11/26/2011

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

[Per una frastagliata serie di associazioni di idee, ritrovo questo intervento, miracolosamente trascritto e salvato (non da me), che feci alla tavola rotonda/seminario collettivo (ognuno doveva portare una domanda), a cura della la Fondazione Baruchello, dal titolo “Dall'arte dalla poesia venti domande per interrogare il mondo”, il 20 ottobre 2004 presso la Casa delle Letterature, nell’ambito di RomaPoesia. E, cosa singolare, lo trovo di attualità (personale), cioè adesso mi interessa, non so a voi (oltre al fatto che si tratta, credo, di una delle cose più intime che ho scritto).]

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

   Sono venuto a mani vuote. Non ho portato una mia poesia sul mondo – la mia domanda – ma renderò omaggio a un assente – nella metafisica delle parole di rendere presenti gli assenti – leggendo una poesia di Samuel Beckett nella traduzione di Gabriele Frasca, che avrebbe dovuto essere qui oggi. E’ l’ultima poesia di Beckett – “Comment dire”, “What is the Word” – scritta in francese nell’autunno dell’88, e da lui tradotta in inglese nell’estate dell’89, poco prima di morire. E’ quindi la sua ultima opera. Vorrei dire, questo è il mio contributo, qualche parola preliminare per spiegare la mia profonda adesione a questa poesia, che nella traduzione di Gabriele Frasca si chiama “Qual è la parola”.
   Quello che mi fa aderire a questa poesia, e a Samuel Beckett in generale (ma anche all’Infinito di Leopardi, o a una poesia di Pascoli che si chiama Nebbia, dove si invoca la nebbia perché, dice il poeta, rende invisibili le cose lontane, e gli permette di dire “il” pero, “il” melo, “il” muro, cioè rendere più evidenti le cose vicine; così come Leopardi nell'Infinito dice questo colle, questa siepe, questo mare, quel pensiero, quella immensità, ecc.), quello che mi fa avvicinare così tanto a questo tipo di dizione poetica è l’uso dei deittici, o, come dicono i linguisti, “indicatori spazio-temporali”, shifters (Jakobson), o ancora “indicatori dell’enunciazione” (Benveniste). Parole che a torto consideriamo poco nella lingua, e che secondo alcuni sono non solo le più liriche, ma anche le più filosofiche. Si tratta di avverbi, pronomi e aggettivi dimostrativi, particelle pronominali, come “questo” appunto, o come “qui e ora”. Sono le demarcazioni dello stare al mondo nel proprio presente, nella propria vita, nella mortalità della vita di chi scrive ed è parlante. In effetti, nella filosofia occidentale, negli esiti diciamo più alti o profondi, più onesti, del pensiero, i filosofi si sono sempre affacciati sulla soglia o sul bordo dei deittici. Per esempio “l’essere-il-ci”, che traduce il Dasein di Heidegger, essere la particella ci, Esserci, essere il Da; o, ancora prima, il pronome dimostrativo diese (questo) con cui si apre la Fenomenologia dello spirito di Hegel, la sua epistemologia: “prendere il questo”, das Diese nehmen, afferrarlo (e afferrare l’adesso) la sintetizza. Essere, incarnare il ci, il questo, il là, l’essere là (fra l’altro, le immagini di Luca Patella proiettate qualche minuto fa ci hanno incantato per lo stesso motivo, e a un certo punto riportavano proprio questa frase, essere là). Tutto questo significa anche, ma si tratta di un pensiero troppo denso per svolgerlo qui, essere testimoni: testimoni di un fallimento supremo delle parole e delle immagini, della vita mortale e del linguaggio. Testimoniare l’infinito e l’incompiuto, il loro essere sinonimi.
  
   Ieri sera mi sono imbattuto in una frase di un artista visivo americano, Richard Foreman, che si augurava (traduco a memoria) “che i miei segni diventino il più possibile muti per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga” (what is happening to happen). Questa frase mi ha ricondotto a un’altra domanda – poiché le domande sono la cosa più importante e le risposte sono sempre ridondanti rispetto alle buone domande – una domanda, dicevo, di più di duemila anni fa, che il Sesto Patriarca della trasmissione del Buddhismo dall’India alla Cina pose a un allievo, il quale gli rispose otto anni dopo (e diventò il Settimo Patriarca): “Chi è che arriva così?”. Noi diciamo: che cosa av-viene così? In questa domanda, naturalmente, la parola più importante è “così”, e la seconda parola più importante è “che cosa”. Nel senso che è importante non il che cosa dell’identificazione, ma il fatto che qualcosa arrivi. Importante è il quod, non il quid dell’arrivare, dell’accadere. Dell’avvenire. E mi sembra che tutto questo possa articolare e portare le domande fondamentali dell’arte e della poesia. Siamo sempre nell’ambito del qui e ora, dei deittici.

   Tathagata vuol dire “colui che viene e che va”, il “così venuto” (o “così sorto”): è la definizione del Buddha in sanscrito. Nel passaggio in cinese e in giapponese si dirà: Nyorai. Al centro di tutta questa scuola di grammatica dell’ineffabile – o di saggezza, o di stare al mondo (cui non è esente la tradizione giudaico-cristiana: dal Dio interrogato da Mosè ai grammatici medievali) - basata sui deittici, cioè parole che indicano innanzitutto che il linguaggio ha luogo, che il linguaggio avviene - al centro dicevo di questo tramandarsi è la nozione che dovremmo tradurre, alla lettera, con “cosità” (immo, nel buddhismo zen di Dogen), l’essere-così-del-mondo, il vedere le cose così, telles quelles, tali e quali. Ciò che assomiglia a una nozione della retorica greca, enàrgeia (non enèrgeia), che in latino è tradotta con evidentia, l’evidenza delle cose (che è già un bel mistero, se non il mistero). Ovvero ammutolirsi per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga. Che è tutto il contrario della rappresentazione. Dire l’ammutolimento nelle proprie parole. Come nella poesia di Beckett che leggerò tra poco.

   Il “così venuto” è anche il “così andato” (è una delle definizioni del Buddha). Andare e venire, nel contesto che ho evocato, sono la stessa parola. Apparire e scomparire, senza lutto, senza nostalgia, cioè senza rappresentazione. Al limite, ri-presentazione. O meglio, pura manifestazione. Non volevo fare un monologo: ma come dire, comment dire, il tentativo di avvicinarsi al nocciolo della questione, nella coscienza della testamentarietà delle parole, della scrittura? Del mondo. Dire la scaturigine del linguaggio, dell’enunciazione, dell’enunciatore. Dello sguardo sul mondo, dell’esserci. Testimoniare. Dirne la follia e la smania:

Folie - / folie que de - que de - / comment dire - / folie que de ce - / depuis - / (…) comment dire - / ceci - / ce ceci - / ceci-ci - / tout ce ceci-ci - / (….)
...................................................................................................................................................................

smania – smania di - / di - / qual è la parole – smania da questo - / fin da questo - / smania fin da questo - / dato - / (…) qual è la parola - / questo - / questo questo - / questo qui - / tutto questo questo qui - / (…...................................................................................................................................................)

(seguiva lettura integrale, in francese inglese e italiano, nella traduzione di Gabriele Frasca, della poesia di Samuel Beckett, da S. Beckett, Le poesie, Einaudi 1999)

(intervento registrato il 20 ottobre 2004, Roma, Casa delle letterature)

3 commenti:

andrea ha detto...

è bellissimo!

Anonimo ha detto...

ha ragione andrea
è un intervento bellissimissimo
ciao
sergio

Valeria ha detto...

io ti voglio bene