Dato il magico momento di notorietà degli psicolabili nel nostro Paese, suggerirei a Vespa una bella puntata politicamente corretta di “Porta a porta”: dopo quella sui trans, una sui dementi, o “diversamente intelligenti”. Lui e Minzolini non si accorgeranno della differenza, né credo si udirebbero parole tanto diverse. Ma cosa vuol dire diverso? Anni fa (ma sembra oggi) scrissi una proposta linguistica che voglio qui rinnovare.
Come da tempo non si dice disabile ma “diversamente abile”, e non si dice più “disonesto” ma “diversamente onesto” (come chi ci governa), le leggi insegnano che i bilanci (come i servizi del Tg1) non sono “falsi” ma “diversamente veri”, certi guadagni non sono “illeciti” ma “diversamente leciti”, e non si è “corrotti” ma “diversamente retribuiti”. Quanto agli interessi privati sull’etica pubblica, prima di tutto non si dice “affari” ma “diversamente politica”, e la parola “privato” va sostituita con “diversamente pubblico” (vedi le scuole). Del resto non si dice “pubblico”, parola triviale, ma “diversamente privato”. Mi scuso, essendo stato tra i primi ad usarla, della parola “regime”: il nostro governo è “diversamente democratico”, come quello della Bielorussia; ha fatto una “diversamente pace” in Iraq e altrove, e il suo operato è “diversamente equo” e “diversamente liberale”. Non è e non è mai stato “di destra”, ma “diversamente di sinistra”, prova ne sia che la “sinistra” è una “diversamente destra” (con ciò non si intende che non siano diverse, ma “diversamente uguali”). Quanto a “l’Unità” (o “diversamente isolata”), invece che “d’opposizione” farà meglio a dirsi, per evitare guai, “diversamente a disposizione”. La realtà non è disgustosa, solo diversamente gustosa. E per noi disoccupati (“diversamente occupati”), noi desaparecidos, un augurio di diversamente buon anno, per “diversamente apparire”.
(su l'Unità di oggi, domenica 27 dicembre 2009)
12/24/2009
"Oggetti smarriti" su Alias (recensione di Alessandra Sarchi)
Volentieri pubblico qui la recensione di Alessandra Sarchi (autrice che molto stimo), apparsa oggi su Alias (il manifesto). Titolo: "Il Novecento degli oggetti perduti" (Ah, buon natale e voi e a me).
Oggetti smarriti e altre apparizioni di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano (2009, 9,50 euro), parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nello spazio di un breve incontro, nell’approssimazione di situazioni di precarietà - la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni - di tracce lasciate più o meno consapevolmente che l’autore interroga come indizi, come gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma e poi è stata in qualche modo abbandonata, per proseguire altrove, o tramutarsi in altro. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose,’ raccontato con presenza critica ed emotiva, alternando scene schiettamente narrative a brani di vero e proprio réportage letterario, in un equilibrio sottile tra autoriflessività della scrittura e neutralità descrittiva. Colpiscono i dati: l’impressionante numero di carte di identità perse - che l’autore legge come desiderio di fuga e cambiamento della popolazione, il ritmo dei verbali di consegna all’ufficio oggetti smarriti di Milano, più di 1500 al mese, una cinquantina al giorno. La lettura di questi verbali e la visione degli oggetti traccia una mappa sociologica della popolazione, dei suoi costumi, della composizione demografica. Ma lo sguardo dell’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde, o lascia traccia. Fantasma è ciò che ci manca, ciò che abbiamo intravisto e subito perso, proiezione di un’interiorità che si nutre di assenza più che di presenza.
Il filo rosso che lega momenti e contesti molto diversi fra di loro è costituito dalla predilezione per ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce, come linea in continuo movimento. L’attenzione letteraria e umana di Sebaste rivela di aver profondamente assimilato la lezione di Derrida - Nulla di meno marginale della questione dei margini - e di Godard - É il margine che fa la pagina - . Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia - anche se la nostalgia come essere altrove è sempre presente - ma è soprattutto stupore, interrogazione e riflessione sulla dialettica tra significanza e insignificanza dei gesti e delle cose, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Per Sebaste è il frammento che può dare l’idea del tutto, un tutto che è inafferrabile per definizione. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, in cui si sente l’eco dei moralisti francesi del Sei-Settecento (ma anche di Leopardi), solo che alla rovina, al resto delle civiltà passate come scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito, il frammento di quel vaso rotto che come metafora di una precisa poetica era già stato indicato dall’autore nel suo romanzo Tolbiac. Tuttavia l’inseguimento di luoghi e oggetti apparentemente banali non si risolve mai in intimismo, piuttosto attinge a una dimensione che si potrebbe definire di resistenza culturale, di memoria come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso il canale della rimozione, della dimenticanza, dell’occultamento. Questo lavoro di ricognizione tra le macerie e gli interstizi dello spreco e del presente attuale che non conosce passato né futuro, è prima di tutto un lavoro linguistico: l’autore ci ricorda come l’ufficio degli oggetti smarriti, abbia in Francia il suo corrispettivo in un luogo che, all’opposto, si chiama Bureau des objets trouvés, al quale se fosse possibile l’autore preferirebbe addirittura il vecchio fermoposta che consentiva di ritirare in qualsiasi città la propria corrispondenza; in francese si dice poste en souffrance, ed è la sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano una destinazione, delle persone e dei luoghi che vengono cancellati. E ancora: la visita a una fabbrica che produce palloncini gonfiabili - oggetto per definizione effimero e per questo molto in consonanza con gli intenti di certa arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons - dipana una riflessione non solo sull’uso propagandistico di questi oggetti - nelle campagne elettorali ad esempio - ma anche sul paradosso insito nell’affidare a poco più che fiato le proprie sorti, sapendo che ciò che si gonfia e si gonfia è prima o poi destinato a scoppiare, lo dice la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.
Se gli oggetti e i luoghi si lasciano percorrere nei loro multi-strati linguisitici e funzionali, perché sempre provvisoria è la loro aggregazione, anche le persone tendono a dissolversi o meglio a vivere in osmosi con l’ambiente che le circonda, come nelle fotografie di Francesca Woodman che Sebaste mette in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica della sparizione, dell’essere altro, del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di essere gesto umano e artistico, anziché idiozia politica, avrebbe forse impresso una svolta diversa alla storia del nostro paese. Il libro si conclude con il catalogo degli oggetti del volo IH 870 Bologna-Palermo abbattuto su Ustica, i cui resti sono stati allestiti in un progetto di grande impatto dall’artista Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di oggetti, di passeggeri, il bagaglio, gli effetti personali riportati alla loro radice etimologica e universale - poiché ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota - le parole hanno il pudore di fermarsi, di lasciare parlare il silenzio. E a chi si domanda per quale ragione esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.
(Alessandra Sarchi, da Alias (il manifesto) del 24 dicembre 2009)
Post scriptum: http://www.radiocittafutura.it/ViewMedia.aspx?mediaID=4cbed0e4f5174c1fbf3d5cf9df3bcd4e&s=0
Oggetti smarriti e altre apparizioni di Beppe Sebaste, pubblicato da Laterza nella collana di ricognizioni geografico-antropologiche Contromano (2009, 9,50 euro), parla di oggetti persi, trovati e dati a pegno, di persone intraviste nello spazio di un breve incontro, nell’approssimazione di situazioni di precarietà - la strada, il campo rom, l’alloggio abusivo in mezzo a una pineta, il monte dei pegni - di tracce lasciate più o meno consapevolmente che l’autore interroga come indizi, come gusci esistenziali in cui la vita ha preso forma e poi è stata in qualche modo abbandonata, per proseguire altrove, o tramutarsi in altro. Gli oggetti smarriti sono innanzitutto sintomo, in senso psicanalitico, dello smarrimento individuale e collettivo di un Occidente oppresso da merci e ‘cose,’ raccontato con presenza critica ed emotiva, alternando scene schiettamente narrative a brani di vero e proprio réportage letterario, in un equilibrio sottile tra autoriflessività della scrittura e neutralità descrittiva. Colpiscono i dati: l’impressionante numero di carte di identità perse - che l’autore legge come desiderio di fuga e cambiamento della popolazione, il ritmo dei verbali di consegna all’ufficio oggetti smarriti di Milano, più di 1500 al mese, una cinquantina al giorno. La lettura di questi verbali e la visione degli oggetti traccia una mappa sociologica della popolazione, dei suoi costumi, della composizione demografica. Ma lo sguardo dell’autore va oltre il dato sociologico, attratto dal potere evocativo e fantasmatico di tutto ciò che si perde, o lascia traccia. Fantasma è ciò che ci manca, ciò che abbiamo intravisto e subito perso, proiezione di un’interiorità che si nutre di assenza più che di presenza.
Il filo rosso che lega momenti e contesti molto diversi fra di loro è costituito dalla predilezione per ciò che sta ai margini, scartato, rimosso, perduto; una marginalità intesa come limite che (ci) definisce, come linea in continuo movimento. L’attenzione letteraria e umana di Sebaste rivela di aver profondamente assimilato la lezione di Derrida - Nulla di meno marginale della questione dei margini - e di Godard - É il margine che fa la pagina - . Emerge una poetica del frammento che non si compiace di mera nostalgia - anche se la nostalgia come essere altrove è sempre presente - ma è soprattutto stupore, interrogazione e riflessione sulla dialettica tra significanza e insignificanza dei gesti e delle cose, tra il permanere delle tracce e il disfarsi delle civiltà, il venire meno delle persone. Per Sebaste è il frammento che può dare l’idea del tutto, un tutto che è inafferrabile per definizione. Ne risulta un’archeologia del contemporaneo, in cui si sente l’eco dei moralisti francesi del Sei-Settecento (ma anche di Leopardi), solo che alla rovina, al resto delle civiltà passate come scaturigine di riflessione sul tempo e sul senso delle cose, si sostituisce qui l’oggetto smarrito, il frammento di quel vaso rotto che come metafora di una precisa poetica era già stato indicato dall’autore nel suo romanzo Tolbiac. Tuttavia l’inseguimento di luoghi e oggetti apparentemente banali non si risolve mai in intimismo, piuttosto attinge a una dimensione che si potrebbe definire di resistenza culturale, di memoria come coscienza rispetto alle tante forme di disumanità e immoralità che passano principalmente attraverso il canale della rimozione, della dimenticanza, dell’occultamento. Questo lavoro di ricognizione tra le macerie e gli interstizi dello spreco e del presente attuale che non conosce passato né futuro, è prima di tutto un lavoro linguistico: l’autore ci ricorda come l’ufficio degli oggetti smarriti, abbia in Francia il suo corrispettivo in un luogo che, all’opposto, si chiama Bureau des objets trouvés, al quale se fosse possibile l’autore preferirebbe addirittura il vecchio fermoposta che consentiva di ritirare in qualsiasi città la propria corrispondenza; in francese si dice poste en souffrance, ed è la sofferenza dei gesti e dei messaggi che non trovano una destinazione, delle persone e dei luoghi che vengono cancellati. E ancora: la visita a una fabbrica che produce palloncini gonfiabili - oggetto per definizione effimero e per questo molto in consonanza con gli intenti di certa arte contemporanea da Piero Manzoni a Jeff Koons - dipana una riflessione non solo sull’uso propagandistico di questi oggetti - nelle campagne elettorali ad esempio - ma anche sul paradosso insito nell’affidare a poco più che fiato le proprie sorti, sapendo che ciò che si gonfia e si gonfia è prima o poi destinato a scoppiare, lo dice la parola inglese boom, così temerariamente associata all’economia.
Se gli oggetti e i luoghi si lasciano percorrere nei loro multi-strati linguisitici e funzionali, perché sempre provvisoria è la loro aggregazione, anche le persone tendono a dissolversi o meglio a vivere in osmosi con l’ambiente che le circonda, come nelle fotografie di Francesca Woodman che Sebaste mette in ardita e inedita consonanza con la fotografia di uno dei covi delle Brigate Rosse, inconsapevoli (forse) portatori di una estetica della sparizione, dell’essere altro, del fare perdere le tracce che se avesse avuto il coraggio di essere gesto umano e artistico, anziché idiozia politica, avrebbe forse impresso una svolta diversa alla storia del nostro paese. Il libro si conclude con il catalogo degli oggetti del volo IH 870 Bologna-Palermo abbattuto su Ustica, i cui resti sono stati allestiti in un progetto di grande impatto dall’artista Christian Boltanski per il Museo della Memoria di Ustica a Bologna. Elenchi di oggetti, di passeggeri, il bagaglio, gli effetti personali riportati alla loro radice etimologica e universale - poiché ciò che è rimasto è una terrificante carcassa vuota - le parole hanno il pudore di fermarsi, di lasciare parlare il silenzio. E a chi si domanda per quale ragione esista un simile museo Sebaste risponde con Derrida: “L’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire”.
(Alessandra Sarchi, da Alias (il manifesto) del 24 dicembre 2009)
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12/21/2009
Billy the Kid (la ballata di)
Billy the Kid (La ballata di)
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna, era seria e triste, “seria e triste”,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era abbastanza una bella donna era libera
di camminare e incontrava amici d'infanzia
Billy the Kid non aveva l’infanzia o non si ricordava
di averla incontrava dovunque amici d’infanzia
che si arrendevano
Billy the Kid raramente si arrendeva e quando
lo faceva dopo si voltava per sparargli
Billy the Kid era libera e camminava era una donna bella
come la stagione dell’infanzia era seria e triste e sorrideva
Billy the Kid cercava dovunque amici d’infanzia e sorrideva
Billy the Kid era una puttana era bella e triste
non era mai dove credevi che fosse
non era mai dove credeva che fosse
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna era seria e triste
Billy the Kid la uccise Pat Garrett un amico d’infanzia
perché Pat Garrett conosceva l'infanzia
e Billy the Kid la conosceva da sempre
che cercava dovunque degli amici d’infanzia e sorrideva
incontrò Billy the Kid che gli camminava incontro, seria e triste,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era una donna camminava libera
non era mai dove credeva che fosse
Pat Garrett uccise Billy The Kid un mattino d'infanzia
provarono entrambi una grande tenerezza
provarono entrambi una grande tenerezza
(1993/94)
[mi sono divertito molto ieri sera al reading non stop organizzato da Critical Book & Wine ed ESCargot all'ESC di via dei Volsci. questa che offro alla lettura è l'ultima poesia che ho letto ieri sera quando era il mio turno, ma è una mia vecchia poesia e mi è piuttosto cara]
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna, era seria e triste, “seria e triste”,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era abbastanza una bella donna era libera
di camminare e incontrava amici d'infanzia
Billy the Kid non aveva l’infanzia o non si ricordava
di averla incontrava dovunque amici d’infanzia
che si arrendevano
Billy the Kid raramente si arrendeva e quando
lo faceva dopo si voltava per sparargli
Billy the Kid era libera e camminava era una donna bella
come la stagione dell’infanzia era seria e triste e sorrideva
Billy the Kid cercava dovunque amici d’infanzia e sorrideva
Billy the Kid era una puttana era bella e triste
non era mai dove credevi che fosse
non era mai dove credeva che fosse
Billy the Kid era una donna si vestiva come un uomo
ma era una donna era seria e triste
Billy the Kid la uccise Pat Garrett un amico d’infanzia
perché Pat Garrett conosceva l'infanzia
e Billy the Kid la conosceva da sempre
che cercava dovunque degli amici d’infanzia e sorrideva
incontrò Billy the Kid che gli camminava incontro, seria e triste,
perché queste parole le stavano bene addosso
Billy the Kid era una donna camminava libera
non era mai dove credeva che fosse
Pat Garrett uccise Billy The Kid un mattino d'infanzia
provarono entrambi una grande tenerezza
provarono entrambi una grande tenerezza
(1993/94)
[mi sono divertito molto ieri sera al reading non stop organizzato da Critical Book & Wine ed ESCargot all'ESC di via dei Volsci. questa che offro alla lettura è l'ultima poesia che ho letto ieri sera quando era il mio turno, ma è una mia vecchia poesia e mi è piuttosto cara]
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12/20/2009
Riepilogo sul volto di B. (e sulla tv che non viene mai spenta) (rubrica "acchiappafantasmi)"
Qualche tempo dopo l’attacco dell’11 settembre 2001, Umberto Eco osservò come l’intero sistema dell’informazione planetaria si fosse irretito nella constatazione stupita che “le Torri sono cadute”. Qualcosa del genere, in miniatura (ma anche la “miniatura” qui fa parte dell’evento), ha seguito per qualche giorno l’aggressione subita dal nostro primo ministro da un malato (già artista astratto). Un incanto autocensorio ha paralizzato il giudizio, per tema di un’equivalenza tra parole e violenza. Nella generale afasia, solo certi siti Internet (per es. nazioneindiana.com), agli antipodi di quanto sentenziano i detrattori di governo, hanno continuato a esercitare una funzione intellettuale, cioè critica; a riprova che la libertà di pensiero alimenta il pensiero.
Tra i punti discussi, il fatto che l’ostensione di se come “sìndone” vivente da parte del primo ministro (che a quanto pare affida il proprio corpo non allo Stato, come dovrebbe, ma a una scorta privata), trasformasse in pochi attimi il suo volto sanguinante e “nudo” (l’emozione e l’empatia di vedere l’umanità del “re nudo” per la prima volta: un volto che s’offre, che soffre) in un volto ancora una volta “vestito” e in posa, tramutando per metonimia il rosso sangue in un cerone; cioè una nuova maschera che anche ferita si mostrava ostinatamente al suo popolo. Comunque sia, quei primi piani drammatici e inattesi, proprio come le Twin Towers, sono un evento estetico, improbabile come un’installazione di Maurizio Cattelan, benché più simili a un Francis Bacon serializzato da Andy Warhol. Ed ecco che, mentre scrivo questa nota, mi accorgo con pena quanto sia preso anch’io dall’irretimento che volevo denunciare, paralizzato nell’amara constatazione che da ormai 15 anni guardiamo tutti lo stesso film, gli stessi eventi; solo che una metà degli Italiani vi attribuisce un senso opposto a quello che gli diamo noi. E non c’è verso di spegnere la tv.
(rubrica "acchiappafantasmi", da l'Unità di domenica 20 dic. 2009)
Tra i punti discussi, il fatto che l’ostensione di se come “sìndone” vivente da parte del primo ministro (che a quanto pare affida il proprio corpo non allo Stato, come dovrebbe, ma a una scorta privata), trasformasse in pochi attimi il suo volto sanguinante e “nudo” (l’emozione e l’empatia di vedere l’umanità del “re nudo” per la prima volta: un volto che s’offre, che soffre) in un volto ancora una volta “vestito” e in posa, tramutando per metonimia il rosso sangue in un cerone; cioè una nuova maschera che anche ferita si mostrava ostinatamente al suo popolo. Comunque sia, quei primi piani drammatici e inattesi, proprio come le Twin Towers, sono un evento estetico, improbabile come un’installazione di Maurizio Cattelan, benché più simili a un Francis Bacon serializzato da Andy Warhol. Ed ecco che, mentre scrivo questa nota, mi accorgo con pena quanto sia preso anch’io dall’irretimento che volevo denunciare, paralizzato nell’amara constatazione che da ormai 15 anni guardiamo tutti lo stesso film, gli stessi eventi; solo che una metà degli Italiani vi attribuisce un senso opposto a quello che gli diamo noi. E non c’è verso di spegnere la tv.
(rubrica "acchiappafantasmi", da l'Unità di domenica 20 dic. 2009)
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12/16/2009
invito a roma - vino & poesia (critical wine, critical book & poetry)
poesiatotale!
a cura di Nanni Balestrini, Sara Davidovics, Tommaso Ottonieri
ESC via dei Volsci 20 dicembre 2009
una produzione Critical Book & Wine ed ESCargot
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12/14/2009
Christian Boltanski e la scommessa col diavolo
Se oggi quando si parla di arte spesso si parla di memoria, testimonianza, archivio, documentalità, e a volte ci si confonde tra un deposito di “oggetti smarriti” (o ritrovati) e un’installazione, tra un’opera e la vetrina di un Banco dei Pegni, credo che molto sia dovuto al lavoro ininterrotto ed esemplare di Christian Boltanski, che come i grandi artisti e i grandi scrittori ci ha dato occhi per vedere il mondo in modo diverso. E ci si chiede quindi: dove comincia un archivio? E dove finisce?
Iniziò giovanissimo esponendo bacheche di oggetti personali e fotografie, inscatolando frammenti della propria vita, anche l’infanzia, a testimoniare il lutto di ciò che non è più (“abbiamo tutti un bambino morto dentro di noi, è la prima cosa che muore”, mi ha detto una volta). Ha esposto per anni nei musei di tutto il mondo foto ingrandite e sgranate di morti, rigorosamente primi piani, anticipando le struggenti carrellate di volti dei desaparecidos di Plaza de Majo e delle Torri Gemelle dopo l’11 settembre: scoprendo una qualità elegiaca allo stato latente nelle fotografie più comuni, volti qualunque, volti del nostro prossimo, il cui ingrandimento, evacuando il contesto, li rende assoluti. Ha ostentato “sìndoni” (volti fantasmatici proiettati o impressi su lenzuola o su lastre), assemblato abiti e oggetti, ammassato elenchi telefonici di tutto il mondo, grandi biblioteche coi nomi di tutti quelli che sono collegati sulla Terra contemporaneamente (ancora un’idea di “fratelli umani”). Per non citare che alcune delle sue mostre. Ho collaborato con lui all’installazione permanente (cosa nuova per lui) del Museo per la Memoria di Ustica, a Bologna, col relitto dell’aereo colpito da un missile nel 1980, e abbiamo fatto insieme un libro, “Lista degli oggetti personali appartenuti ai passeggeri dell’aereo IH 870”. Ora Boltanski sta preparando per il Giappone una grande installazione che prevede la registrazione di una moltitudine di battiti di diversi cuori, e si appresta a inaugurare, il prossimo gennaio, un’altra grande mostra al Grand-Palais di Parigi. Ma la sua ultima opera – l’opera “di una vita” - del tutto coerente coll’insieme del suo lavoro e al tempo stesso “ultimativa” - è riassunta in un contratto “di cessione” “en l’état futur d’achèvement”, cioè prima del suo compimento.
Boltanski lo ha stipulato col singolare proprietario e curatore del MONA (Museum of modern and old art) costruito a Hobart (Tasmania, Australia). Ovvero David Walsh, collezionista, amatore d’arte e professionista del gioco. E’ un uomo sui quarant’anni lievemente autistico (la sindrome di Rain Man), e la sua ingente ricchezza proviene da scommesse e da giochi d’azzardo. L’opera consiste nel fare filmare il proprio atelier in permanenza, ovvero 24 ore su 24, da due o più telecamere, che il collezionista può contemplare a distanza. Non c’è un obbligo di presenza da parte dell’artista, né un calendario prefissato. Ma si tratta appunto del suo luogo di lavoro. I materiali registrati, ovvero i film, saranno conservati in un annesso del Museo creato appositamente, una caverna scavata nella roccia. Verranno proiettati secondo modalità e scansioni scrupolosamente stabilite dall’artista, quindi incisi su DVD e tenuti in un apposito armadio fatto nelle pareti della caverna.
Naturalmente è Boltanski ad avere concepito l’idea. Invece di cedere alla richiesta di un’opera, Boltanski propose al milionario David Walsh l’acquisto di una “messa in scatola” della propria vita d’artista, e la conservazione delle sue tracce, come testimonianza, in una “tomba” molto distante dal luogo in cui vive. (In Tasmania ci sono pochissimi abitanti, e la regione del Museo è difficilmente accessibile, oltre che priva di centri d’arte). Boltanski ha ottenuto di convertire la somma pattuita per la “Cessione nello Stato Futuro di Compimento” dell’Opera in un vitalizio annuale, poi ripartito in mensilità. La registrazione - l’Opera - inizierà il 1° gennaio del 2010. Fino a quando? Il preambolo lessicale del contratto, tra le tante voci, definisce la “Data di Compimento” dell’Opera, o realizzazione finale, “il giorno della morte dell’artista”. Ma quando, appunto?
La passione per le scommesse del collezionista (“non ho mai perso”, ha detto più volte all’artista) non poteva astenersi in questa occasione. Per questo, come mi ha allegramente confidato, Boltanski ha la sensazione di avere fatto una scommessa col diavolo, come il Parnassus dell’ultimo film di Terry Gillian. (Dio invece, mi ha detto tante volte Boltanski, per lui coincide invece con il “caso”). Dunque l’addizione delle mensilità del vitalizio indurrebbe il collezionista ad auspicare la morte dell’artista tra otto, massimo dieci anni, oltre il cui limite lieviterebbe la somma inizialmente pattuita (che qui non rivelerò). Naturalmente, l’artista scommette di vivere più a lungo. A confortarlo, giustamente, la considerazione che in fondo quasi in nessun caso il collezionista perderebbe (ogni anno di vita dell’artista accresce il suo archivio di “vita d’artista”, accumulando materiali).
I giornali del mondo che finora hanno parlato di questa singolare opera hanno solo accentuato l’aspetto sensazionalistico, da “Grande Fratello”, senza rendersi conto che il contratto d’opera ricalca ciò che Boltanski come artista ha fatto fin dagli inizi nelle sue “vetrine”: mostrare la (propria) vita, con quell’elemento di artificio e di finzione che l’arte comporta sempre; mostrarne i documenti, quello che resta, gli attestati di quanto è accaduto, mischiando magari lettere d’amore con altre burocratiche e di lavoro. L’autobiografia, per Boltanski, è universale. Mi ha detto: “Quando ne leggiamo, o anche quando si legge Proust, la vita di chi scrive diventa la vita di chi legge. Il sé diventa gli altri, che vi si riconoscono coi propri ricordi. E’ la funzione dell’arte. Ogni foto di bambino può far dire: ‘sì, mi ricordo di quando ero alla spiaggia’, oppure: ‘mi ricorda mia nipote’… L’artista diventa specchio e desiderio degli altri, diventa gli altri, non ha più esistenza propria, ma solo lo sguardo altrui. Non si può creare che scomparendo. Non si può ritoccare il proprio quadro. Se c’è Dio, Egli è scomparso nella creazione. E se Dio è assente, tocca agli uomini di fare…”
Quanto alla morte, essa è evidentemente da sempre presente nel suo lavoro. Del resto testimoniare (qualità del superstite, insegna l’etimologia) significa essere consapevoli del carattere testamentario di ogni iscrizione (e di ogni testo), esibire la nostra mortalità. Significa anche, al limite, incarnare l’aporia o il paradosso de Lo strano caso del Signor Valdemar di Edgar Allan Poe, colui che dice “io sono morto”. Penso allora che Boltanski abbia riversato nel fare arte quello che solo un filosofo-scrittore come Jacques Derrida ha propugnato con coerenza nei libri e insegnamenti di tutta una vita (e oltre): l’archivio non riguarda il passato, riguarda l’avvenire. Testimoniare è trasmettere, cioè sopravvivere. Al limite, diventare fantasmi.
(uscito su La Stampa, 13 dicembre 2009)
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12/13/2009
Quel volto di sangue vero
Io ho paura. Di quel volto imbrattato di sangue, di quello sguardo. Quelle foto sono già un'icona contemporanea, un evento - che lo vogliamo o no - estetico, cioè politico. Nel flusso delle pose, delle immagini patinate e intinte di cerone, quel volto umano e per questo inaudito del capo, intriso di sofferenza e di odio, mi turba come - per esempio - un'opera-installazione di Maurizio Cattelan. E' sangue vero - anche questo mi stupisce. Rosso. Comune e mortale. Volto, per una volta, nudo. Volto che, per una volta, soffre (s'offre). Utopia di una comprensione, una conversione, che non avverrà mai. Anzi.
Ho paura della violenza, di ogni violenza. Mi sento colpito, irradiato da un'energia negativa emanata da quel volto, nonostante ogni compassione. Se è l'era di un nuovo realismo, ho paura della brutalità della cosiddetta realtà. Mi fa anche già paura il fatto che sento di non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e di associazioni di idee, anche solo intellettuali, anche puramente estetiche (se esistono), che quella sequenza di immagini mute mi suscita. Ho paura della mia autocensura, presentimento di una pesante censura. Paura dell'immensa violenza di rimbalzo. Paura di vedere, in quella bocca piena di sangue, l'immagine simmetrica della bocca che ride per mostrare i denti. Paura di scorgere, nel ghigno dell'umana sofferenza, un soffio algido di vendetta.
P.S. Leggo che l'aggressore, un ingegnere di 42 anni di nome Massimo T., in cura per problemi psichici da une decina d'anni, quando i poliziotti lo hanno trascinato via dalla piazza dopo l'aggressione ripetesse: "Non sono io. Io non sono nessuno". Soprattutto mi colpisce apprendere che 15 anni fa fosse comparso sui giornali accanto a fotografie di una sua invenzione, i "quadri musicali". "Coniugando la passione per l'elettronica con il gusto per l'arte astratta, Massimo T. realizzò dei piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica. L'invenzione finì presto in un cassetto e dei "Quadri musicali" non si sentì più parlare". Che l'aggressore abbia flirtato con l'arte astratta - quella che il ministro Bondi, come ha ripetuto spesso, non capisce e disprezza - sarà senz'altro considerato una più che simbolica aggravante...
Ho paura della violenza, di ogni violenza. Mi sento colpito, irradiato da un'energia negativa emanata da quel volto, nonostante ogni compassione. Se è l'era di un nuovo realismo, ho paura della brutalità della cosiddetta realtà. Mi fa anche già paura il fatto che sento di non riuscire a esprimere liberamente il flusso di pensieri e di associazioni di idee, anche solo intellettuali, anche puramente estetiche (se esistono), che quella sequenza di immagini mute mi suscita. Ho paura della mia autocensura, presentimento di una pesante censura. Paura dell'immensa violenza di rimbalzo. Paura di vedere, in quella bocca piena di sangue, l'immagine simmetrica della bocca che ride per mostrare i denti. Paura di scorgere, nel ghigno dell'umana sofferenza, un soffio algido di vendetta.
P.S. Leggo che l'aggressore, un ingegnere di 42 anni di nome Massimo T., in cura per problemi psichici da une decina d'anni, quando i poliziotti lo hanno trascinato via dalla piazza dopo l'aggressione ripetesse: "Non sono io. Io non sono nessuno". Soprattutto mi colpisce apprendere che 15 anni fa fosse comparso sui giornali accanto a fotografie di una sua invenzione, i "quadri musicali". "Coniugando la passione per l'elettronica con il gusto per l'arte astratta, Massimo T. realizzò dei piccoli quadri che si illuminavano di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si ascoltava della musica. L'invenzione finì presto in un cassetto e dei "Quadri musicali" non si sentì più parlare". Che l'aggressore abbia flirtato con l'arte astratta - quella che il ministro Bondi, come ha ripetuto spesso, non capisce e disprezza - sarà senz'altro considerato una più che simbolica aggravante...
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Mantenere la parola
In treno i pensieri scorrono nel dormiveglia attutito dal raffreddore. Dai giornali rimbalzano frasi che compongono un puzzle sconnesso del mondo, dove nulla è al suo posto. Il primo ministro urla che la nostra Costituzione (giovanissima, e adottata anche dal Portogallo, perché la Costituzione italiana, dissero, è la più bella del mondo) “è vecchia e da cambiare”. A Parma, al congresso dell’Api di Rutelli, l’amministratore delegato del gruppo Prada invoca l‘impeachement contro Berlusconi (lui, non il Pd; ma si sa, “con Api si vola”). Leggo di scontri tra polizia e studenti, colpevoli di manifestare a difesa della scuola e della ricerca. Ieri l’altro, aspettando l’autobus, vidi sgomento davanti al Ministero della Pubblica Istruzione poliziotti in tenuta antisommossa: non a difesa degli studenti, ma contro di loro. Leggo su l’Unità il dossier su Piazza Fontana: avevo 10 anni nella Milano plumbea e deserta quel dicembre 1969, ero lì per caso con i miei genitori, più tardi feci un tema a scuola, sconvolto. Poi penso al celebre scritto di Pier Paolo Pasolini, quasi un poema, uscito sul Corriere della Sera nel novembre 1974 (sarebbe pubblicabile, oggi?): “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (...). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 (...) Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero...” Io sono uno scrittore. Come mantenere la parola?
(uscito oggi, domenica 13 dicembre (santa Lucia), rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
(P.S. su La Stampa sempre di oggi, mio articolo su Christian Boltanski e la sua "scommessa col diavolo" - lo posterò, qui o sul sito...)
(uscito oggi, domenica 13 dicembre (santa Lucia), rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
(P.S. su La Stampa sempre di oggi, mio articolo su Christian Boltanski e la sua "scommessa col diavolo" - lo posterò, qui o sul sito...)
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12/06/2009
La politica e la felicità (frammento di un romanzo che non scriverò)
Frammento di un romanzo che non scriverò, titolo “L’amore al tempo di Berlusconi”, tema: che rapporto c’è tra la propria felicità e il tipo di governo?
... Il governo Berlusconi, il peggiore in Europa dal 1945, permise a noi italiani di mantenere un alibi comodo come una felpa, l’ipocrisia di una speranza a cui potevamo facilmente rinviare. Quando finì, e “i nostri” presero il timone, ci sentimmo come i tedeschi dopo il crollo del muro di Berlino: non c’era più un’altra possibilità, un’alterità. Orfani di un’immaginazione e di una potenza, il mondo tornò piatto. Durante il governo Berlusconi si era creata un’ampia e nebulosa fratellanza: la violazione palese delle regole della democrazia ci indignava senza metterci in discussione, e creò convergenze morali tra persone economicamente, oggettivamente divergenti, come il locatario e il locatore, il datore di lavoro e il salariato, senza intaccare il costo dell’affitto o le ore di lavoro. Manifestavamo insieme in una baldoria contenuta, non la Resistenza, ma l’ossimoro della festa al capezzale del defunto che non muore. E sotto sotto credo che fossimo in tanti a non volere davvero che finisse il governo Berlusconi, quella dittatura di una maggioranza triviale che ci rendeva tutti per incanto più nobili e belli. La nostra opposizione era facile da indossare, un’appartenenza comoda, senza bisogno di ritocchi, nemmeno di essere stirata; un’identità che non si sgualciva e spiegazzava come il lino, ma era solida e liscia come un abito in microfibra; che conteneva l’illusione poco innocente che la politica fosse quella, che riguardasse tutti in forma pulita e ideale, con una parte evidentemente buona con cui stare: senza entrare nel merito delle cose che, nella brevità della vita, nel bagliore sfuggente dell’esistenza, decidono la felicità o infelicità e, en passant, la miseria o l’agio. Onore, giustizia e altre nitide illusioni erano servite, luccicavano sulle nostre tavole imbandite: possibile che non ci rendessimo conto che il talentuoso imbroglione dal sorriso di canaglia che guidava il governo realizzava semplicemente quello che da sempre, da quando esiste il cerimoniale della democrazia parlamentare, realizzano le destre? Lo faceva, però, scoperchiando gli altari e le pentole, togliendo il velo e la presunta sacralità di quelle regole e abitudini che rendono, come per magia, l’insopportabile sopportabile, e l’intollerabile paesaggio consueto - che è esattamente quello che gli Italiani hanno visto e vissuto e sopportato in quasi cinquant’anni di democrazia cristiana filo-americana.
(La magia, in realtà, è la forza dell’abitudine. E quello di cui volevo davvero scrivere era il mio senso di claustrofobia).
(uscito, appena più beve, oggi domenica 6 dicembre nella rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
[segnalo che sull'ultimo numero di Nuovi Argomenti, appena uscito, dedicato al tema "Privato /Publico", c'è un altro racconto-descrizione di romanzo (che però continuerò), dal titolo Parlare coi morti, 2006 (anche se sulla rivista, ahimè, manca la data che è essenziale). Descrizioni e riassunti di romanzi non scritti è un genere che coltivo da alcuni anni...]
... Il governo Berlusconi, il peggiore in Europa dal 1945, permise a noi italiani di mantenere un alibi comodo come una felpa, l’ipocrisia di una speranza a cui potevamo facilmente rinviare. Quando finì, e “i nostri” presero il timone, ci sentimmo come i tedeschi dopo il crollo del muro di Berlino: non c’era più un’altra possibilità, un’alterità. Orfani di un’immaginazione e di una potenza, il mondo tornò piatto. Durante il governo Berlusconi si era creata un’ampia e nebulosa fratellanza: la violazione palese delle regole della democrazia ci indignava senza metterci in discussione, e creò convergenze morali tra persone economicamente, oggettivamente divergenti, come il locatario e il locatore, il datore di lavoro e il salariato, senza intaccare il costo dell’affitto o le ore di lavoro. Manifestavamo insieme in una baldoria contenuta, non la Resistenza, ma l’ossimoro della festa al capezzale del defunto che non muore. E sotto sotto credo che fossimo in tanti a non volere davvero che finisse il governo Berlusconi, quella dittatura di una maggioranza triviale che ci rendeva tutti per incanto più nobili e belli. La nostra opposizione era facile da indossare, un’appartenenza comoda, senza bisogno di ritocchi, nemmeno di essere stirata; un’identità che non si sgualciva e spiegazzava come il lino, ma era solida e liscia come un abito in microfibra; che conteneva l’illusione poco innocente che la politica fosse quella, che riguardasse tutti in forma pulita e ideale, con una parte evidentemente buona con cui stare: senza entrare nel merito delle cose che, nella brevità della vita, nel bagliore sfuggente dell’esistenza, decidono la felicità o infelicità e, en passant, la miseria o l’agio. Onore, giustizia e altre nitide illusioni erano servite, luccicavano sulle nostre tavole imbandite: possibile che non ci rendessimo conto che il talentuoso imbroglione dal sorriso di canaglia che guidava il governo realizzava semplicemente quello che da sempre, da quando esiste il cerimoniale della democrazia parlamentare, realizzano le destre? Lo faceva, però, scoperchiando gli altari e le pentole, togliendo il velo e la presunta sacralità di quelle regole e abitudini che rendono, come per magia, l’insopportabile sopportabile, e l’intollerabile paesaggio consueto - che è esattamente quello che gli Italiani hanno visto e vissuto e sopportato in quasi cinquant’anni di democrazia cristiana filo-americana.
(La magia, in realtà, è la forza dell’abitudine. E quello di cui volevo davvero scrivere era il mio senso di claustrofobia).
(uscito, appena più beve, oggi domenica 6 dicembre nella rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità)
[segnalo che sull'ultimo numero di Nuovi Argomenti, appena uscito, dedicato al tema "Privato /Publico", c'è un altro racconto-descrizione di romanzo (che però continuerò), dal titolo Parlare coi morti, 2006 (anche se sulla rivista, ahimè, manca la data che è essenziale). Descrizioni e riassunti di romanzi non scritti è un genere che coltivo da alcuni anni...]
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12/01/2009
Claustrofobia: i carcerieri di Durrenmatt (e quelli della Lega)
Claustrofobia è un concetto che a torto si usa poco in politica, eppure è proprio questo che provocano i regimi chiusi e totalitari, a diversi gradi del loro insediamento. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: chiusura, appunto (v. The Dome di Stephen King), omogeneizzazione, irregimentazione, ripiegamento sulla propria identità; identità che, a diversi livelli di fascistizzazione, si basa sulla comunanza del suolo oppure del sangue. L’appartenenza religiosa ha pure un ruolo importante in questa marca di identità, pur ovviamente non avendo più nulla di spirituale né di religioso. In Svizzera, storicamente terra d’asilo e di rifugiati politici e religiosi, dove un referendum populista ha proibito l’edificazione di minareti, ovvero i templi religiosi degli “altri”, nel 1990 il grande scrittore svizzero Frederich Durrenmatt pronunciò un discorso d’indimenticabile e feroce ironia contro la politica claustrofobizzante del suo Paese, subito entrato nella storia e nella sua opera. Fu durante la cerimonia per la cittadinanza svizzera onoraria al dissidente ceco Victor Havel.
Iniziò coll'esprimere stupore, di fronte ai politici impietriti, che si desse la cittandinanza a un dissidente come Havel quando, in patria, cittadini svizzeri venissero arrestati perché non aderenti all'"ideologia nazionale" (per esempio obiettori di coscienza, o renitenti alla leva obbligatoria). Descrisse poi la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli Svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, “per dimostrare la propria libertà”. In tale prigione, disse, “gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti”. Ma vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Durrenmatt:
“C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli Svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri”.
Le parole di Durrenmatt valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale “Popolo delle libertà”, guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.
(commento uscito su l'Unità del 1° dicembre)
Iniziò coll'esprimere stupore, di fronte ai politici impietriti, che si desse la cittandinanza a un dissidente come Havel quando, in patria, cittadini svizzeri venissero arrestati perché non aderenti all'"ideologia nazionale" (per esempio obiettori di coscienza, o renitenti alla leva obbligatoria). Descrisse poi la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli Svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, “per dimostrare la propria libertà”. In tale prigione, disse, “gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti”. Ma vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Durrenmatt:
“C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli Svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri”.
Le parole di Durrenmatt valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale “Popolo delle libertà”, guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.
(commento uscito su l'Unità del 1° dicembre)
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