Come autore di Panchine aggiungerei questo: che se il teatro (il Valle occupato, ma ogni teatro) è una grande panchina, la biblioteca è un immensa panchina con dentro una machina del tempo: nulla di più meravigliosamente nomade di una biblioteca.]
Biblioteca nomade
Sollecitato da alcuni lettori di questa città [Parma, N.d.R.], vorrei imbastire due o tre pensieri in pubblico a proposito della “letteratura” e del suo ascolto, della sua, detto con una brutta parola, “fruizione”.
Primo. Biblioteca nomade è il titolo di una serie di incontri con autori che da qualche tempo avviene sotto mio stimolo in un caffè del Parco Ducale di Parma. Scrittori italiani e non solo parlano e leggono brani dei loro libri, e ne “rispondono” al pubblico. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione delle biblioteche civiche del Comune di Parma. Ma cosa significa “biblioteca nomade”? E’ un paradosso, anzi un ossimoro? In realtà è esattamente il contrario, quasi un pleonasma: non esistono libri che non siano in movimento, e lo stesso fenomeno recente del “bookcrossing” (libri abbandonati per essere trovati da lettori fratelli) è ciò che da sempre il concetto di biblioteca pubblica presuppone. Anche senza risalire all’etimologia di biblìon, che significa rotolo e lettera (scrittura quindi destinata e itinerante), “biblioteca nomade” è la biblioteca tout court, il libro che si avvicina al lettore, si offre, condivide il vagabondaggio e l’erranza da sempre presenti nell’atto di scrivere. Qualcosa che accorcia ulteriormente le distanze tra chi scrive e chi legge: comunità di lettori e di scriventi.
Secondo. Ora, questo ritrovarsi a parlare e ascoltare - in un parco, in una piazza, con le parole giuste, con le parole che non servono a niente, cioè a nessuno di preciso, a nessun progetto definito, solo per il piacere di dire, dire l’autenticità; questo trovarci a raccontare storie, poiché di questo si tratta, è davvero un bel segno, no? Per esempio a Roma, Massenzio, “Festival delle Letterature”, Alice Sebold, l’autrice di Amabili resti. Oppure a Parma, Parco Ducale, “Biblioteca nomade”, Emanuele Trevi che parlava dei suoi Cani del nulla, o Lidia Ravera di La festa è finita. O nei cortili e palazzi di Mantova, al festival settembrino della letteratura… Non è solo perché ci si trova all’aperto, tra tigli, gelsomini e secolari ippocastani (Parma), o pini marittimi, cespugli di bosso e di pitosforo (Roma), ma a me viene in mente Boccaccio, e la sollazzevole compagnia di giovani donne e uomini su a Fiesole durante la peste a Firenze del 1348: “parlare a cospetto della morte”, scrisse un illustre interprete del Decameron. E’ la funzione consolatrice e creativa della letteratura, la sua fecondità, il suo coraggio. E dove si trova oggi, precisamente, la morte? Nella prosecuzione strisciante della guerra in Iraq dopo che sono state ammainate le bandiere dell’iride, nel terrorismo botta-e-risposta di Palestina e Israele, nel nostro sazio stare a guardare, nelle strade delle vacanze, nei cantieri del lavoro, nella violenza dei “giusti”, in quella dei tabaccai che sparano alla schiena dei rapinatori, quella dei rapinatori che sparano al petto di tabaccai e gioiellieri? È dappertutto la morte, come la vita stessa? Un anno fa scrissi in un articolo che l’espressione del nostro più ovvio consenso e assenso, cioè della nostra sovrana indifferenza, ha a che fare con la rimozione della morte: Ok, che nel codice militare significava “nessun morto” (per oggi), zero killed. Okay, il prezzo è giusto, diciamo invece oggi, sottintendendo che non c’è nessun problema, che va bene così, che tutto procede nel giusto verso. Giusto nel senso che tutto torna? E’ poi vero? Ma c’è un resto, c’è sempre un resto, qualcosa che non torna. Per abbreviare: affermo che la letteratura dice quel resto, quel residuo, quell’elemento eterogeneo e inassimilabile che continua a essere, sussistere, forse a disturbare. E che già essere, vivere, significa restare. La vita è resto, letteratura è l’altoparlante, anzi bassoparlante, di tutto ciò che resta, tutto ciò che resiste (è la stessa parola, la stessa origine). Allora è in nostro nome, finalmente, che ci affolliamo a volte ad ascoltare le parole degli altri, gli scrittori, parole così ampie, così inutili, e per questo importanti.
Terzo (e ultimo). Ma nonostante tutto (e contro i miei stessi interessi) continuo a trovare strano che gli scrittori diano spettacolo (di sé) fuori dalle loro pagine. Trovo stupefacente che abbiano un pubblico per il loro apparire in carne e ossa. Se Thomas Bernhard aveva il vezzo di dire che non esistono autori, ma soltanto libri, io penso invece che non esistano opere che non siano di circostanza, nate in un contesto e radicate in un corpo. E capisco il desiderio di diventare “amico per la pelle” dell’autore che si ama, come diceva Holden-Salinger. Ma, al contrario che nella lettura silenziosa, nella parola viva degli scrittori è impossibile identificarsi: Alfredo Giuliani paragonò lo spettacolo di chi legge i propri versi a quello del trapezista senza rete. E’ una bella immagine, danzare su una corda tesa, suspense adattabile a ogni vero scrivente. Che poi i poeti si riconoscano perché là in mezzo sono quelli che balbettano, questo l’ho già scritto un sacco di volte (la balbuzie come forma matrice della poesia).
Ancora meno spiegabile è per me che vi siano persone che pagano per frequentare corsi di scrittura. Scrivere è di per sé diventare altro, anzi divenire e basta, senza diventare mai. E allora? Forse è proprio la ricerca di quell’”altro”, di quel “resto”, il movente infinito della loro ricerca. Ogni volta che ho “insegnato” a “scrivere” ho parlato di tutto fuorché di quello: del volto, dell’abitare, di musica, del mondo esterno, della noia. Sarebbe come insegnare a vivere o a morire: si va avanti a tentoni, a metafore, contrappassi, equivalenze. Più si cerca di avvicinarsi all’argomento e affrontarlo di petto, più ce ne si allontana (più guardo una parola da vicino, più essa mi guarda da lontano, avrebbe detto Benjamin citando Karl Kraus). Meglio parlare “d’altro”. L’importante è invitare a dire l’esperienza, qualunque sia, quella che arriva al midollo, senza autocensura. Ma per arrivarci non ci sono “tecniche”, tantomeno verbali. Alla domanda “come stai?” occorrerebbe rispondere una storia, non un avverbio o un commento. Bukowski, quel “vecchio zozzone”, diceva che per scrivere bene “occorre scopare un sacco di donne”, avere la cucina in disordine e vincere alle corse dei cavalli (vincere, non giocare e basta). Un amico poeta ha scritto che non bisogna scrivere per nessuno, oppure scrivere totalmente per qualcuno (forse per questo mi piacciono le lettere e le preghiere). La storia della letteratura, Dante compreso, mostrerebbe che scrivere serve a rimorchiare le donne (o a rimorchiare gli uomini): conversione attraverso la lettura. Tutto il resto è pubblicità (e allora preferisco la politica). Per concludere sui corsi di scrittura, che sempre più spesso vogliono insegnare a raccontare storie, forse l’esempio migliore di equivalenza, di quel parlare d’altro, lo ha dato Raymond Carver: comunque vada a finire la tua storia – disse commentando il racconto di qualcuno – ricordati sempre di non far mancare il latte ai bambini, la mattina.
Ecco perché “biblioteca nomade” è una vacanza dalle parole di tutti i giorni, sì, ma non dalla responsabilità di continuare a vivere e narrare la nostra vita ordinaria.
(Giugno 2003)
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