terminate le riprese di Io e te mi sembra incredibile essere qui, seduto sulla mia sedia elettrica, come chiamo la sedia a rotelle, a parlare di un nuovo film. Eppure allo stesso tempo lo sento come un’assoluta normalità».
   "Bernardo Bertolucci è radioso, e ha di nuovo il cappello a falde larghe sulla testa, amuleto e riparo (anche fisico, come poco prima confidava a un amico) durante la lavorazione di tutti i suoi film. Erano dieci anni che non lo indossava, tanti quanto è durata la sua pausa di regista. Ed è deciso a tenerlo in allenamento quel cappello. «Oltre a montare Io e te, le prossime settimane e i prossimi mesi saranno tutti alla ricerca di cosa fare subito dopo», annuncia in conferenza stampa.
   "Parla dal set del suo nuovo film, la cantina «di» Lorenzo, il quattordicenne protagonista della storia. Ancora l’adolescenza negli interessi del regista, fase della vita in continuo cambiamento, «materiale umano che va catturato in quel momento altrimenti sfugge». Le meravigliose e poderose potenzialità dell’esistenza impongono il caleidoscopio di un’età che seduce Bertolucci da tempo. «Resisto poco quando si parla di adolescenti in crescita. Il passare del tempo in quell’età è per me una cosa irresistibile», dice il regista di Io ballo da sola, The Dreamers. E il perché, lo spiega citando versi di un Rimbaud quindicenne: «A diciassett'anni non si può esser seri.(…) /Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare».
   "Ma non dev’essere stata una passeggiata l’esperienza dei due: Jacopo Olmo Antinori, alla sua prima esperienza cinematografica nei panni di Lorenzo, e Tea Falco, fotografa e videoartista, nel ruolo della sorella Olivia. «Li vampirizzo», scherza Bertolucci, spiegando che nel lavoro è attratto dalla vita intima degli attori, dal carattere, dal loro bagaglio, desideri, segreti: un apporto di umanità che nutre i personaggi del film.
   "Il lavoro con il Maestro, quindi, può avere un effetto terapeutico secondario. Traspare dai brevi e appassionati interventi dei due protagonisti. Appassionato quello di Tea Falco, e evidente pur se emozionato quello di Jacopo Olmo Antinori: «Mi ritengo molto fortunato: sono qui per caso ma non per caso». La storia di svolge a Roma quasi tutta in interni (la cantina, appunto); i pochi esterni sono stati girati nei quartieri Parioli, Prati e delle Vittorie. Lorenzo, solitario e problematico come tutti gli adolescenti, si rifugia in cantina facendo credere ai genitori di essere partito per la settimana bianca. Vuole stare in perfetta solitudine, dimenticare almeno per qualche giorno le regole del mondo. L’arrivo della sorellastra, 10 anni più di lui, tossica, ribelle, vitalissima sconvolgerà tutti i suoi piani. Io e te, iniziato di girare in ottobre, sarà pronto a maggio, si dice l’11, forse in tempo per il Festival di Cannes. Il film era stato annunciato in 3D, ma Bertolucci ha abbandonato il progetto: «Il processo delle riprese in 3D è incredibilmente lento, mentre io ho tempi molto più veloci quando giro. Ho anche esplorato il digitale ma mi sono imbattuto nella sconcertante e diabolica definizione di questa tecnologia, che non permette di realizzare alcuna tentazione impressionistica. È curioso: ho ricercato la definizione delle immagini per tutta la vita e poi, nel momento in cui l’ho trovata in maniera assoluta, non mi interessa più»."
Stefania Scateni

12/10/2011

Ritorno all'evidenza. "A piedi nudi sulla terra" di Folco Terzani

“Un passo verso il meno è un passo verso il meglio”, scriveva, mentre lo scopriva, il grande scrittore-viaggiatore Nicolas Bouvier. Se il viaggio è una forma di ascesi spirituale, di spogliamento di sé, tanto più lo è (stato) quello verso l’India - meta tra gli anni ’60 e ‘70 del variopinto mosaico del movimento hippie. Molti si persero, in ogni senso. Molti, nella sperimentale evasione dal mondo inautentico dell’obbligo e delle merci (estasi, dice l’etimologia) naufragarono sulle rive infernali dell’eroina. Ma vale per quelle generazioni di drogati la dedica di Philip K. Dick: erano come bambini che giocavano per strada e a cui nessuno insegnò che vi passavano i camion. Fu un’epoca e un movimento in cui il ritorno all'evidenza - che è il modo occidentale di designare l'illuminazione, misto di nudità, autenticità, libertà – segnò un punto di ascesi spirituale spesso inattesa; una religione della religiosità, distacco e rinuncia. In India si chiamano sadhu quei ricercatori spirituali che “rinunciano”, e a cui non manca nulla; che viaggiano a piedi nudi e dormono in grotte naturali, vivono di offerte (non denaro), passano il loro tempo nella devozione del Divino a cui dedicano riti e gesti precisi, come ravvivare il fuoco; che fanno il loro “tempio” nella jungla, che è il vero senso della parola “contemplare”; che conoscono tutto del mondo che li circonda, la natura. All’opposto di noi che, con le nostre presunte conoscenze, non saremmo in grado di sopravvivere una settimana in un mondo in cui si dovesse contare sulle proprie concrete competenze.

   Folco Terzani, quarantenne inquieto e cosmopolita, figlio del giornalista Terzano, nello scrivere A piedi nudi sulla terra, una storia documentaria che si legge d’un fiato come un romanzo, è partito da questa evidenza negativa: “uso il computer ogni giorno ma non ho la più pallida idea di come funzioni, l’aeroplano non so come faccia a volare, l’iPod a ricordarsi tutta quella musica o l’economia a fluttuare. Sono circondato di meccanismi che non capisco. Fra i sadhu invece ho riscoperto la bellezza degli elementi – l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria. Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi del’Himalaya, stando accucciato davanti alle fiamme di un fuoco, respirando spazio”.
   Il libro racconta con onestà la storia di Baba Cesare, un sadhu italiano con un passato di hippie e di tossico, e che per questo riesce “a fare da ponte fra me e quel modo di vivere che d’istinto mi attraeva, ma mi sembrava irraggiungibilmente lontano”, scrive Folco. “E’ un percorso visto dal di dentro, con gli occhi di qualcuno che ci si è messo in gioco non per una settimana, un mese o un anno, ma per una vita”. L’erranza è un’ascesa, un cammino di santità, ovvero semplicità, quell’evidenza che è parola chiave e ricorrente: tornare all’evidenza, arrendersi all’evidenza. A pensarci, un programma politico e di esistenza oggi drammaticamente attuale. “L’uomo ha perso più conoscenza negli ultimi cento anni di quanta ne ha acquistata”, dice Baba Cesare. “Io cercavo gli insegnamenti dell’evidenza, e l’evidenza erano i guru: come si muovevano, come parlavano, come comunicavano”. Il punto è che, dice, quando li vedi in India hai un’evidenza di religione, come da noi coi nostri preti non abbiamo più.

   E’ la storia di un discepolo che diventa maestro, dove casualità e ricerca, come sempre, si mescolano. “Immaginati un sentiero senza ‘dove’, che uno vede strada facendo”, dice il sadhu della propria vita. “Da tutto quello che è successo ho tratto insegnamento. Tutto, sia il positivo e il negativo, è stata una scuola. Sono tutte evidenze che dio ti porta nella vita giusto per farti arrivare a un certo tipo di idea”. Quanto all’idea di Dio, “è una pazzia, un sogno, una visione. (...) E’ un’energia ad alto livello, senza forma e senza nome. E noi ci siamo dentro. Cioè, non puoi leggere una spiegazione di dio in un libro, capito? Ci devi arrivare per stadi, prendendo coscienza di quello che sei. Cosa siamo? Noi siamo terra, il fermento della crosta terrestre. Ci dobbiamo identificare col pianeta, non con noi stessi, perché questo identificarci con noi stessi è illusorio”.

(una versione di questa recensione, con qualche taglio, su l'Unità di domenica 11 dicembre 2011)

12/07/2011

Caffè sospeso: giornata del dono (anonimo)

Il dono, scriveva Jacques Derrida, è un paradosso: per essere dono dev'essere sconosciuto sia da chi lo fa che da chi lo riceve. Entrambi dovrebbero ignorarlo (poiché nemmeno l'inconscio si sottrae al circuito economico del debito/credito, dell'obbligo e dell'obbligazione). Ora, non dico che la gloriosa tradizione napoletana del caffè "sospeso" riesca a sfuggirvi, però è la cosa a  mia conoscenza che più si avvicina al dono (a parte l'elemosina zen, che offre agli altri la possibilità di offrire): lasciare un caffè in sospeso (quindi offrire alla cieca) per il prossimo (anonimo) che entra nel bar... Per questo volentieri pubblico e promuovo:


10 DICEMBRE - GIORNATA DEL CAFFÈ SOSPESO

La “Rete del Caffè Sospeso” promuove il recupero di una antica usanza solidale, nei bar, nella cultura… nella vita.
   A Napoli c’era in passato un’usanza molto curiosa: quella del “Caffè Sospeso”. Chi era meno abbiente poteva trovare al bar un caffè in omaggio pagato da un precedente avventore, che lo lasciava in ‘sospeso’ per persone meno fortunate che non potevano permetterselo. Non si trattava di elemosina ma di un atto di condivisione dei problemi, solidarietà e comprensione.
   La “Rete del caffè Sospeso - festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” invita i bar ed i locali d’Italia a riprendere l’antica usanza napoletana che consisteva nel lasciare un caffè ‘sospeso’ per chi non poteva permetterselo… Una pratica che la Rete promuove anche nella cultura e nella vita quotidiana
http://www.caffesospeso.wordpress.com/
   La “Rete del Caffè Sospeso - festival, rassegne e associazioni culturali in mutuo soccorso” è nata a Napoli il 14 novembre 2010 da 7 festival italiani che hanno deciso di unire le forze e fare rete scambiandosi idee, progetti e prodotti culturali per sopravvivere o addirittura crescere in questi difficili tempi di crisi economica e tagli alla cultura.
   In poco più di un anno di vita la Rete ha creato significativi scambi e condivisioni fra i 7 festival, ha ottenuto diverse nuove adesioni ed ha ora deciso di istituire, in concomitanza con la Giornata Internazionale dei Diritti Umani, il 10 dicembre - Giornata del Caffè Sospeso, iniziativa che si pone l’obiettivo di proporre la ripresa dell’antica usanza partenopea in bar e locali d’Italia e di conseguire nuove adesioni alla Rete attraverso la diffusione, nel settore della promozione culturale e nella vita quotidiana in genere, della filosofia solidale su cui si fonda. Il 10 dicembre alcuni festival e associazioni della Rete organizzeranno degli eventi.
   In www.caffesospeso.wordpress.com è possibile trovare maggiori informazioni, curiosità e consultare la lista di associazioni, festival e locali che hanno fino ad ora aderito alla Rete.

12/02/2011

V per Violenza - "Ho ventotto anni, e sono incazzato... " (sulla manifestazione del 15 ottobre, e altro)

Qualche giorno dopo la manifestazione del 15 ottobre (quella famosa perché "hanno sfasciato tutto") ho raccolto questa testimonianza. Ha un sapore e una tonalità (un'autenticità) diverse da quelle uscite a caldo sui giornali (e sulle quali molti dubitano). E' rimasta in sonno qualche tempo, ma ora eccola, sul Venerdì di Repubblica di oggi, 2 dicembre 2011, forse più attuale che mai. Ho preferito che le parole di "Valerio" non fossero interrotte da nessuna interlocuzione, e chiudere le virgolette solo alla fine. Al monologo segue poi un mio breve commento.

   Ho ventotto anni...

   "Mi chiamo Valerio, ho 28 anni, laurea in Scienze politiche a 24 e un master a Londra, oltre a un liceo classico alto borghese dove ho sgobbato fin da ragazzino, e sono disoccupato da anni in cerca di una prima occupazione che non arriva mai. Ho provato, campando di espedienti, a prendere con altri una casetta al Pigneto, quartiere di fighetti dove ormai tutto è carissimo, anche un tè o un bicchiere di vino. Sono addirittura tornato dai miei genitori, che pure tra l’altro la crisi la stanno sentendo: la carta di credito è diventata come un bancomat, se non hai i soldi sul conto non struscia più. Mi rode il culo che con tutto quello che ho studiato non trovo niente, anzi sono incazzatissimo, tant’è che scendere in piazza per me è un’occasione anche di sfogo. Vorrei che fosse occasione per una prospettiva, un progetto, ma il 15 ottobre me lo sono vissuto solo a sfasciare tutto.

   "Dopo la maturità ero stato a Genova cogli amici di scuola, al Carlini [lo stadio dove nel 2001 nacque il movimento de “i disobbedienti”], dove sotto le tende avevo tante aspettative… Anche quando sono entrato alla Sapienza ho gravitato per un periodo nell’area dei “disobbedienti”. Poi però quell’auletta di scienze politiche mi sembrava la piazza di un paesino tipo Albano: sempre più provinciale, un mondo chiuso in se stesso. Nel 2003/2004 di quell’ambiente che seguivo senza essere un vero militante ero deluso. Vi ritrovavo forme e rapporti di potere simili a quelli del mondo che vorremmo combattere: quell’essere leader, tenersi la poltrona per anni, sempre lo stesso portavoce che va dall’Annunziata o da Santoro, quell’essere attaccati al proprio ruolo. Ho visto sgambettarsi e sgomitare come per un posticino in un giornale o un posto di dottorato, e anche nei rapporti con l’altro sesso. Perciò ho continuato a frequentare i cortei, ma la mia palestra è stata la curva. Ho iniziato ad andare allo stadio, a volte tappandomi il naso perché hai a fianco gente che dice cose indegne, ma almeno sai con chi hai a che fare. E’ negli ambienti che dovrebbero essere rivoluzionari che hai le delusioni.

   "Con un gruppetto di amici conosciuti allo stadio e altri ci siamo un po’ più politicizzati, portandocene appresso altri a certe scadenze, come il 14 dicembre 2010 o in Val di Susa, e ci troviamo in piazza. Non è che facciamo chissà quali riunioni. Abbiamo la nostra vita, anche se abitiamo quartieri diversi abbiamo il nostro baretto dove ci becchiamo al pomeriggio, il posto per l’aperitivo e la birreria dove c’andiamo a ‘mbriacare la sera. Nelle nostre discussioni abbiamo sempre davanti la politica, anche se a volte è una politica da bar - i soli con un po’ di esperienza politica siamo io e un’altro che abbiamo bazzicato i collettivi. Agli altri conosciuti allo stadio, specialmente un gruppetto che viene da Tor Bella Monaca, la militanza politica non gliela fai digerire facilmente, e da solo non sarei capace di formare un collettivo. Più facile entrarci, in un collettivo, se trovassi una proposta.
   "Il problema è che ci stiamo tutti a interrogare sul lavoro: quelli che nonostante la laurea fanno i camerieri in quartieri tipo il Pigneto, San Lorenzo o Campo de Fiori, quelli che stanno a smazzare [spacciare] la roba a Tor Bella o San Basilio o ai palazzoni, altri come me che non vogliono smazzare e dopo tanti studi non s’arrendono all’idea di fare il cameriere, e questo perché mamma e papà mi possono ancora parare, non so per quanto, se no prima o poi dovrò fare pure io il cameriere al nero o andare a smazzà all’angolo. Ci interroghiamo su dove andremo a finire, ma io voglio campare oggi perché sono vivo adesso, mi interessa il presente non il futuro. Il futuro lo lascio a quelli che si sono nominati leader degli indignati senza che il movimento degli indignati esista. Di essere indignato non me ne frega nulla perché io sono incazzato, e anche i miei amici. Ma se esistessero dei veri indignati li rispetterei, come rispetto quelli in Spagna, come ho rispettato quelli accampati in piazza Tahrir al Cairo. Non i soliti quattro che vanno in tv e si nominano leader del movimento degli indignati. Non esiste questo movimento in Italia, ve lo siete inventato sui giornali, voi e quei leaderini post-disubbidienti cresciuti con le loro riviste culturali. Ecco, adesso siete diventati indignati, e domani? Ogni mese cambiate, siete stati quelli col passamontagna perché vi siete eletti legittimi discendenti di Marcos, ora siete gli indignati, domani che sarete, i venusiani? Vi aggregherete al dott. Spock?

   "Tornando al corteo, col gruppo mio ci siamo portati quattro zainetti, con serci [sassi], bomboni e martelli... Io non ho il mito della violenza, e nel gruppo mio neanche quelli che vengono da situazioni più disagiate hanno un mito della violenza, per quanto se la vivano tutti i giorni e ci mettano un attimo a fare a botte. Però ci rode il culo che anche se hai un progetto ti sentono solo quando usi la violenza e fai rumore. Io ci credo e spero che prima o poi qualcosa possa accadere, che la gente si sollevi, ci sia un insurrezione, e comunque quando ci sono cambiamenti la violenza c’è sempre. Anche se vai con le mani alzate, come Ghandi o Martin Luther King, la lotta per i diritti civili o la liberazione coloniale in India sono costati un botto di morti, perciò la non violenza non può essere la scusa per non fare un cazzo.
   Non condanno le forme di violenza perché sono stato anch’io in piazza. Dico soltanto che una macchina che non mi serve per fare una barricata, e che non è di lusso, io non la brucio, e specialmente mentre passa il corteo: metti che abbia la bombola perché va a gas, se zompa fa male a chi sta nel corteo. Certe stronzate il gruppetto mio non le fa, neanche i più agitati e fulminati di noi. Così come non lasci una tanica di benzina per dar fuoco a un palazzo. Perciò esagerazioni e sbagli sì, ci sono stati. Io la macchina di un poveraccio non la brucio. Brucio una macchina solo se sono costretto a chiudere la strada perché c’ho dietro le gazzelle della polizia o i blindati. Ma non le macchine parcheggiate, come ho visto a San Giovanni. Le vetrine di bar, negozi, banche si possono rompere, come i macchinoni di lusso: io li sfondo.

  "Io e altri due, quelli che hanno un po’ più studiato, abbiamo provato a far leggere al gruppo un libro di un collettivo invisibile che viene da Parigi, si chiama L’insurrezione che viene, per me una delle letture più importanti di questo periodo, e in Francia tra l’altro un grande successo editoriale. Qualcosa capivano, tra una birra e una canna, tant’altre volte dicevano “aoh, che cazzo vuol di’?’”. Alla fine gli ho fatto leggere l’ultimo libro di Marco Philopat, almeno due risate se le sarebbero fatte, ho pensato, e mi han detto: “Portaci un altro libro che faccia ridere così”. Seguo le cose che ancora escono su siti come Indymedia, Uninomade, Info Aut, ma faccio fatica a tradurle al gruppo. Più facile portarli a vedere V per Vendetta, e sicuramente più istruttivo. Giornali? Giusto ogni tanto il manifesto per leggere cosa fanno al cinema, e il Corriere dello sport.
   "Lo stadio comincia ad essere un campo chiuso: ci hanno cacciati con la “tessera del tifoso” voluta da Maroni, anche se ci si continua ad andare, e ci ritroviamo di più per strada. Ma devo dire, nella mia ignoranza, che una crisi così non c’è mai stata, neanche quella petrolifera dei primi anni ‘70 era sentita così. Poi c’è quello che sta accadendo in tutto il mondo, nei paesi arabi, in Grecia, quello che è successo l’autunno scorso in Italia, in Inghilterra con gli studenti delle gang di periferia. Cose grosse stanno succedendo in tutto il mondo, in Spagna, negli Stati Uniti, l’altro giorno le cariche a Oakland, ma da quant’è che non c’erano cariche a Oakland? Forse neanche ai tempi delle Pantere Nere. Perciò penso sia un momento in cui occorre farsi sentire, anche senza un progetto alcuni nodi stanno venendo al pettine, bisogna agire, anche se certo il nostro è un agire un po’ random...
   "Io provo questo grande disagio: alla fine questa società borghese ha abbandonato i suoi stessi figli, che non possono strisciare la carta come i genitori, che si sono abituati ad averci le Nike, l’IPhone, e che per lavorare devi avere il Lap-top portatile, tutte cose che non sono un lusso, ma sono diventati beni necessari. Noi che siamo cresciuti con questa roba, ci ritroviamo che non l’abbiamo più, e ci sale una grande incazzatura. Lo so, lo capisco che manca un progetto, non solo io che ho studiato, anche quelli meno avvezzi alla politica o che non hanno studiato. Perché anche loro la sera tornando a casa si dicono: mo che famo? Oggi abbiamo rotto tutto, domani che facciamo? (Pausa). Alla fine è dura".



V per violenza (e "l'insurrezione che viene")
  
   Il 15 ottobre fui turbato, più che dalle auto in fiamme, dal video dell’incappucciato che usciva da un portone con una statuina della Madonna e la frantumava per terra prendendola a calci (altri del corteo lo inseguirono indignati). Un gesto di puro fascismo, in linea con gli ultimi 15 anni di un’ideologia al potere che ha disprezzato ogni valorizzazione non immediatamente economica. Quel gesto era l’opposto di un cartello che pure stava nel corteo: “La poesia è anticapitalista”. Nel suo provocatorio candore ricordava la forza sovversiva dell’“inutile” – come la poesia, appunto, la scuola, l’educazione o la bellezza, e come l’azzurro del manto di quell’inutile deliziosa madonnina di gesso. Provai rabbia e pena per il terribile equivoco di quel giovane disgraziato, ammalato da anni di diseducazione versata come napalm da anni di cinismo di governo. La violenza diffusa è proporzionale alla disperazione e all’assenza di orizzonti. E le parole di Valerio, che non definirei mai un black bloc, sono ampiamente condivise. Valerio è un ragazzo come tanti, e la durezza del tono e la voce arrochita non ne nascondono la simpatia. Lo sfogo della violenza non è del resto una prerogativa dei soli maschi, ma equamente ripartito tra ragazze e ragazzi: la rabbia e la precarietà come condizione esistenziale realizzano un’amara parità di genere.
   Parafrasando il famoso libro di Pessoa, Una sola moltitudine, quella dei giovani è oggi una varia solitudine, difficile a raccontarsi perché “precarietà” è soprattutto perdita di un senso narrativo della vita. La politica si è disgregata o dissolta, e la solitudine ne è la spoglia. La loro rabbia è individuale come quella dell’eroe del film V per Vendetta, tratto dal fumetto di Alan Moore, riferimento oggi dominante del loro immaginario. (Ironia della storia, il personaggio con pizzetto e cappello ricalca l’inglese Guy Fawkes, cattolico papista e reazionario, autore nel 1605 della “congiura delle polveri” per far saltare in aria il re Giacomo I e il Parlamento protestante).
   L’insurrection qui vient – “L’insurrezione che viene” – è invece un pamphlet politico firmato nel 2007 in Francia da un “comitato invisibile”, aggiornato nel 2009 e pubblicato dall’editore Hazan. Circola in Internet, così come traduzioni italiane anch’esse anonime. Spiega a modo suo alcune cose, altre le anticipa. Consiglierei di dargli un’occhiata, tra una notizia e l’altra di aumenti dello spread, e soprattutto di trasformazione della miseria e dell’esclusione sociale in problema di ordine pubblico. Se il dissenso è criminalizzato, e la politica che si affaccia viene irrisa o minacciata sul nascere (come con le allusioni dell’ex ministro Sacconi al terrorismo che scaturirebbe dalle critiche verbali), non stupiscano le forme violente di protesta. All’annuncio di migliaia di licenziamenti in Grecia hanno risposto giorni fa ad Atene centinaia di persone col più massiccio esproprio di un supermercato. Nicolas Demorand, su Libération del 2 novembre, ha posto per primo il problema dell’emergenza democratica dietro l’emergenza finanziaria. Lo ha fatto a proposito del referendum in Grecia, “avanguardia della disperazione”. Esso ha turbato l’Europa perché pone “l’unica vera questione, totalmente tabù e finora perfino rimossa, impossibile da formulare tanto è vertiginosa e terrificante per chi ci governa: che cosa pensano i popoli della brutale cura di austerità che sta per abbattersi su di essi?”
   Al corteo degli studenti del 17 novembre ho sentito discorsi più preparati di quelli di molti parlamentari. “La crisi va pagata da chi l’ha provocata”, dicevano gli striscioni. E mentre gli studenti gridavano di volersi riappropriare del futuro, bloccati a due passi dal Senato, all’interno il premier del “governo tecnico” (la freddezza della formula risaltava a fianco della calda empatia degli studenti), chiedeva la fiducia.

(uscito su Venerdì di Repubblica, 2 dicembre 2011)

11/30/2011

Altre panchine... (da "Il Fotografo)


Grazie a Laura Marcolini, per il numero di novembre della rivista Il Fotografo, che pubblica fotografie (piuttosto belle) di panchine mandate dai lettori, ho scritto questo breve testo che appare come introduzione alle pagine (e alle foto):

   Se sedersi su una panchina fa diventare oggi invisibili (per via del tabù sociale e dello sguardo verso chi esibisce la propria libertà, il proprio “ozio” o la propria povertà), chi fotografa le panchine è doppiamente da festeggiare: rende visibile l’invisibile. Mostra quello che resta, ovvero che resiste, alla dissoluzione di spazio e tempo gratuiti: come suggeriscono le panchine fotografate da Pasquale Aiello e Wanda D’Onofrio. E cosa c’è di più attraente di una panchina vuota e ben situata che ci attende (come quelle di Fabbri, Geroli, Morselli, Zanni)?

   Gavioli, Gresti, Petrucci, Spirito, Verdoliva: loro hanno visto panchine splendidamente abitate, come quelle semplici e gioiose di Michelangelo Viterbo. O il riposo degli ambulanti (Massimo Liverani) e degli sportivi della domenica (Meraviglia). Quanto alla panchina nella piazza di una città (Parigi?) fotografata da Uboldi, l’uomo di spalle che verosimilmente legge, il cane sotto di lui che si confonde con l’ombra, esprime la poesia dell’abitare che mi è più familiare (Parigi compresa): la panchina solitaria e anarchica, la panchina come stile di vita, quella dell’uomo della panchina di Simenon, invidiata da Maigret. Dove si siede chi non ha paura della solitudine, anzi (poiché la solitudine non è mai nei luoghi isolati, ma là dove vive la moltitudine) e contempla il mondo tra una lettura e l’altra.

   A rigore, per sedersi su una panchina non è necessario ci sia una panchina: è il sedersi, uno stato dello spirito che coincide con un arrendersi, a fare la panchina. Può essere il gradino di una scalinata (quella metafisica di Angelo Nesci), un sedile tra cielo e riva del mare con incredibili colori (Antonio Feci), o addirittura dentro il mare, sulla poppa di una nave che contempla tempo e spazio trascorsi (Riccardo Vallini) O un sedile di pietra dura, che la fine del lavoro rende morbida come il tempo liberato (Claudio De Paoli).

   La panchina in bianco e nero di Giustiniani è struggente archetipo del sopravvivere, e insieme destino delle panchine nella nostra civiltà: a fianco di reti metalliche che impediscono e chiudono, minacciata e assediata, ma tenace come la Ginestra di Leopardi. Come la sagoma della panchina che resiste sui tetti accanto alle ciminiere (Paolo Urbani), o ravvivata dallo skate nei giardini urbani di pietra (Diego Giancaspro). O l’utopia (non trovo parola migliore) di quella panchina sull’erba che sembra muoversi, scorrere sotto di essa, di Canzanella, tra i cui listelli di legno si muovono le ombre di un film, il film della vita della gente che si siede sulle panchine.

11/26/2011

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

[Per una frastagliata serie di associazioni di idee, ritrovo questo intervento, miracolosamente trascritto e salvato (non da me), che feci alla tavola rotonda/seminario collettivo (ognuno doveva portare una domanda), a cura della la Fondazione Baruchello, dal titolo “Dall'arte dalla poesia venti domande per interrogare il mondo”, il 20 ottobre 2004 presso la Casa delle Letterature, nell’ambito di RomaPoesia. E, cosa singolare, lo trovo di attualità (personale), cioè adesso mi interessa, non so a voi (oltre al fatto che si tratta, credo, di una delle cose più intime che ho scritto).]

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

   Sono venuto a mani vuote. Non ho portato una mia poesia sul mondo – la mia domanda – ma renderò omaggio a un assente – nella metafisica delle parole di rendere presenti gli assenti – leggendo una poesia di Samuel Beckett nella traduzione di Gabriele Frasca, che avrebbe dovuto essere qui oggi. E’ l’ultima poesia di Beckett – “Comment dire”, “What is the Word” – scritta in francese nell’autunno dell’88, e da lui tradotta in inglese nell’estate dell’89, poco prima di morire. E’ quindi la sua ultima opera. Vorrei dire, questo è il mio contributo, qualche parola preliminare per spiegare la mia profonda adesione a questa poesia, che nella traduzione di Gabriele Frasca si chiama “Qual è la parola”.
   Quello che mi fa aderire a questa poesia, e a Samuel Beckett in generale (ma anche all’Infinito di Leopardi, o a una poesia di Pascoli che si chiama Nebbia, dove si invoca la nebbia perché, dice il poeta, rende invisibili le cose lontane, e gli permette di dire “il” pero, “il” melo, “il” muro, cioè rendere più evidenti le cose vicine; così come Leopardi nell'Infinito dice questo colle, questa siepe, questo mare, quel pensiero, quella immensità, ecc.), quello che mi fa avvicinare così tanto a questo tipo di dizione poetica è l’uso dei deittici, o, come dicono i linguisti, “indicatori spazio-temporali”, shifters (Jakobson), o ancora “indicatori dell’enunciazione” (Benveniste). Parole che a torto consideriamo poco nella lingua, e che secondo alcuni sono non solo le più liriche, ma anche le più filosofiche. Si tratta di avverbi, pronomi e aggettivi dimostrativi, particelle pronominali, come “questo” appunto, o come “qui e ora”. Sono le demarcazioni dello stare al mondo nel proprio presente, nella propria vita, nella mortalità della vita di chi scrive ed è parlante. In effetti, nella filosofia occidentale, negli esiti diciamo più alti o profondi, più onesti, del pensiero, i filosofi si sono sempre affacciati sulla soglia o sul bordo dei deittici. Per esempio “l’essere-il-ci”, che traduce il Dasein di Heidegger, essere la particella ci, Esserci, essere il Da; o, ancora prima, il pronome dimostrativo diese (questo) con cui si apre la Fenomenologia dello spirito di Hegel, la sua epistemologia: “prendere il questo”, das Diese nehmen, afferrarlo (e afferrare l’adesso) la sintetizza. Essere, incarnare il ci, il questo, il là, l’essere là (fra l’altro, le immagini di Luca Patella proiettate qualche minuto fa ci hanno incantato per lo stesso motivo, e a un certo punto riportavano proprio questa frase, essere là). Tutto questo significa anche, ma si tratta di un pensiero troppo denso per svolgerlo qui, essere testimoni: testimoni di un fallimento supremo delle parole e delle immagini, della vita mortale e del linguaggio. Testimoniare l’infinito e l’incompiuto, il loro essere sinonimi.
  
   Ieri sera mi sono imbattuto in una frase di un artista visivo americano, Richard Foreman, che si augurava (traduco a memoria) “che i miei segni diventino il più possibile muti per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga” (what is happening to happen). Questa frase mi ha ricondotto a un’altra domanda – poiché le domande sono la cosa più importante e le risposte sono sempre ridondanti rispetto alle buone domande – una domanda, dicevo, di più di duemila anni fa, che il Sesto Patriarca della trasmissione del Buddhismo dall’India alla Cina pose a un allievo, il quale gli rispose otto anni dopo (e diventò il Settimo Patriarca): “Chi è che arriva così?”. Noi diciamo: che cosa av-viene così? In questa domanda, naturalmente, la parola più importante è “così”, e la seconda parola più importante è “che cosa”. Nel senso che è importante non il che cosa dell’identificazione, ma il fatto che qualcosa arrivi. Importante è il quod, non il quid dell’arrivare, dell’accadere. Dell’avvenire. E mi sembra che tutto questo possa articolare e portare le domande fondamentali dell’arte e della poesia. Siamo sempre nell’ambito del qui e ora, dei deittici.

   Tathagata vuol dire “colui che viene e che va”, il “così venuto” (o “così sorto”): è la definizione del Buddha in sanscrito. Nel passaggio in cinese e in giapponese si dirà: Nyorai. Al centro di tutta questa scuola di grammatica dell’ineffabile – o di saggezza, o di stare al mondo (cui non è esente la tradizione giudaico-cristiana: dal Dio interrogato da Mosè ai grammatici medievali) - basata sui deittici, cioè parole che indicano innanzitutto che il linguaggio ha luogo, che il linguaggio avviene - al centro dicevo di questo tramandarsi è la nozione che dovremmo tradurre, alla lettera, con “cosità” (immo, nel buddhismo zen di Dogen), l’essere-così-del-mondo, il vedere le cose così, telles quelles, tali e quali. Ciò che assomiglia a una nozione della retorica greca, enàrgeia (non enèrgeia), che in latino è tradotta con evidentia, l’evidenza delle cose (che è già un bel mistero, se non il mistero). Ovvero ammutolirsi per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga. Che è tutto il contrario della rappresentazione. Dire l’ammutolimento nelle proprie parole. Come nella poesia di Beckett che leggerò tra poco.

   Il “così venuto” è anche il “così andato” (è una delle definizioni del Buddha). Andare e venire, nel contesto che ho evocato, sono la stessa parola. Apparire e scomparire, senza lutto, senza nostalgia, cioè senza rappresentazione. Al limite, ri-presentazione. O meglio, pura manifestazione. Non volevo fare un monologo: ma come dire, comment dire, il tentativo di avvicinarsi al nocciolo della questione, nella coscienza della testamentarietà delle parole, della scrittura? Del mondo. Dire la scaturigine del linguaggio, dell’enunciazione, dell’enunciatore. Dello sguardo sul mondo, dell’esserci. Testimoniare. Dirne la follia e la smania:

Folie - / folie que de - que de - / comment dire - / folie que de ce - / depuis - / (…) comment dire - / ceci - / ce ceci - / ceci-ci - / tout ce ceci-ci - / (….)
...................................................................................................................................................................

smania – smania di - / di - / qual è la parole – smania da questo - / fin da questo - / smania fin da questo - / dato - / (…) qual è la parola - / questo - / questo questo - / questo qui - / tutto questo questo qui - / (…...................................................................................................................................................)

(seguiva lettura integrale, in francese inglese e italiano, nella traduzione di Gabriele Frasca, della poesia di Samuel Beckett, da S. Beckett, Le poesie, Einaudi 1999)

(intervento registrato il 20 ottobre 2004, Roma, Casa delle letterature)

11/25/2011

La vecchia storia de "l''immaginazione al potere" realizzata

   Sono usciti due librini, due “pamphlet paradossali”, come li saluta Antonio Gnoli in un articolo ad essi consacrato su Repubblica di ieri 24/11/11: uno del filosofo Mario Perniola (Berlusconi o il 68 realizzato, Mimesis) e l’altro del poeta Valerio Magrelli (Il Sessantotto realizzato da Mediaset, Einaudi). Sono entrambi due vecchi conoscenti e/o amici. Sostengono entrambi in questi libri come Berlusconi e il suo regime rappresentino la realizzazione dello spirito del Sessantotto, e soprattutto quella “immaginazione al potere” (incarnata dalla tv che sostituisce o comunque informa la realtà). Entrambi i libri sono salutati come portatori di una stessa idea nuova e provocatoria. Sono pubblicati oggi mentre Berlusconi e i suoi effetti, in qualche modo, sono finiti o hanno esaurito, dispiegandola e mostrandola interamente, la loro artificiosa magia.
   Di questa idea della trasformazione dell’immaginario e del progetto sessantottino in nuovo Potere pubblicitario (berlusconismo) scrivo da una decina d’anni esatti.

 La prima volta fu in un articolo su l’Unità del 29 aprile 2001 che riportava una mia conversazione con Jean Baudrillard (con cui ero in relazione da moltissimi anni). Cito il brano: “nel mondo delle immagini, dove tutto il reale deve divenire immagine, a prezzo della sua scomparsa, in cui il mondo stesso non è che un fantasma o una clonazione di sé, l’ascesa di Berlusconi, prima nelle televisioni e poi nel vuoto lasciato dalla politica, rappresenta forse proprio la tragica realizzazione di quello slogan del ’68 che pretendeva “l’immaginazione al potere”. E’ quando l’immaginazione va al potere, che l’immaginazione perde il suo potere.”
   La seconda volta fu in un’intervista a Bernardo Bertolucci (sempre su l’Unità, 2 ottobre 2001) intitolata “L’arte di aprire gli occhi”. A un certo punto dico:
   “Si diceva, una volta, «immaginazione al potere», slogan esistenziale e politico che riassume le utopie di molte generazioni. Il sospetto è che oggi, mutandone radicalmente i contenuti, e con l’uso strumentale della civiltà delle immagini televisive, l’immaginazione al potere l’abbiano realizzata Berlusconi e il suo regime mediatico-pubblicitario. «Direi piuttosto marketing al potere» – replica Bertolucci...”.
   Con l’amico regista ne riparlai in “Quelli che sognano”, pagina-intervista su Dreamers, sempre su l’Unità, 8 ottobre 2003. Gli riproposi la mia idea, e Bernardo Bertolucci parlò giustamente del “sogno” di Enrico Berlinguer (“I sognatori devono essere capaci di visionarietà, qualcosa che oggi ci manca molto. I grandi sognatori sono contagiosi”), aggiungendo dubbioso: “Quanto all’idea che “l’immaginazione al potere”, lo slogan del ’68, si sia realizzato in modo perverso con Berlusconi, non riesco ad accettare un’idea così tragica. Lui è la fine del sogno, la negazione del sogno. E non è neanche uno coi piedi per terra. Che cosa è?…».
   Qualche giorno prima (l’idea, evidentemente, mi ossessionava), in un colloquio con lo scrittore Chuck Palahniuk pubblicato su l’Unità il 30 settembre 2003, all’epoca dell’uscita in Italia del suo Lullaby (Ninna nanna), “storia di un incantesimo che si propaga come un virus, e i richiami al Grande Fratello nel libro abbondano” gli chiedo: “Non è che magari ‘l’immaginazione al potere’, il celebre slogan del ’68, si sia realizzato, sì, ma in un modo perverso? «Certo, Ninna nanna è un libro sul potere – dice Chuck Palahniuk -. Ma tutte le nostre vite sono storie di potere. Oggi chi è che ha potere? Colui che riesce ad attirare l’attenzione, chi riesce a farsi ascoltare e a raccontare la propria storia, e soprattutto chi riesce a convincere gli altri che la sua storia è quella giusta. In fondo è sempre stato così, da Gesù a Bush (o Berlusconi), chi riesce a convincere gli altri ha potere».

   Salto qualche anno. Su La Stampa del 16 settembre 2009, in una serie estiva sui libri simboli di alcune date del passato recente, parlando di Creature del buio di Stephen King, uscito nel 1989, e quindi del genere horror, scrivevo che “c’è un motivo più sottile, uno ‘spirito del tempo’ che mi fece forse inconsciamente cercare, nei romanzi detti horror, una chiave di lettura dello scollamento ideologico e non solo che si stava vivendo. Scollamento che di lì a poco avrebbe travolto l’assetto politico italiano e promosso l’anti-politica nella forma di un “regime” - sia detto in senso tecnico - mediatico-pubblicitario: l’immaginazione al potere (ma in senso opposto allo slogan del ’68)”.
   Molto recentemente, in un mio intervento nel dibattito politico-culturale sulla casa editrice Einaudi (l’Unità, 4 settembre 2010.), ho scritto tra l’altro: “Ecco la consapevolezza del tragico di cui ho sentito così fortemente la mancanza nel dibattito attuale, dove è assente e sradicato anche quel minimo di continuità di pensiero e di memoria che ci dovrebbe far sentire contemporanei ai Minima moralia di Adorno, a quella “triste scienza” (traurige wissenschaft) che è poi la coscienza morale, doloroso rovescio della “gaia scienza” di Nietzsche, oggi possibile solo nelle forme dell’orgia del potere berlusconiano, una immaginazione al potere e del potere che beffa il celebre slogan del ’68. Ben prima della società della pubblicità in cui saltellano e rimbalzano innocue le voci odierne, furono dette e scritte cose irreversibili sull’industria culturale, sui presupposti di un degrado della realtà cui Berlusconi, riconosciamolo, ha soltanto appesa il proprio cappello. [...] Lasciamo che sia Tremonti a citare Marx, la cui attualità è di un’evidenza abbacinante, perdiamo ogni consapevolezza e responsabilità intellettuale degli ultimi cinquant’anni...”.

   Vengo al quasioggi. In un articolo-intervista sul bel libro di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre (l’Unità del 17 aprile 2011) ho scritto tra l’altro: “Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra la l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.”
   Tralascio le rubriche tenute per dieci anni su l’Unità. Cito giusto quella (“acchiappafantasmi”) del 14 ottobre 2008, dal titolo “Contro il virtuale (e il neon)”. Salutava il bel lbro della poetessa Lidia Riviello, Neon 80), e iniziava così: Il personale è politico” è uno slogan degli anni Settanta. Meglio del sessantottino “l’immaginazione al potere” (che potrebbe ormai designare l’impero Mediaset e il suo padrone, che con l’intrattenimento e l’immaginazione ha instaurato un regime pubblicitario), era un modo di esprimere e praticare la fine di una frattura artificiosa: dove comincia la politica, dove finisce? Dove inizia la realtà? (...)". Nella stessa rubrica, il 10/6/2009, con un fotomontaggio de “Il Papino” (ovvero il profilo di Berlusconi al posto di quello di Marlon Brando ne Il Padrino), scrivevo su Berlusconi che “La nuova epica italiana è lui, così come ‘l’immaginazione al potere’..."

 P.S.  Oggi tutto questo mi sembra vecchio, doppiamente rivolto al passato. Non so quindi a cosa serva che lo abbia ricapitolato. A parte che ho riscoperto cose che non ricordavo di avere scritto (ho fatto un check nel computer, e saltava fuori una marea di robe). E' stato come un raptus ("tecnicamente, l'ego ha i suoi diritti", mi ha scritto un'amica, Lidia R.). Avevo scritto un'altra chiosa lunga ma l'ho cancellata.
   E' un fatto che hanno successo solo le idee che trovano e incontrano nel pubblico dei lettori (quindi nel mercato) un "riconoscimento", ovvero che si sono già sedimentate in senso comune e lo confermino. In questo senso, il mio è un lavoro alieno - giocare in anticipo e poi passare ad altro.
   Tuttavia rivolgo un invito, a me come agli altri che scrivono e che hanno, o credono di avere, delle idee (già il fatto di avere delle idee dovrebbe insegnarci, come prima cosa, che viviamo in una rete, un web di idee, e siamo tutti connessi, ben prima e ben altrimenti che con Internet), un invito, dicevo, a pensare e riconoscere sul nascere, meglio anche prima del nascere, quello che sta per avvenire ed è ancora informe, quello che arriva, e il fatto stesso che qualcosa arrivi... A questo serve scrivere e avere delle "idee".
   Ancora meglio: auspico di fare propria quella specie di preghiera dell'artista Richard Foreman, ovvero fare sì “che i miei segni diventino il più possibile muti per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga” (what is happening to happen).

11/19/2011

L'ombra della salvezza (omaggio a Murakami Aruki)


In uscita domani (domenica 20 novembre) sulle pagine della cultura de l'Unità:

   Ci sono autori il cui nome resta “legato”, nel senso anche di un’eredità, alla scoperta di una nuova dimensione e di un nuovo sentire. E’ così, per esempio, che il mondo si è arricchito di situazioni kafkiane o pirandelliane, personaggi gogoliani e paesaggi urbani che ci sembrano quadri di Edward Hopper o fotografie di Luigi Ghirri. Murakami Haruki è uno scrittore che, come i più grandi, ci ha dato non solo degli occhi per vederlo, il mondo (soprattutto quello invisibile), ma ne ha ampliato la percezione. Contano naturalmente la musica e l’inconfondibile tono della sua prosa.


   Murakami si è fatto le ossa traducendo in giapponese, tra gli altri, i racconti di Raymond Carver, vale a dire assimilando la tradizione del racconto a partire da Cechov. A forza di acuire lo sguardo (magari chiudendo gli occhi per vedere meglio) è arrivato a offrirci percorsi narrativi e collegamenti inaspettati tra la realtà più ordinaria e quella più fantastica. I suoi romanzi e racconti collocano magie e visioni in una vita quotidiana dove l’incanto è immanente. Nelle sue pagine si può viaggiare attraverso i muri di un albergo, varcare porte senza porta oltre le quali incontrare una fanciulla muta e un uomo-pecora. Può accadere che un vecchio che parla coi gatti e un ragazzo scappato di casa viaggino parallelamente fino alla fine del mondo senza conoscersi, per poi darsi il cambio in una missione salvifica (Kafka on the beach). La vita più ordinaria e nuda ha sempre in Murakami la possibilità di una trasformazione, di un salto quantico. Basta lasciarsi andare, quel “lasciarsi andare” che descrive lo stile senza tempo del suo narrare, frasi che si susseguono con placida lentezza e dove tutto è possibile.

   Fin dal suo primo libro che lessi, L’uccello che gira le viti del mondo (un tomo anche più grosso di 1Q84), è stato come se una musica di fondo ne accompagnasse la lettura. Così come certe musiche contemporanee dette ripetitive (da John Cage a Terry Riley) ci insegnano in realtà la moltitudine di suoni in uno stesso suono, e che noi stessi mutiamo ascoltandoli; allo stesso modo, mentre la realtà si trasforma nelle storie di Murakami, anche chi legge registra in sé dei cambiamenti. Il tema di Murakami è sempre la possibilità della salvezza, qualcosa come una svolta del destino, un twist of fate. Ciò che accade, tra un’apocalisse e l’altra, anche in 1Q84.

   Con riferimento a Orwell (1Q84 si svolge nel 1984, e in giapponese 9 e Q hanno lo stesso suono) il romanzo alterna le vicende, fino al loro convergere, di due personaggi, o “iniziati”: una killer di “uomini che odiano le donne”, e un romanziere ghost writer che insegna matematica. Innamorati l’una dell’altro dall’infanzia, hanno perso le rispettive tracce senza mai dimenticarsi, e si trovano simultaneamente a un tornante decisivo del loro destino. Vedono entrambi un cielo con due lune, e percepiscono la presenza dei temibili “Little People” che governano il mondo - creature non si sa se buone o cattive, o semplicemente al di là dell’umano. Entrambi si misurano con un soprannaturale che ricorda l’Ombra descritta da Carl Gustav Jung.

   E’ un romanzo ricco come i mondi possibili di Philip K. Dick, elegante come un film di David Lynch, e sono tra coloro che un mese fa avrebbero voluto festeggiare il Nobel a Murakami. Tuttavia non credo, come sostengono la critica e la pubblicità degli editori, che IQ84 sia “il suo capolavoro”. A volte è sovrabbondante, con qualche digressione da romanzo ottocentesco di troppo. Non importa, la magia c’è tutta, e una volta iniziata la navigazione delle pagine non si ha più voglia di arrivare, ma solo di lasciarsi portare dalla corrente, tra salvezza e quotidiana routine.

11/13/2011

"Alex" - una breve recensione

   Così come l’ho letto, segnalo volentieri il romanzo “giallo” Alex di Pierre Lemaitre. Chi è? Dopo una carriera consacrata all’insegnamento della letteratura e della comunicazione, Pierre Lemaitre è oggi un romanziere francese di successo, oltre che sceneggiatore per cinema e tv. Ha scritto thriller e polizieschi assai violenti, e tra i suoi ascendenti letterari si fanno i nomi di James Ellroy e Bret Easton Ellis. Forse anche il nome del suo detective (che ricorre già in una trilogia, Alex compreso), ossia l’anomalo comandante di polizia Camille Verhœven (ma nei poliziotti dei romanzi l’anomalia è la norma) ammicca forse al regista olandese di Total Recall e de Il quarto uomo, Paul Verhoeven, noto per la crudezza estetica delle sue immagini e la violenza delle storie.
   Si potrebbe catalogare Alex come una variante del genere “uomini che odiano le donne” (cui per molti versi appartiene anche l’ultimo Murakami). Nel recensirlo mi allontano però dal vezzo così diffuso ma incomprensibile (tanto più quando si tratta di un giallo) del riassumerne pedantemente la trama - ciò che accade ormai non solo nelle recensioni, ma addirittura nelle copertine dei libri. Il romanzo di Pierre Lemaitre è bello proprio perché il suspense della storia nasconde il gioco disinvolto e sapiente con le strutture narrative. Agli antipodi della solita piatta sceneggiatura mascherata da romanzo, dietro il thriller avvincente l’autore ci srotola nelle tre parti di cui si compone il romanzo l’analisi di un evento e di un personaggio che non cessa di sorprendere, cambiando ogni volta elegantemente punto di vista. Affibbiando al lettore il difficile ruolo di testimone, insegna la differenza, ma anche l’intercambiabilità, tra vittima e carnefice. Magari i giallisti italiani imparassero un po’ di questa complessità.

(una versione ridotta di questa recensione appare su l'Unità di domenica 13 novembre 2011)

11/10/2011

La custode della luce si è spenta (l'addio a Paola Ghirri di Stefania Scateni su l'Unità)

[Un articolo che mi ha commosso da l'Unità di oggi, 10 novembre 2011, firmato da Stefania Scateni]:

   Se n’è andata l’altro ieri dopo una lunga malattia Paola Ghirri, l’altra metà di Luigi Ghirri, il fotografo della luce e dei paesaggi. L’altra metà in tutti i sensi: entrambi «incantati perenni», Paola e Luigi hanno collaborato sempre, da una parte la sapienza grafica e organizzativa di lei, dall’altra lo sguardo e la qualità artistica del lavoro di lui. Li univa un amore profondo, lo stesso senso dell’ironia, la passione per la musica di Bob Dylan, la capacità di fondere una natura di sognatori con il sapere stare coi piedi per terra. «Abbiamo vissuto e lavorato insieme dal ’75 alla sua morte (nel 1992, ndr), la nostra era una comune avventura del pensiero e dello sguardo. In 18 anni siamo stati separati fisicamente solo 43 giorni...», ci aveva confessato due anni fa in un’intervista al termine dell’allestimento della mostra dedicata all’ultima foto scattata da Luigi Ghirri.

   Da vedova Paola si era occupata totalmente al lavoro del marito. Le aveva lasciato una cascata di luce, lampi catturati dal suo sguardo naturale e allineato col resto del mondo: 190mila originali diapositive e negativi archiviati nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, moltissimo altro materiale ancora da «sfogliare». La sua maggiore preoccupazione era rispettare l’«ordine-disordine» che Luigi aveva lasciato. «Non bisogna ordinare né etichettare troppo - ci disse -. Il suo disordine ha una forza intrinseca, sai che prima o poi spunterà una foto che metterà in discussione la catalogazione fatta fino a quel momento. L’archivio non vuole che sia messo in ordine, Luigi non vuole».
   Con l’aiuto degli amici ha realizzato molti progetti - libri e mostre, fino all’approdo a New York. E con l’aiuto degli amici stava progettando, nelle sue ultime settimane di vita, una Fondazione dedicata soprattutto ai giovani studiosi e una serie di eventi per i vent’anni dalla morte del marito. Già malata aveva visto bruciare il tetto dell’amata casa di Roncocesi, scelta con Luigi e dove viveva ancora.

11/09/2011

per Paola, scritto di getto...

Una grande amica se ne è andata poco fa. Faceva deliziosi trompe l'oeil, ed è stata per anni la preziosa compagna, collaboratrice e moglie di un artista, maestro del vedere e dell'abitare, ma che non poteva separarsi da lei per più di 24 ore. non ho nessun dubbio che il suo sorriso ora sarà puro e vero e libero dalla sofferenza che ha provato negli ultimi mesi di malattia, e che riprenderà il suo gioco, la sua arte del trompe l'oeil, veramente in grande, divertendosi non uno ma mille mondi. la ringrazio per tutto quello che (mi) ha dato, ed è tanto, e che ha condiviso. per le risate. per il suo buonumore e la sua voglia di giocare, di cantare, di progettare e ancora di ridere e sognare. la ringrazio anche, con un sorriso di commozione e nostalgia, per il caffé che tanti anni fa mi ha portato a letto, in un piccolo vassoio, con sigaretta e fiammifero, al risveglio dalla mia prima notte di ospite in casa loro, di Luigi e Paola Borgonzoni Ghirri.
(In questa foto che ritrovo, l'unica che ho in versione digitale, siamo a Polignano a mare nell'estate 1987. Paola è la seconda a sinistra, Luigi l'ultimo a destra, chinato, davanti a Giorgio Messori. Io sono accucciato dietro. La foto l'ha scattata Claude Nori).

   Qui c'è un link a un'intervista a Paola di due anni e mezzo fa (la foto di cui si parla è visibile nella home page del mio sito, in basso). C:i saranno tante cose da fare per lei, e per Luigi. C'è solo da rimboccarsi le maniche.
http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/295000/291616.xml?key=STEFANIA+SCATENI&first=21&orderby=1&f=fir

11/02/2011

Giorno dei morti

...
Dei morti e degli scomparsi - perché è la stessa cosa. Anche la puttana russa di Viareggio che vent’anni fa nuotava nel mare e che non rivedrò mai più.
La visione di lei che volteggia come una bambina tra le onde, io la guardo dalla spiaggia. Quel suo brutto costume verde, il top dal colore sbagliato, e lei così felice, bellissima, come se fosse la prima volta che vedeva il mare. Lei che danza, salta sulle onde. Si gira ridendo a guardarmi. Si chiede, mi chiede, perché non mi butto anch’io con lei. Torna sulla spiaggia, vuole prendermi e portarmi con sé, mi prende il braccio e quasi mi ferisce con le sue unghie lunghe. Mi dà fastidio, la allontano. Il suo corpo bagnato. Trovo, lì per lì, motivi per rifiutarla, sapendo che ho solo paura, ho solo disagio. Torna a danzare nell’acqua, salta sulle onde, poi continua a volteggiare, volteggiare, ed è così che io sparirò, che lei sparirà.

[Ho trovato, in un recesso del mio computer, un vecchio file che si chiama "I morti". C'è scritto solo questo: "Vorrei fare l’elenco dei miei morti, di tutti i morti e scomparsi che mi vengono in mente, in loro gloria, in loro memoria, ognuno con una piccola narrazione". Poi è aggiunta, con altro carattere (copia-incolla, di sicuro) questa citazione demenziale ma vera: "Le persone se son morti prima o poi c'è un elenco dove son su" (Bruno Vespa, 9 aprile 2009, sul terremoto in Abruzzo). Sarà per questo che non l'ho ancora scritto?]

Vertigini (popoli, governi e crisi finanziaria)

"Nel modo peggiore, nel peggior contesto e con le peggiori conseguenze possibili per tutti noi, Papandreu solleva l'unica vera questione. Totalmente tabù e finora perfino rimossa. Impossibile da formulare tanto è vertiginosa e terrificante per chi ci governa. E' questa semplice domanda: che cosa pensano i popoli della brutale cura di austerità che sta per abbattersi su di essi? Grazie ai Greci, all'avanguardia della disperazione, di porla e di rispondere per primi"...

il seguito è qui:
http://www.liberation.fr/economie/01012369117-vertigineux

10/26/2011

Commento politico

10/13/2011

Terraferma & Carnage


   Ho visto Terraferma di Emanuele Crialese e l’ho trovato bellissimo. Ho visto Carnage di Roman Polanski e sono stato deluso. Questa critica si rivolge però alla critica (cinematografica), a volte pretestuosa e spocchiosa, che proietta sui film i propri vizi di superficialità e schematismo.

   Penso ad esempio all’accusa di estetismo al film di Crialese: a parte che è il film meno estetico del regista (soprattutto se confrontato all’onirismo di Nuovomondo e al suo celebre mare di latte), perché non mettersi l’anima in pace e riconoscere che sì, i film di Crialese hanno un’intensità pittorica che oggi non ha uguali, e questa sua ricchezza estetica è da ringraziare? Siamo ormai affogati dalle trame, e rischiamo di dimenticare che il narrare è più importante delle storie, che il cinema è soprattutto immagini (in movimento), come la letteratura è fatta di frasi e di toni prima che di soggetti.
   Ma in Terraferma (patrocinato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) c’è altro. Come il dibattito, quasi un’agorà, che a metà film compendia meglio di un trattato di etica la questione dei “beni comuni”. I pescatori parlano del dramma dei “clandestini” che incontrano in mare, del divieto di salvarli. Solo i vecchi dicono la verità e l’evidenza: “le nuove regole sono contro quelle nostre (...), noi dobbiamo rispettare la legge del mare”. Quando un giovane osserva che i clandestini sono una brutta pubblicità per i turisti, ecco la sarcastica risposta del padre: “E’ arrivato il pubblicitario... Secondo te avrei dovuto fare morire gente in mare per la pubblicità?”
   Vengo così alla delusione di Carnage, osannato dai critici. Nonostante la bravura magistrale degli attori e l’eleganza del testo teatrale di Yasmina Reza, scritto in una Francia laica e più che politicamente corretta, appare oggi fuori bersaglio: magari ci fosse ancora qualcosa da smascherare, magari il problema fosse l’ipocrisia, e il napalm della spudoratezza non avesse spazzato via, con le maschere, ogni bene comune e ogni evidenza. L’inferno non sono gli altri, come esclamava Sartre e sottintende Carnage, ma essere condannati, confermati a se stessi. Si ride (moderatamente) finché l’imbarazzo ci sommerge tutt’in una volta alla battuta “dopo aver visto Jane Fonda predicare alla televisione mi è venuta voglia di comprare la camicia del Ku Klux Klan”. E il relativismo della tesi di fondo, che siamo tutti nevrotici e ogni atteggiamento equivale a un altro, è più moralista e falso dell’assolutismo buonista delle magnifiche sorti e progressive.

(articolo uscito per la rubrica "zona critica" su Venerdì di Repubblica del 21 ottobre 2011)

10/11/2011

Biblioteca nomade

  [ Nella primavera del 2003, a Parma dove vissi per un periodo, pubblicai sul giornale locale una descrizione e argomentazione di una rassegna di incontri con amici scrittori che mi ero trovato a curare. Il testo è questo che segue. Lo recupero e lo dedico idealmente all'incontro che si svolge oggi a Roma alla Biblioteca Nazionale, Carte batte forbice ("contro i tagli alla cultura, per le biblioteche come bene comune, per una rivolta del sapere"). E' ancora attuale? Io credo di sì. Il degrado in questi anni è solo aumentato senza cambiare di natura, ma solo di grado, al punto che la realtà è un film horror. Ma l'antidoto resta il medesimo.
   Come autore di Panchine aggiungerei questo: che se il teatro (il Valle occupato, ma ogni teatro) è una grande panchina, la biblioteca è un immensa panchina con dentro una machina del tempo: nulla di più meravigliosamente nomade di una biblioteca.]

   Biblioteca nomade
   Sollecitato da alcuni lettori di questa città [Parma, N.d.R.], vorrei imbastire due o tre pensieri in pubblico a proposito della “letteratura” e del suo ascolto, della sua, detto con una brutta parola, “fruizione”.
   Primo. Biblioteca nomade è il titolo di una serie di incontri con autori che da qualche tempo avviene sotto mio stimolo in un caffè del Parco Ducale di Parma. Scrittori italiani e non solo parlano e leggono brani dei loro libri, e ne “rispondono” al pubblico. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione delle biblioteche civiche del Comune di Parma. Ma cosa significa “biblioteca nomade”? E’ un paradosso, anzi un ossimoro? In realtà è esattamente il contrario, quasi un pleonasma: non esistono libri che non siano in movimento, e lo stesso fenomeno recente del “bookcrossing” (libri abbandonati per essere trovati da lettori fratelli) è ciò che da sempre il concetto di biblioteca pubblica presuppone. Anche senza risalire all’etimologia di biblìon, che significa rotolo e lettera (scrittura quindi destinata e itinerante), “biblioteca nomade” è la biblioteca tout court, il libro che si avvicina al lettore, si offre, condivide il vagabondaggio e l’erranza da sempre presenti nell’atto di scrivere. Qualcosa che accorcia ulteriormente le distanze tra chi scrive e chi legge: comunità di lettori e di scriventi.

   Secondo. Ora, questo ritrovarsi a parlare e ascoltare - in un parco, in una piazza, con le parole giuste, con le parole che non servono a niente, cioè a nessuno di preciso, a nessun progetto definito, solo per il piacere di dire, dire l’autenticità; questo trovarci a raccontare storie, poiché di questo si tratta, è davvero un bel segno, no? Per esempio a Roma, Massenzio, “Festival delle Letterature”, Alice Sebold, l’autrice di Amabili resti. Oppure a Parma, Parco Ducale, “Biblioteca nomade”, Emanuele Trevi che parlava dei suoi Cani del nulla, o Lidia Ravera di La festa è finita. O nei cortili e palazzi di Mantova, al festival settembrino della letteratura… Non è solo perché ci si trova all’aperto, tra tigli, gelsomini e secolari ippocastani (Parma), o pini marittimi, cespugli di bosso e di pitosforo (Roma), ma a me viene in mente Boccaccio, e la sollazzevole compagnia di giovani donne e uomini su a Fiesole durante la peste a Firenze del 1348: “parlare a cospetto della morte”, scrisse un illustre interprete del Decameron. E’ la funzione consolatrice e creativa della letteratura, la sua fecondità, il suo coraggio. E dove si trova oggi, precisamente, la morte? Nella prosecuzione strisciante della guerra in Iraq dopo che sono state ammainate le bandiere dell’iride, nel terrorismo botta-e-risposta di Palestina e Israele, nel nostro sazio stare a guardare, nelle strade delle vacanze, nei cantieri del lavoro, nella violenza dei “giusti”, in quella dei tabaccai che sparano alla schiena dei rapinatori, quella dei rapinatori che sparano al petto di tabaccai e gioiellieri? È dappertutto la morte, come la vita stessa? Un anno fa scrissi in un articolo che l’espressione del nostro più ovvio consenso e assenso, cioè della nostra sovrana indifferenza, ha a che fare con la rimozione della morte: Ok, che nel codice militare significava “nessun morto” (per oggi), zero killed. Okay, il prezzo è giusto, diciamo invece oggi, sottintendendo che non c’è nessun problema, che va bene così, che tutto procede nel giusto verso. Giusto nel senso che tutto torna? E’ poi vero? Ma c’è un resto, c’è sempre un resto, qualcosa che non torna. Per abbreviare: affermo che la letteratura dice quel resto, quel residuo, quell’elemento eterogeneo e inassimilabile che continua a essere, sussistere, forse a disturbare. E che già essere, vivere, significa restare. La vita è resto, letteratura è l’altoparlante, anzi bassoparlante, di tutto ciò che resta, tutto ciò che resiste (è la stessa parola, la stessa origine). Allora è in nostro nome, finalmente, che ci affolliamo a volte ad ascoltare le parole degli altri, gli scrittori, parole così ampie, così inutili, e per questo importanti.

   Terzo (e ultimo). Ma nonostante tutto (e contro i miei stessi interessi) continuo a trovare strano che gli scrittori diano spettacolo (di sé) fuori dalle loro pagine. Trovo stupefacente che abbiano un pubblico per il loro apparire in carne e ossa. Se Thomas Bernhard aveva il vezzo di dire che non esistono autori, ma soltanto libri, io penso invece che non esistano opere che non siano di circostanza, nate in un contesto e radicate in un corpo. E capisco il desiderio di diventare “amico per la pelle” dell’autore che si ama, come diceva Holden-Salinger. Ma, al contrario che nella lettura silenziosa, nella parola viva degli scrittori è impossibile identificarsi: Alfredo Giuliani paragonò lo spettacolo di chi legge i propri versi a quello del trapezista senza rete. E’ una bella immagine, danzare su una corda tesa, suspense adattabile a ogni vero scrivente. Che poi i poeti si riconoscano perché là in mezzo sono quelli che balbettano, questo l’ho già scritto un sacco di volte (la balbuzie come forma matrice della poesia).
   Ancora meno spiegabile è per me che vi siano persone che pagano per frequentare corsi di scrittura. Scrivere è di per sé diventare altro, anzi divenire e basta, senza diventare mai. E allora? Forse è proprio la ricerca di quell’”altro”, di quel “resto”, il movente infinito della loro ricerca. Ogni volta che ho “insegnato” a “scrivere” ho parlato di tutto fuorché di quello: del volto, dell’abitare, di musica, del mondo esterno, della noia. Sarebbe come insegnare a vivere o a morire: si va avanti a tentoni, a metafore, contrappassi, equivalenze. Più si cerca di avvicinarsi all’argomento e affrontarlo di petto, più ce ne si allontana (più guardo una parola da vicino, più essa mi guarda da lontano, avrebbe detto Benjamin citando Karl Kraus). Meglio parlare “d’altro”. L’importante è invitare a dire l’esperienza, qualunque sia, quella che arriva al midollo, senza autocensura. Ma per arrivarci non ci sono “tecniche”, tantomeno verbali. Alla domanda “come stai?” occorrerebbe rispondere una storia, non un avverbio o un commento. Bukowski, quel “vecchio zozzone”, diceva che per scrivere bene “occorre scopare un sacco di donne”, avere la cucina in disordine e vincere alle corse dei cavalli (vincere, non giocare e basta). Un amico poeta ha scritto che non bisogna scrivere per nessuno, oppure scrivere totalmente per qualcuno (forse per questo mi piacciono le lettere e le preghiere). La storia della letteratura, Dante compreso, mostrerebbe che scrivere serve a rimorchiare le donne (o a rimorchiare gli uomini): conversione attraverso la lettura. Tutto il resto è pubblicità (e allora preferisco la politica). Per concludere sui corsi di scrittura, che sempre più spesso vogliono insegnare a raccontare storie, forse l’esempio migliore di equivalenza, di quel parlare d’altro, lo ha dato Raymond Carver: comunque vada a finire la tua storia – disse commentando il racconto di qualcuno – ricordati sempre di non far mancare il latte ai bambini, la mattina.

Ecco perché “biblioteca nomade” è una vacanza dalle parole di tutti i giorni, sì, ma non dalla responsabilità di continuare a vivere e narrare la nostra vita ordinaria.
(Giugno 2003)

10/05/2011

Diario d'ottobre (1). Le prostitute di Reggio

[E' un esperimento, in attesa del nuovo sito-blog, che è pronto da tempo ma ancora non mi decido ad attivarlo. Un diario. Che mentalmente mi sostituisce la rubrica che non scrivo più sull'Unità. Privato-pubblico. Un brogliaccio di note. Senza nessuna censura. Né, spero, autocensura.]

1° ottobre (Reggio Emilia)
   “Si prostituiscono per comprare la casa in Romania”.
   E’ il titolo più strillato delle locandine accanto alle edicole (Reggio Emilia è una delle poche città in cui si guardano ancora volentieri le locandine dei giornali, come nei paesini dell’Umbria, per esempio). Passeggio per la città intontita dal sabato pomeriggio, finché trovo un bar coi tavolini appartato, quasi periferico. E scrivo questo: dire la tenerezza che mi ha suscitato questo titolo, da annoverare tra le buone notizie, good news – esempio di proposito e progetto umile nella globale rapina armata che è il mondo del neo darwinismo sociale, senza avvenire e insaziabile di pretese. Dunque le prostitute di cui titola il giornale di Reggio non si prostituiscono per avere un posto in Parlamento, né in consiglio regionale, né in un’azienda partecipata, e intascare senza merito i soldi dei contribuenti, della collettività, e acquistando potere per compiere ulteriori scalate. No, nel sistema generale della prostituzione loro si offrono a clienti individuali, presumibilmente per strada, in macchina, in qualche stanza, per un progetto semplice e modesto: tornare in Romania e comprare una casa. Mettere su una famiglia. Magari vicino al bosco. Non a Milano o sul lago di Como o in Sardegna, ma in Romania, perché è il loro Paese.
   Forse anche la parola prostituirsi è spropositata. Penso ai mariti e alle mogli che si danno il corpo a vicenda, senza amore e senza gioia, per continuare a vivere sotto lo stesso tetto, nella stessa casa. Loro invece mi comunicano un moto di gioiosa speranza nel loro progetto di acquisto di casa. Hanno un futuro da immaginare. Loro, le prostitute di Reggio (ma ancora per poco), a differenza di noi non si sono ancora prostituite. Loro, forse, non si prostituiranno mai.



9/30/2011

Italia oggi - l'inutile sacrificio dell'apparire (sul concorso di miss Italia)

   Due estati fa, visitando la borgata poverissima dell’Idroscalo di Ostia, oggi demolita dalle ruspe del sindaco Alemanno, fui spettatore casuale del concorso di Miss Idroscalo (credo che lo vinse una bellissima adolescente mulatta). Un mondo condannato a sparire giocava con la magia dell’apparire: la sfilata avveniva su una pedana di legno improvvisata, sotto luci rubate dai pali elettrici. La organizzavano uomini e donne tatuati, un’umanità che sembrava scritta da Pasolini in un film girato da David Lynch. Non si guarda ciò che è bello, scriveva Plotino nelle Enneadi, ma è bello ciò che noi guardiamo (i quartieri degradati sono brutti anche perché considerati indegni e negati alla vista). Ricordo la grottesca periferia tappezzata di pubblicità di prodotti “Salamoni” nel profetico Ginger e Fred di Federico Fellini, dove tra le immondizie svolazzanti avevano appuntamento gli ospiti dello show televisivo prima di andare sotto i riflettori e i lustrini. Era più brutto il fuori, o il dentro degli studi luccicanti?

   Ho letto che l’elezione di Miss Italia di quest’anno è stata un flop televisivo: pochi l’hanno guardata. Alle concorrenti erano imposte nuove regole, dal non indossare tacchi alti all’assenza di chirurgia plastica, dalla "moralità" all’aver letto almeno tre libri (oltre che, forse, non comparire negli elenchi delle aspiranti escort intercettate al telefono). Simile a un format televisivo, dicono che il concorso abbia perso quel fascino che un tempo catalizzava davanti alla tv milioni di italiani, e che la vittoria di Stefania Bivone, ragazza mora calabrese del ’93, sia passata quasi in secondo piano (rispetto a cosa?). E che, se le miss del passato sono riuscite in qualche modo ad avere successo (come non ricordare le star uscite dal concorso di bellezza, da Silvana Mangano a Gina Lollobrigida, da Lucia Bosè a Stefania Sandrelli, ecc.?) da qualche anno non si parla più di loro. Condannate al culto del presenzialismo e al sacrificio dell’apparenza, imparano dunque che il puro apparire vuol dire in realtà scomparire. La notizia (la rivelazione, che in greco si dice “apocalisse”) sarebbe dunque questa: che la caratteristica dell’effimero è di essere effimero, che l’apparire è solo una parvenza, storia di un istante; perfino in Italia, dove secondo Ennio Flaiano nulla è più definitivo del provvisorio. L’apparire e lo sparire mettono in cortocircuito la nozione di durata. Chissà che non riguardi il destino della televisione, e del padrone delle televisioni.

(uscito su Venerdì di Repubblica del 40 settembre 2011, ultima pagina, rubrica "zona critica")

9/19/2011

Le prigioni di Levinas

I disegni sono di M. Tom Dieck, tratti da Levinas/Dieck, Le visage de l'autre, Seuil 2001

Non è molto agevole parlare in un giornale dell’opera di Emmanuel Levinas - “maestro travestito da filosofo”, scrissi, “ebreo travestito da greco”, scrisse Jacques Derrida. Fondazione di un’etica che ha aperto e ecceduto la filosofia verso l’esperienza dell’altro, degli altri, in una tensione trascendentale che ne fa in realtà un immenso trattato dell’ospitalità, inanellando sinonimi vertiginosi come Dio, l'Infinito e il Volto del prossimo. Se è auspicabile che chi si occupa di cose pubbliche e di beni comuni ne facesse l'esperienza, sappiamo quanto oggi il pensiero, perfino il linguaggio non orientato a uno scopo immediato, non godano di buona fama, o siano addirittura visti con sospetto. Forse per questo, paradossalmente, un buon viatico all’opera di Levinas è proprio la raccolta dei suoi scritti di prigionia fino a oggi inediti, l’umile laboratorio delle idee di uno dei più grandi maestri del Novecento. In questi cahiers de captivité, “quaderni di prigionia”, scritti a partire dalla fine degli anni ’30 in uno stalag, campo di prigionieri militari (ma gli appunti continuano fino al 1961), si trovano le basi dell’opera futura di Levinas che culminerà in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974).
Il lettore e il discepolo di Levinas vi trova l'emozione di autentiche scoperte. Prima di tutto il fatto che, dieci anni dopo il suo primo libro dedicato alla fenomenologia di Husserl e Heidegger, Levinas desse pari dignità nei suoi appunti alla critica letteraria e alla filosofia. Nel campo di prigionia legge Dante, Ariosto, Proust, Edgar Allan Poe, Leon Bloy, e addirittura si progetta romanziere. Triste opulenza, poi ribattezzato Eros, è uno dei romanzi abbozzati in quel periodo, suscettibile di illuminare le sue idee filosofiche: come la descrizione del “mondo infranto”, che prima ancora della prigionia dice la disfatta di fronte all’hitlerismo della Francia e dell’Europa; mondo della “caduta dei drappi”, delle istituzioni, che è la caduta stessa della realtà. Ma è anche la scoperta impietosa della vera natura del mondo dell’il y a, del c’è, il mondo dell’essere nella sua inumana neutralità, prossimo all’Es giebt di Heidegger: “Le cose si decompongono, perdono il loro senso: le foreste divengono alberi - tutto ciò che nella letteratura francese voleva dire foresta scompare (...) Ma non voglio parlare della fine delle illusioni; piuttosto della fine del senso (il senso stesso come illusione)”. L’avversione per Heidegger, detto per inciso, precede l’adesione al nazismo di quest’ultimo.
Altra scoperta di questi appunti, forse la più emozionante per chi scrive, è quella della fecondità del linguaggio, del suo potere di significare al di là di quanto dice, e del miracolo della “metafora”, che Levinas preferisce al “concetto”: meraviglia per la potenza della parola ordinaria che per suo tramite si innalza fino a lambire - tendere, indicare, significare - il Divino, l’Infinito, che per Levinas è (anche) sempre metafora dell’altro, del prossimo, della relazione sociale. Meraviglia che condividiamo, leggendolo, per il potere rivelativo del linguaggio, assistendo alla genesi dell'inconfondibile e iperbolico stile della sua opera, che nasce nella scrittura. L’esaltazione della potenza polifonica delle parole ordinarie (“il più abita il meno”), della loro trascendenza (trans, attraversamento, e scando, risalita), salda in una sorta di etica del sublime-umile il piano del linguaggio e quello della relazione e della condizione umana.
Infine, è nella prigionia che Levinas scopre l’ebraismo, come condizione elettiva (pur essendo un prigioniero militare francese, Levinas era raggruppato con altri israeliti). Paradosso di un uomo che combatté in difesa della lingua francese e scoprì la lingua ebraica, cui si dedicherà all’indomani della Liberazione seguendo i corsi di Chouchani, base dei suoi celebri “scritti talmudici”. Vorrei illustrare l'ultimo punto, che in realtà sarebbe il primo: la scoperta, grazie alla prigionia, di quella nuova soggettività che trova l’infinito nel finito.
E' la prigionia (certo non paragonabile a quella dei campi di sterminio, ma pur sempre un’esperienza della sospensione del senso) che permette a Levinas una singolare evasione, simile a quella affermata qualche anno prima in un'opera filosofica anti-heideggeriana dal titolo appunto Dell’evasione: “si tratta di uscire dall'essere per una nuova via al rischio di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla saggezza delle nazioni sembrano le più evidenti”. Ed ecco allora la più scandalosa e commovente delle “scoperte”.
Nel 1945 Levinas scrive retrospettivamente della miseria della prigionia, della “monotonia delle recinzioni di filo spinato”, delle “mattinate piene di bruma in cui ci si muove per andare a lavorare”. Eppure, continua, i prigionieri, “per paradossale che possa sembrare, nella recintata distesa dei campi hanno conosciuto un’estensione di vita più ampia e, sotto l’occhio delle sentinelle, una libertà insospettata. Non sono stati dei borghesi, ed è qui la loro vera avventura, il loro vero romanticismo”. “Il prigioniero, come un credente, viveva nell’al di là. Non ha mai preso sul serio la stretta cornice della sua vita”, “Si sentiva impegnato in un gioco che oltrepassava infinitamente questo mondo di apparenze”, “mangiava fissando gli oceani e il vento delle steppe russe cullava il suo sonno”. Scandalosamente, Levinas descrive “una privazione che ha restituito il senso dell’essenziale”: “La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere e essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà”.

      Recensione a Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura   di Rodolphe Calin e Catherine Chalier - Edizione italiana a cura di Silvano Facioni, Bompiani, pp. 510, euro 25,00 - uscita su l'Unità del 20 settembre 2011.

9/18/2011

Rewind: la mia prima rubrica su l'Unità, "Sunday morning" (2002)


Su l'Unità diretta da Furio Colombo, il 4 agosto 2002 avviai una rubrica domenicale, Sunday morning. (Poi la cessai... poi ne feci un'altra, I Lunedì al sole, ecc.ecc., ma è un'altra storia...).
Questa che segue è la rubrica n. 1, la prima, di apertura - senza nostalgia, solo riguardo (be kind, rewind). Ah, il logo era tratto da un dettaglio di questo quadro a olio di Cathy Josefowitz, Breakfast.

Sono tante le domeniche delle canzoni e dei film. A volte terribili, come un’aspettativa di dolcezza in cui irrompe il tragico (Bloody Sunday, o Vivement dimanche). Più spesso noiose: il pacchetto delle paste, e a casa il brodo e il lesso con tutta la famiglia. La domenica assomiglia allora a un giorno feriale di Marino Moretti (“E’mercoledì. / Piove. / Sono a Cesena…”), quando il poeta crepuscolare si trovava al matrimonio della sorella; o al “gelato al limon” dello stralunato turista al mare di Paolo Conte.

   Ma c’è la stupenda canzone dei Velvet Undeground a ispirarci, Sunday morning, con quella specie di carillon elettrico insieme malinconico e gioioso, come la voce di Nico o di Lou Reed, intensa e asciutta come occhi lavati dal pianto, o dal vento.
   La domenica, allora, può voler dire svegliarsi col sole già alto senza nessun senso di colpa, guardare l’estate negli occhi dell’amante. Essere beatamente spaesati e sospesi, mangiare fuori orario e fuori pasto, passeggiare nel parco o per le strade vuote, essere fuori luogo. Leggere i giornali al bar come se niente di tutto questo ci appartiene. Provare la sottile sinestesia dell’andare al cinema di pomeriggio e uscire col sole addosso da quel sogno nella sala oscura.
   Domenica mattina può essere l’inizio di una giornata perfetta, quando, anche senza ironia, il paesaggio urbano si rivela elegiaco come gli oggetti ordinari della pop art, e i nostri gesti sono perfetti in virtù della loro semplicità, come un’andatura sciolta e elastica, come accontentarsi, essere in ciò che si fa. E’ quello che racconta un’altra canzone di Lou Reed, A perfect day: “Proprio una giornata perfetta / Sorseggiare sangria nel parco / E più tardi quando fa buio tornarsene a casa / Proprio una giornata perfetta / Dar da mangiare alle bestie dello zoo / Poi un film, e infine a casa”.
   Non sempre in “Sunday morning” parleremo di una giornata perfetta: non sono tempi allegri per questo Paese. Coraggio: se tutto può essere sinonimo d’amore, come rivelava Victor Sklovskji (Zoo, o lettere non d’amore), tutto è anche sinonimo di politica, intesa come attenzione alla vita. Ho letto che lo scrittore di fantascienza William Gibson pensava come sua epigrafe ideale un verso di Sunday morning: “attento ai mondi dietro di te”. E’ quello che cercheremo di fare qui, in questa rubrica: guardare con attenzione a quello che accade, che è nascosto a volte dalla sua stessa evidenza, o da quello che i giornali dicono che accade. Raccontare storie, news che restano tali anche dopo averle lette. Ogni domenica mattina.

8/30/2011

Parole, mondo, claustrofobia

   (Rileggo questo frammento - uno dei corsivi che intervallano i racconti di una mia vecchia raccolta - Niente di tutto questo mi appartiene, Feltrinelli 1994 (esaurito) - ritrovando una prima, forse ingenua formulazione della mia claustrofobia. Allora non c'era Internet, né il suo oceano di parole orientate, cioè già inconsciamente pubblicitarie e schiave di una rappresentazione del mondo immune dall'esperienza degli individui... Per questo le parole tra parentesi quadre le ho aggiunte mentre lo trascrivevo)


   Immaginate questo mondo. Sì, questo. Immaginatelo nel suo inestricabile viluppo di bellezza e bruttezza, gioia e orrore, vuoto e pieno. Immaginatevi il mondo e confrontatelo col vostro piccolo punto di vista, con la vostra indifferenza. Da cosa dipende?
   Immaginate la televisione, immaginate di vedere soltanto la televisione. Come se fosse il mondo. Non potete spegnerla, potete soltanto cambiare canale. Ma vi accorgete della differenza?
   Immaginate di leggere, però soltanto il giornale. [O i notiziari on line]. La grafica dei titoli, il tono delle frasi, le sottolineature, le allusioni, i corsivi, i riquadri della pubblicità. [I commenti]. Immaginate che siano l'unica cosa da leggere. Che non vi siano al mondo altre parole che queste. A cosa mirano, a cosa servono, che cosa vi dicono quelle frasi ammucchiate, i verbi che sgomitano e si comprimono, quelle parole in falsetto che concorrono a darvi un'idea del mondo, a costruire il mondo (sì, questo).
   Immaginate che questo mondo sia il vostro mondo. Che non vi sia altro mondo all'infuori di questo. Che se  non ci fosse questo mondo non staremmo qui a parlarne. In breve: immaginate questo mondo.
   Che cosa state provando?