11/30/2011

Altre panchine... (da "Il Fotografo)


Grazie a Laura Marcolini, per il numero di novembre della rivista Il Fotografo, che pubblica fotografie (piuttosto belle) di panchine mandate dai lettori, ho scritto questo breve testo che appare come introduzione alle pagine (e alle foto):

   Se sedersi su una panchina fa diventare oggi invisibili (per via del tabù sociale e dello sguardo verso chi esibisce la propria libertà, il proprio “ozio” o la propria povertà), chi fotografa le panchine è doppiamente da festeggiare: rende visibile l’invisibile. Mostra quello che resta, ovvero che resiste, alla dissoluzione di spazio e tempo gratuiti: come suggeriscono le panchine fotografate da Pasquale Aiello e Wanda D’Onofrio. E cosa c’è di più attraente di una panchina vuota e ben situata che ci attende (come quelle di Fabbri, Geroli, Morselli, Zanni)?

   Gavioli, Gresti, Petrucci, Spirito, Verdoliva: loro hanno visto panchine splendidamente abitate, come quelle semplici e gioiose di Michelangelo Viterbo. O il riposo degli ambulanti (Massimo Liverani) e degli sportivi della domenica (Meraviglia). Quanto alla panchina nella piazza di una città (Parigi?) fotografata da Uboldi, l’uomo di spalle che verosimilmente legge, il cane sotto di lui che si confonde con l’ombra, esprime la poesia dell’abitare che mi è più familiare (Parigi compresa): la panchina solitaria e anarchica, la panchina come stile di vita, quella dell’uomo della panchina di Simenon, invidiata da Maigret. Dove si siede chi non ha paura della solitudine, anzi (poiché la solitudine non è mai nei luoghi isolati, ma là dove vive la moltitudine) e contempla il mondo tra una lettura e l’altra.

   A rigore, per sedersi su una panchina non è necessario ci sia una panchina: è il sedersi, uno stato dello spirito che coincide con un arrendersi, a fare la panchina. Può essere il gradino di una scalinata (quella metafisica di Angelo Nesci), un sedile tra cielo e riva del mare con incredibili colori (Antonio Feci), o addirittura dentro il mare, sulla poppa di una nave che contempla tempo e spazio trascorsi (Riccardo Vallini) O un sedile di pietra dura, che la fine del lavoro rende morbida come il tempo liberato (Claudio De Paoli).

   La panchina in bianco e nero di Giustiniani è struggente archetipo del sopravvivere, e insieme destino delle panchine nella nostra civiltà: a fianco di reti metalliche che impediscono e chiudono, minacciata e assediata, ma tenace come la Ginestra di Leopardi. Come la sagoma della panchina che resiste sui tetti accanto alle ciminiere (Paolo Urbani), o ravvivata dallo skate nei giardini urbani di pietra (Diego Giancaspro). O l’utopia (non trovo parola migliore) di quella panchina sull’erba che sembra muoversi, scorrere sotto di essa, di Canzanella, tra i cui listelli di legno si muovono le ombre di un film, il film della vita della gente che si siede sulle panchine.

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