7/30/2008

Sguardi d'artista sul pianeta Terra


Ho già parlato, anche qui, del bellissimo libro - testi e fotografie - di Giorgio Messori e Vittore Fossati, Viaggio in un paesaggio terrestre. Ho avuto modo alla fine di giugno di parlarne a Milano, in occasione dell'apertura di una mostra di Vittore Fossati a Castello Sforzesco, dove sono esposti in una bacheca anche gli appunti e i brogliacci del libro, quando era un lavoro in corso. E ho avuto modo di parlare, più di una volta, della mia amicizia con Giorgio Messori, scrittore, scomparso due anni fa (le mie Panchine, intese come libro, sono intimamente dedicate a lui). Su il manifesto di ieri è apparsa questa bella intervista al fotografo Vittore Fossati, che riporto qui integralmente:

Sguardi d'artista sul pianeta Terra
Parla il fotografo Vittore Fossati, in mostra a Milano. In un'esposizione al Castello Sforzesco, «Viaggio in un paesaggio terrestre», quaranta immagini di Fossati, che fanno parte di un progetto sulle tracce dei luoghi raffigurati dai grandi pittori, realizzato insieme allo scrittore Giorgio Messori scomparso l'anno scorso
Roberto Maggiori
La mostra fotografica Vittore Fossati, Giorgio Messori - Viaggio in un paesaggio terrestre, allestita al Castello Sforzesco di Milano fino al 21 settembre, deriva direttamente da un libro che porta lo stesso titolo e che è uscito per Diabasis lo scorso anno, un libro illustrato davvero sui generis in cui racconto scritto e fotografia si sviluppano insieme, interagiscono e si influenzano a vicenda senza gerarchie prestabilite. Ma soprattutto un work in progress, un viaggio che lo scrittore emiliano scomparso nel 2006 e il fotografo piemontese hanno compiuto sulle tracce dei luoghi cari agli artisti e dei paesaggi resi celebri dalle loro rappresentazioni. Ecco allora succedersi la Val Bregaglia cara a Giacometti, e Ornans, paese natale di Courbet, in cui il pittore realizzò molti dei suoi dipinti realisti. E ancora Fontaine-de-Vaucluse, dove Petrarca compose tanti sonetti e la montagna Sainte Victoire che Cézanne ritrasse più e più volte durante l'arco della sua vita, via via fino alla Delft di Vermeer (in cui anche Werner Herzog filmò alcune scene del suo Nosferatu), o alle rovine del monastero di Eldena in Pomerania dove Friedrich ambientò le sue visioni. Un viaggio allora dove si guarda al «paesaggio» e al tempo stesso si riflette sull'atto del guardare e sulle sue sedimentazioni culturali, facendo di volta in volta riferimento a quegli autori, da Merleau-Ponty a John Berger, che si sono interrogati sui linguaggi della percezione. A Vittore Fossati, le cui fotografie «terrestri» bene si coniugano con gli aspetti più «teorici» del progetto,abbiamo chiesto di raccontare la genesi di questa singolare esperienza.
Come è nata l'idea e poi la realizzazione di questo libro?
Nell'agosto 1997 Giorgio Messori aveva preso un appartamento in affitto in una località dell'Appennino reggiano e mi aveva invitato a passare qualche giorno da lui. Siccome eravamo tutti e due abbastanza sfaccendati, gli ho proposto di andare in giro per quei luoghi per vedere cosa veniva fuori mettendo insieme le sue descrizioni e le mie osservazioni. A volte fingevamo di essere alieni capitati un po' maldestramente sulla Terra con il compito di fare una relazione su ciò che compone il paesaggio del pianeta. Da qui deriva il titolo di quello che sarebbe diventato il primo capitolo del libro: «Paesaggio terrestre attorno a Villa Minozzo». Negli anni successivi avremmo poi compiuto altri viaggi, corrispondenti agli altri otto capitoli, e questa volta in località scelte appositamente, seguendo un ordine narrativo che, partendo da un luogo «anonimo», «qualsiasi», ci ha condotti sino ai «luoghi» della pittura di Friedrich dove il libro, nel nostro progetto, avrebbe dovuto trovare la conclusione.
Quale autonomia possono avere queste fotografie al di fuori del libro per cui sono state concepite e con cui interagiscono?
Il nostro non è uno di quei volumi fotografici tradizionali dove parole e immagini rappresentano parti separate nel corpo dell'opera, ma un libro illustrato, nel quale le fotografie vanno di pari passo con il testo. Libri come questo non si realizzano facilmente, anche perché non capita spesso di incontrare una persona, un amico, con cui condividere viaggi, parole, pensieri e lavoro per tanto tempo. Detto questo, per la mostra al Castello Sforzesco ho stampato quaranta fotografie, scelte fra quelle che hanno una maggiore autonomia visiva. A nove di loro, una per capitolo, è affiancato un passo del testo corrispondente. Inoltre per l'esposizione - su richiesta di Silvia Paoli, conservatrice del Civico Archivio Fotografico, e dopo averne discusso anche con Pierangelo Cavanna - ho sistemato nelle bacheche qualche menabò, prove, appunti: materiali che documentano alcuni momenti di «lavorazione» del libro.
Il libro si basa su tempi lunghi: il tempo lungo di un viaggio che parte dagli Appennini per arrivare in Pomerania e poi indietro fino a Capri e al Mediterraneo, il tempo lungo della narrazione, e anche il tempo lungo dell'immagine fotografica che si concede e ci concede il lusso di farsi osservare senza limiti temporali. Una modalità che permette al fruitore momenti di riflessione sempre più rari nella frenesia mediatica degli ultimi decenni. Ce ne può parlare?
Giorgio Messori non era un cronista e io non sono un reporter. Oltretutto, nessuno ci aveva chiesto di fare questo lavoro e quindi, tantomeno, non ci erano stati imposti dei tempi di consegna. Se Giorgio non fosse scomparso in un anfratto del paesaggio terrestre, probabilmente a quest'ora saremmo in giro a raccogliere parole e immagini per un altro capitolo. Era il nostro modo per stare insieme, incontrare gli amici, sentire la musica in auto, visitare un museo, spedire una cartolina. «Nessuna fretta di voler essere o voler diventare», per dirla con le parole che ha adoperato Beppe Sebaste in un suo recente ricordo di Messori.
A un certo punto del viaggio si arriva a Borgonuovo in Val Bregaglia, paese natale di Alberto Giacometti, e viene citato lo stesso artista che in un'intervista aveva dichiarato come la solitudine non sia una questione psicologica, ma esista nello spazio che ci isola. Gli oggetti sarebbero dunque in natura irrimediabilmente separati l'uno dall'altro. La fotografia individua questi oggetti e dà loro un ordine, una relazione, oppure intensifica il loro isolamento?
Per un pittore o per uno scultore l'esperienza estetica dello spazio è diversa da quella di un fotografo. Lo spazio è discontinuo, e tutto vi è distribuito in modo ineguale, compresa la nostra attenzione e sensibilità alle cose, a quanto avviene negli spazi che di volta in volta abitiamo, anche con lo sguardo. Poi, non tanto diversamente da quello che succede in altri momenti della vita, anche le fotografie ci appaiono spesso senza capo né coda. Difatti, come dei tranci, «stanno in mezzo»: tra un prima e un dopo, un sotto e un sopra, fra qualcosa che sta a sinistra e una cosa che continuerebbe a destra ma che però è stata «tagliata» e perciò nella foto non si vede. Quindi va da sé che le foto mostrino una porzione isolata di «realtà». Il vantaggio è che l'occhio può cogliere forse meglio, all'interno della scena inquadrata, alcuni rapporti fra le cose. Già, ma quali relazioni e fra quali cose? A questo punto, con grande sollievo, mi viene in mente che Cesare Zavattini, che aveva visto all'opera Paul Strand, lo ricordava così: «Quando fotografa un albero, quell'albero non è mai solo, Strand è l'altro albero».
In questo viaggio si torna all'aria aperta, alla natura non corrotta dalla «civiltà», alla ricerca di un «limite boschivo» (per dirla con Thomas Bernhard), fuori da ogni giurisdizione. Di cosa esattamente siete andati in cerca?
Rispondendo con una battuta, direi che almeno qualche volta abbiamo cercato posti che fossero davvero «fuori da ogni giurisdizione», nel senso di posti dove poter lasciare l'automobile e andare a fare una passeggiata senza il pensiero di beccarsi una multa.
È possibile leggere in chiave ambientalista quello che Messori scrive nella premessa quando afferma che questo viaggio e questo libro sono un'esercitazione a osservare il mondo che abbiamo intorno, e quindi una terapia per non perdere la sensibilità verso ciò che ci è prossimo?
Prima di andare in Uzbekistan, dove ha fatto per cinque anni il lettore di italiano all'università di Tashkent, Giorgio Messori insegnava lettere in un istituto superiore di Reggio Emilia. Qui aveva composto un «Piccolo decalogo per un corso scolastico di scrittura creativa». Al punto 5 dava questi suggerimenti: «Non essere mai astratto, scrivi sempre di cose concrete, vere, che ti sono vicine. È più interessante scrivere di una pozzanghera, o di ciò che vedi in una passeggiata sotto il sole, che non della minaccia nucleare che incombe sul mondo. Fra l'altro (anche se è un po' difficile da capire) fai un miglior servizio alla causa contro il pericolo nucleare scrivendo di cose molto concrete che non ripetendo frasi rimasticate di discorsi già fatti da altri». Quello che posso dire è che nel nostro libro abbiamo cercato di non fare troppo diversamente da quello che lui stesso consigliava ai suoi studenti.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto bello, molto interessante. Bellissime le fotografie, leggerò il libro. Paola

Anonimo ha detto...

imparato molto