2/28/2010

Donne, voltità, visioni, anni Settanta, femminismo


Per spiegare cosa sia “poesia”, il linguista Roman Jakobson raccontava l’aneddoto dell’antropologo che soggiornando presso una tribù africana chiese a un indigeno come mai, loro, andassero in giro nudi. “Anche lei è nudo in una parte del corpo”, rispose. “Sì, ma si tratta del volto”, replicò l’uomo bianco. “Beh, in noi tutto è volto”, disse l’indigeno. Ripenso a questa storiella mentre cammino nella sale della mostra “Donna: avanguardia femminista negli anni ‘70”, in corso alla Gnam di Roma (dalla Collezione Verbund di Vienna). Non tanto perché “la donna è il negro del mondo” (come cantavano John Lennon e Yoko Ono); ma perché nelle circa 200 opere, soprattutto fotografie, di Marthe Rosler, Ketty La Rocca, Renate Bertlmann, Hannan Wilke, Cindy Sherman, Francesca Woodman e altre, si capisce come siano le donne ad avere aperto la strada alle ricerche dell’arte contemporanea. Mentre l’elaborazione teorica femminista allargava la nozione di significato ai contesti, al corpo e alla soggettività, l’area dell’arte si allargava alle nozioni creative oggi indispensabili di testimonianza, archivio, documentalità, fino a mostrare la visibilità dell’invisibile, la carne del fantasma, e conferire il carattere etico di “volto” a ogni cosa offerta alla visione. Le donne (almeno negli anni ’70), non avevano paura dei fantasmi, non copiavano dagli occhi, non facevano differenza tra interno ed esterno (come Kubrick nei suoi Eyes wide shut, ovvero “occhi spalancati ma chiusi”). Nel cinquantennale de La dolce vita (Fellini) e de La vita agra (Bianciardi) nel trentennale degli anni di carne (non di piombo), quei ‘70 che si protrassero fino alla prima metà degli ’80, noi siamo agli antipodi, dove anche il visibile non si vede più. Per questo l’energia della mostra è così politicamente attuale, negli anni de “la vita nulla” in cui stancamente galleggiamo.

(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità, 28/2/2010)

2/24/2010

Alle amiche e agli amici di Puglia


"Sono tanti gli oggetti smarriti e i fantasmi nelle nostre vite. Il catalogo è questo"...

Bari, Caffè d’Arte, giovedì 25 febbraio 2010 ore 19,00: Beppe Sebaste presenta «Oggetti smarriti e altre apparizioni» (Laterza, 2009). Con lui Alessandro Laterza, editore, e Oscar Iarussi de "La Gazzetta del Mezzogiorno" - Iniziativa promossa dalla Regione Puglia – Assessorato al Mediterraneo e l’Associazione Presidi del Libro

Lecce, Fondo Verri, venerdì 26 febbraio, alle 20.00, il presìdio del libro Fondo Verri, per il progetto tematico Letterature al presente, incontra la scrittura di Beppe Sebaste e il suo “Oggetti smarriti e altre apparizioni” edito da Laterza, nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano.
In via Santa Maria del Paradiso 8 - Lecce

Notizie dalla guerra contro i poveri


"Ieri sera abbiamo raggiunto i residenti dell’Idroscalo di Ostia lido, mobilitati per la notizie dello sgombero e degli abbattimenti di questa mattina. Mentre si restava svegli tutta la notte per presidiare la piazza centrale, centinaia di agenti delle forze dell’ordine raggiungevano Ostia.
Nella tarda notte arrivavano notizie frammentarie di una città letteralmente invasa, di strade bloccate e tir con ruspe a carico. Alle prime luci dell’alba abbiamo visto centinaia di divise e decine di camionette dei reparti mobili di polizia, guardia di finanza, carabinieri e addirittura del corpo della forestale percorrere in assetto anti-sommossa via dell’Idroscalo (circa 600 sentendo un discorso tra colleghi in divisa).
Questo esercito è stato prima bloccato con le macchine dei residenti, poi dai corpi delle coraggiose madri e donne del piccolo borgo, schierate davanti a scudi, caschi e manganelli.
I capi dell’operazione non hanno dato margine di trattativa, aggiungendo che se le strade non fossero state liberate, sarebbero immediatamente iniziate le cariche e gli arresti. Mentre iniziavano a susseguirsi politici, giornalisti e funzionari della pubblica amministrazione, la polizia municipale invadeva le case degli abitanti. La resistenza pacifica è durata per circa due tesissime ore.
Circa 30 famiglie, alcune che da più di quarant’anni vivono nel borgo, si sono viste entrare dentro casa sconosciuti in divisa, senza che gli fosse mostrato alcun permesso cartaceo. Poco tempo dopo sono iniziate le prime demolizioni. Destinazione residence Ardeatina, per poi essere sbattuti per strada a telecamere spente . Tra lacrime, sconforto e urla, le ruspe hanno iniziato il loro lavoro. Quella che è stata annunciata come un’operazione di messa in sicurezza, si è rilevato l’ennesimo abuso di potere.
Nella notte gli abitanti del posto ci raccontavano come le famigerate “inondazioni dell’Idroscalo” siano iniziate solo dopo la creazione del porto e dei cantieri navali che hanno distrutto tutta una spiaggia, e di come la messa in sicurezza della zona può essere fatta tranquillamente senza cacciare la gente da casa. Quello dell’Idroscalo si rivela l’ennesimo affare sporco. Sono evidenti fin da subito gli interessi economici dell’operazione che come già annunciato avrà una seconda parte. Da anni si parla di allargare il porto per consegnarlo a chissà quale imprenditore privato.
Davanti alla rabbia che si può provare nel vedere gente cacciata dalle proprie abitazioni, viene da chiedersi se davvero siamo tutti uguali o forse qualcuno vale meno di altri. Noi per conto nostro abbiamo deciso di stare dalla parte delle famiglie dell’Idroscalo, perché riteniamo incedibile il loro diritto alla casa. Davanti la prepotenza dello stato, siamo tutti idroscalesi".
COLLETTIVO L'OFFICINA - VITTORIO OCCUPATO
si veda: http://www.c6.tv/archivio?task=view&id=8231



2/22/2010

Il ritorno di Sam Spade (e di Dashiell Hammett), by Joe Gores


Avevo dimenticato di postare questo (uscito su Venerdì di Repubblica il 19 febbraio):
"E 80 anni dopo Il falcone Maltese sapremo cos'era successo prima"

“Quando iniziai a scrivere volevo solo fare storie a fumetti, ma non ero granché come disegnatore. Nel frattempo ero migliorato come scrittore, ma non tutti ne erano convinti. L’università di Stanford, ad esempio, nel 1954 non mi concesse la specializzazione in ‘Scrittura creativa’ con questa motivazione: ‘I racconti inseriti nella Tesi sembrano scritti con lo scopo di vendere’. Nel 1955, la stessa Stanford mi rifiutò la specializzazione in Letteratura Inglese perché la mia Tesi era sugli scrittori Dashiell Hammett, Ross Macdonald e Raymond Chandler: ‘I romanzi di questi scrittori non sono letteratura, pertanto non ci si può scrivere sopra una tesi di laurea’. Come se leggere un romanzo divertente significasse che è superficiale”.
A parlare è Joe Gores, nato il giorno di Natale del 1931 a Rochester, Minnesota, autore di una ventina tra romanzi e raccolte di racconti, quasi tutti appartenenti al genere hard boiled (quello di Hammett e Chandler) di cui Gores è profondo conoscitore e tra gli ultimi rappresentanti. Nel 1975 pubblicò il romanzo Hammett (uscito nel 1979 col titolo Hammett, cacciatore d’uomini nei Gialli Mondadori), storia romanzata ma reale della vita (1894-1961) del futuro creatore di Sam Spade e Continental Op, ovvero quando Dashiell Hammett, prima di diventare scrittore, lavorava come detective per l’agenzia Pinkerton. Da questo romanzo fu tratto il travagliato film diretto da Wim Wenders e prodotto da Francis Ford Coppola, durante il quale Gores fu prima ingaggiato e poi licenziato, e lo stesso Wenders ebbe forti contrasti, descritti nel successivo Lo stato delle cose.
Trent’anni dopo quel romanzo, che lo Stanford Magazine ha paragonato a uno Shakespeare in Love del giallo, Gores, d’accordo con la figlia ed erede di Hammett, pubblica oggi col titolo Spade & Archer il prequel de Il falcone maltese (in uscita da MOndadori). E’ il capolavoro di Hammett, portato sullo schermo da John Huston, con Humphrey Bogart nel ruolo di Sam Spade e Lauren Bacall in quello dell’ambigua cliente. Il primo giallo in cui il detective assomiglia più a un narratore di storie che a un razionalista cercatore di prove, dove la verità finale è più amara e inverosimile delle menzogne raccolte lungo l’inchiesta, il finale non consola e sono le passioni a spingere il detective. Sarà anche per questo che il prequel del romanzo di Hammett sembra quasi anche un sequel di Hammett, biografia di un detective-scrittore - quale fu lo stesso Joe Gores.
Spade & Archer inizia con le dimissioni di Sam Spade dall’Agenzia, per mettersi in proprio. Il lettore trova la genesi di vari elementi di culto: l’assunzione della giovane segretaria Effie Perine, che confeziona a Spade le sigarette, con cartine e tabacco Bull Durham, l’amore clandestino con la moglie del socio Miles Archer, il pigiama a righe bianche e verdi, l’immancabile bottiglia di Bacardi appoggiata sul comodino, anzi sul libro Casi criminali famosi in America. Per il piacere dei fan più raffinati di Hammett, il romanzo inizia con l’apologo esistenzialista narrato da Spade ne Il falcone maltese, quello di Flitcraft, l’uomo scomparso da Tacoma e rispuntato dopo anni a Spokane. Come mai? Un giorno, mentre rientrava dal lavoro, la caduta di una trave lo lasciò sbalordito: “Ebbe l’impressione che qualcuno avesse strappato via il velo che gli nascondeva la vita e gli avesse dato la possibilità di vedere le cose che lo circondavano”. Aveva imparato che le travi cadono, “the beams fall”. E quando Spade lo ritrova, egli fa un lavoro come quello precedente, ha una moglie simile a quella che aveva lasciato, in una casa analoga a quella in cui viveva prima. “Flitcraft si era adattato alla caduta dei travi, ma da allora non ne era caduto più nessuno, e lui si riadattò al fatto che le travi non cadessero più”. E questo, conclude Sam Spade, “è l’aspetto della vicenda che mi è piaciuto di più”.
Più giocoso e meno cinico e filosofico di Hammett, Joe Gores fa da sempre professione di ironia. “A sei anni di età – racconta - mia mamma mi disse che avrei potuto leggere qualunque cosa fossi riuscito a prendere dallo scaffale e dunque fece in modo che nello scaffale più basso ci fossero solo libri come Le Vite dei Santi e simili”. Ben presto Gores imparò ad arrampicarsi fino allo scaffale più alto, dover sua madre teneva i libri più tosti: Agatha Christie, Sherlock Holmes e, naturalmente, Hammett. “Quando ho letto The Dain Curse (La Maledizione dei Dains) e le prime storie di Ross Macdonald, ho pensato: Cristo, questa è la roba che voglio scrivere! Roba dura, diretta, personaggi intensi che fanno cose molto interessanti”. Furono poi gli anni trascorsi da Gores come detective privato a San Francisco a formare, come per Hammett, la sua scrittura, a metterlo in contatto con le persone reali che avrebbero fatto da modello ai suoi personaggi, a fargli conoscere lo slang della strada a cui è debitore il suo stile.
All’intrico di storie in cui si sviluppa Spade & Archer fa da sfondo una dettagliata ricostruzione della San Francisco degli anni ’20, l’epoca della caccia ai “rossi” tra gli scaricatori portuali, del contrabbando di alcoolici durante il proibizionismo, dell’ascesa e crollo delle banche. Ed è restituito il modo di scrivere che vede in Hammett, in Chandler e in Hemingway i maestri di uno stile asciutto e conciso, freddo in apparenza ma carico di compassione. Spade & Archer è pura letteratura, Gores lo sa e ci gioca. Basti pensare a quante volte ricorre il nome di Stevenson, dalla sua casa sull’Oceano a nord di San Francisco al libro L’isola del tesoro, che contiene la soluzione dell’ultimo mistero. “Puah, libri per ragazzi”, commenta con disprezzo l’eterno avversario di Spade, il tenente Dundy, simbolo dell’idiozia della polizia (della letteratura?) ufficiale.

2/21/2010

Un'opera contemporanea. Boltanski e il plurale di nessuno


Rivedo, a 48 ore dalla chiusura, la mostra monumentale di Christian Boltanski al Grand-Palais di Parigi, il giorno prima di una tavola rotonda in cui con altri scrittori europei, scelti da Boltanski, sono stato chiamato a testimoniare delle parentele tra la letteratura e l’arte sotto il profilo della memoria, dell’intreccio tra vita e finzione. Sotto l’ampia navata che fa trasparire una bianca, fredda luce invernale, nell’immenso spazio scandito da battiti di cuore amplificati, il visitatore percorre campi di abiti colorati adagiati per terra, ordinati come filari, inerti come corpi senza vita. E’ un cimitero, in effetti, lo stesso ordine razionale e geometrico delle tombe. All’orizzonte una montagna di altri abiti, conica come il colle della salvezza nel canto I° dell’Inferno di Dante, è morsa ritmicamente da un robot-scavatrice arancione che cala dall’alto, preleva mucchi casuali di abiti, risale, li fa ricadere sulla montagna. Meccanicamente, come i battiti impersonali del cuore, cuori di persone, di tutti e di nessuno. L’esposizione si chiama Personnes, plurale di “persona”, ma soprattutto in francese plurale di “nessuno”. (Per non dire l’etimologia della parola, cioè “maschera”, identità provvisoria e cangiante, precaria, senza appartenenza). La luce è perfetta: una luce senza luce, anonima come il dio-gru che preleva alla cieca, come a dire che nascere è uguale a morire. Ma poiché da questo spazio prima o poi usciamo (le mostre finiscono come i romanzi e i film) e ci si trova a guardare il cielo fuori dal cinema, o la propria stanza quando si è finito il libro, anche i pensieri riprendono a marciare. Perché questa è un’opera perfettamente contemporanea? E perché, quando guardo il cielo, vedo il pulviscolo di oggetti esplosi al rallentatore con la musica dei Pink Floyd (Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni), che non finiscono di volteggiare e di cadere?

(rubrica "acchiappafantasmi", su l'Unità del 21 febbraio 2010)

2/20/2010

"Io non sogno mai" (per Giorgio Messori)



Sapienza Università di Roma – Facoltà di Lettere
Dipartimento di Italianistica e Spettacolo

IO NON SOGNO MAI
Scrittura e sguardo in Giorgio MESSORI


Giornate di studio
martedì 23 e mercoledì 24 febbraio 2010
Facoltà di Lettere e Filosofia – Aula III (piano terra)

Giorgio MESSORI (Reggio Emilia, 1955-2006), è uno degli scrittori più interessanti e più intimamente necessari di questo scorcio del secolo. Di lui si ricordano L’ultimo buco nell’acqua, scritto insieme a Beppe Sebaste (Aelia Laelia, 1983); Nella città del pane e dei postini (2005), romanzo che è insieme diario, riflessione, cronaca d’amore e libro di viaggio, scritto durante il suo lungo soggiorno in Uzbekistan dove ha lavorato come lettore di italiano nell'università di Tashkent.; e infine Storie invisibili, volume – postumo – di racconti (Diabasis, 2009). Tra le sue numerose traduzioni va ricordata almeno Il lettore. Il narrare di Peter Bichsel (Aelia Laelia 1984, poi Marcos y Marcos 1989), scrittore col quale ebbe un lungo sodalizio.
Uomo inquieto e curioso, Giorgio Messori è stato particolarmente sensibile alle arti figurative, realizzando una felice interazione con l’attività di numerosi fotografi, a partire dalla descrizione collettiva della via Emilia, coordinata da Luigi Ghirri e Gianni Celati, cui Giorgo Messori prese parte (Dal fiume al mare, Feltrinelli 1986). Successivamente ha realizzato con Luigi Ghirri Atelier Morandi (Palomar, 1992) e Il senso delle cose Luigi Ghirri–Giorgio Morandi (Diabasis, 2005); con Vittore Fossati Viaggio in un paesaggio terrestre (Diabasis, 2007), esplorazione fotografica e letteraria sulla scia di pittori, poeti e paesaggisti europei.
Al convegno prenderanno la parola Massimo Barone, Carlo Bordini, Rocco Brindisi, Fabio Ciriachi, Paolo Di Paolo, Giulio Ferroni, Vittore Fossati, Paola Ghirri, Gino Ruozzi, Beppe Sebaste, Emanuele Trevi e tantissimi altri.
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In questo blog il nome e l'opera di Giorgio Messori ricorrono spesso, e in particolare se ne è parlato qui, qui e qui.

2/16/2010

L'Aquila e il "dono" (dell'arte) parte 2


(...)
“The time is out of joint”, il tempo è fuori dai cardini, disastrato. E’ la nota esclamazione dell’Amleto di Shakespeare. Ecco alcuni dei pensieri venutimi in questi giorni leggendo le intercettazioni telefoniche di coloro cui è affidata in Italia la protezione civile e la realizzazione di “grandi” opere (l’aggettivo è sufficiente a sottrarle a ogni controllo e trasparenza). Ce n’è un altro, per fortuna. Ho pensato infatti alla vita di tutti i giorni, agli sforzi che la gente fa per andare avanti, habitat e nutrimento di ogni scrittore; ai tanti aiuti spontanei e umili che da aprile 2009 si sono susseguiti nei confronti dei terremotati dell’Aquila e provincia. Ne segnalo uno che mi ha coinvolto, così piccolo da risultare invisibile, però simbolico: il work in progress chiamato DONO messo in moto dalla MicroGalleria dell’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila. La galleria è interna all’accademia, e si dedica sopratutto agli allestimenti site-specific, ovvero l’interazione tra artista e spazio pubblico, confrontandosi quindi col tema dell’ospitalità e dell’accoglienza. Il “dono” ha previsto un’artistica lotteria, e un vernissage con l’installazione delle opere impacchettate e anonime offerte da una ventina e oltre di artisti. Beneficiario casuale di una di quelle opere, mi si chiede ora una riflessione sui significati dello scambio e del dono nelle pratiche artistiche contemporanee, o un commento sull’operazione. Eccola.
Se subito ho pensato, in forte contrasto coi protagonisti dell’economia delle catastrofi, i costruttori che ridono al telefono, che “arte” e “dono” sono sempre in qualche modo sinonimi, penso anche che la gratuità del dono (come il perdono, la testimonianza, l’ospitalità ecc.) sia uno di quegli oggetti sociali di cui ho appreso la politicità estrema dal filosofo Jacques Derrida. Si può perdonare solo l’imperdonabile, insegnava, e senza che si cancelli ciò di cui deve avvenire il perdono; si può ospitare e accogliere solo se si è impreparati a farlo, magari nel cuore della notte e all’improvviso; si può donare solo quell’impossibile dono privo dell’ombra di debito e credito, fosse anche inconscia.
A distanza di mesi dallo shock del terremoto, mentre la scena si è raffreddata e svuotata dei politici in cerca di audience, sento fortemente il desiderio di andare all’Aquila e condividere, fare dono del mio tempo, in un’epoca in cui la parola d’ordine è che non se ne ha mai, di tempo. Vorrei condividere la situazione di fantasma. Perché di questo si tratta: l’Aquila “città fantasma”, esclamarono quasi tutti i giornali riscoprendo all’improvviso una parola ben poco giornalistica, ma densamente filosofica. Siamo sempre nel campo dell’ospitalità, dell’accoglienza, del dono: “fantasma” dice lo spettro senza dimora, ma dice anche l’ospite. Dal Ghost al Guest il passaggio è breve: fantasmi sono i senza lavoro, i senza casa, i sans papier, i clandestini, condizione che oggi in Italia è addirittura un crimine. E’ il cuore della questione politica (catastrofica) di Amleto, “the time is out of joint”, il tempo è fuori luogo, poiché l’amletico problema di Hamlet, che poche lettere separano dall’homeless, è quello di tornare a casa.
La città de l’Aquila è oggi quasi un non luogo, se non propriamente una u-topia: inabitata, pericolosa, in attesa di una rifondazione, di una riabi(li)tazione. Una nuova esperienza dell’abitare è sempre anche una nuova esperienza del linguaggio, quella del revenant, fantasma e testimone. Che questo luogo sospeso diventi l’utopia di un luogo diversamente abitato, un’esperienza di dimora altrimenti fondata che sul circuito debito-credito, lo shock, la catastrofe e il profitto, al contrario a partire dalla possibilità impossibile del dono, è ciò che l’arte, nella sua gratuità fondativa, può permettersi di credere e di insegnare.

(uscito su l'Unità del 16 febbraio 2010)

2/15/2010

The Others (poesia ritrovata mentre cercavo uno dei miei testi sul "fantasma")

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bisognerebbe scrivere un'apologia
degli altri,
i nostri testimoni i nostri
martiri.
Ohh,
I apologize


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febbr. '95

2/14/2010

Il dono e gli sciacalli, parte 1

Shock economy, il saggio della giornalista canadese Naomi Klein del 2007, mostrava il nesso tra le politiche neoliberiste (liberalizzazioni dei salari, privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica) e le catastrofi (causa di shock collettivi), siano esse provocate ad hoc, come le guerre, o “naturali”, come l’uragano Katrina che devastò New Orleans spazzando via i poveri, nel gaudio degli immobiliaristi e di settori dell'amministrazione Bush, colpevole di omissione di soccorso. L’effetto generale dell'economia delle catastrofi è l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di molti.
Finché c’è guerra c’è speranza è invece il titolo di un film del 1974 girato da Alberto Sordi e da lui stesso interpretato. Tullio Kezich così lo salutò: “attuale come un articolo di quotidiano, onesto come una dichiarazione di voto”. E’ l’amara storia di un mercante d'armi che, dopo l’iniziale scandalo e senso di colpa di moglie e figli, viene da loro incalzato a continuare il suo commercio di morte affinché non perdano lussi, privilegi, soldi (basta che il suo nome non finisca in tv).
Sono due pensierini venutimi leggendo le intercettazioni di coloro cui è affidata in Italia la protezione civile e la realizzazione di “grandi” opere (pare che l'aggettivo basti a sottrarle a ogni controllo e trasparenza). Il terzo pensiero, quello che mi turba di più, è l’anestesia morale degli Italiani di fronte all'impunità del suo governo (del tutto simile a quella descritta da Elsa Morante in uno scritto su Mussolini nel 1945: leggetelo!).
Poi penso alla vita di tutti i giorni, agli sforzi che la gente fa per andare avanti (vero habitat e nutrimento di ogni scrittore), ai tanti aiuti spontanei e umili ai terremotati d’Abruzzo, compreso il work in progress chiamato DONO messo in moto dalla MicroGalleria dell’Accademia delle Belle Arti de l'Aquila, in cui sono stato coinvolto. E di questo, prometto, parlerò la prossima volta.

(rubrica "acchiappafantasmi", che doveva uscire su l'Unità oggi, domenica 14 febbraio, e inmvece è saltata per spazio - uscirà domani)

2/07/2010

Leggere Ezra Pound (contro il fascismo)

Si chiama "Casa Pound" il centro sociale neofascista (sembra un ossìmoro) occupato a Roma dal 2003 in una via del quartiere Esquilino, il più multietnico della capitale. La notizia è che anche Parma, città di storico e conclamato antifascismo, ha ora una “Casa Pound”. Alla protesta di molti abitanti (che segnalano anche episodi di violenza) si aggiunge un appello che non si limita a condannare, ma analizza la capacità di attrazione di questa presenza neofascista verso giovani di diversa estrazione sociale, cui propone “un’identità politica semplice e comunitaria, contrapposta a chi ne minerebbe i valori” - immigrati, zingari, barboni, omosessuali, ebrei, musulmani, comunisti... Insomma, quel senso comune nazista che fa il successo della Lega Nord, o quello dei patrioti dell’America profonda che, licenziati dalle fabbriche, issano striscioni contro l’aborto e per la guerra in Iraq.
Ora, a parte l’ovvia condanna alla violenza e al fascismo, da tempo penso al nome che questi giovani hanno scelto di indossare: casa Pound. Lo hanno mai letto? Dico: il poeta Ezra Pound. A 18 anni divorai i suoi Canti Pisani (poema intrecciato come una ragnatela di lingue e di culture), poi la traduzione che egli fece con Ernst Fenollosa delle poesie cinesi: sublimi. Perché non fare (a Parma, a Roma) una lettura pubblica dei suoi bellissimi Cantos, un reading collettivo di versi di Pound, così intimamente, palesemente agli antipodi delle idee e dell’identità fasciste, che ispirarono la poesia di Allen Ginsberg e la beat generation. Un fascista (come un leghista), non sa nulla di poesia (così come Pound capiva poco di politica): poesia è apertura, differenza, alterità, liberazione; è migrazione e mescolanza di generi, lingue, corpi, identità. Come il mercato di cibo e spezie di Piazza Vittorio, per esempio, cuore dell’Esquilino (“da tanta bellezza qualcosa ha da nascere” - “Le nuvole di Pisa”, The Pisan Cantos, Ezra Pound).

(rubrica "acchiappafantasmi", su l'Unità del 7 febbraio 2010)