"Quando il signor nessuno ferì il corpo del re"
Ricordo il primo istante in cui vidi l’immagine: Berlusconi
colla bocca insanguinata e lo sguardo truce, come un pugile ferito. Sembrava un
fotomontaggio, la parodia di un film di zombi. Cliccai su un giornale on-line
per trovare conferma, e rividi quel primo piano che era già un’icona pop, un
evento estetico prima che politico e di cronaca. Abituati al flusso continuo di
pose, studiate e intinte di cerone, il volto offeso e per questo inaudito
dell’uomo più potente d’Italia, intriso di sofferenza e di odio, e soprattutto
di sangue rosso e comune, ci colpiva più della più stramba installazione
d’arte, più del meteorite di Maurizio Cattelan che schianta e mette in
ginocchio papa Woytila, o del cavallo conficcato nel muro. Il volto di
Berlusconi era per una volta nudo, un volto che soffre (s’offre), utopia
di una comprensione (una conversione?) che non sarebbe ahimè mai avvenuta.
Anzi, la paura che provai guardando quelle foto era per la violenza ulteriore
che quel volto sembrava promettere, paura
di scorgere nella smorfia della sofferenza un soffio algido di vendetta. (Più
tardi mi fece paura il non riuscire a esprimere liberamente il flusso di
pensieri e associazioni di idee che quella sequenza di immagini mi suscitava,
paura della mia autocensura; come se la politica e soprattutto il pensiero,
forieri di conflittualità, dovessero cessare in forza di quell’evento).
Abbinata a quella del potente insanguinato cogli occhi stretti a
fessura, anche dell’aggressore dilagò in tutto il mondo una foto che ne fissava
i lineamenti bonari stravolti dallo spasmo per divincolarsi dalla folla, gli
occhi atterriti - da sé, dal proprio atto, ma anche dall’altro, come se fosse
al cospetto della Medusa. Alla fine di un comizio gremito, nonostante le
guardie del corpo, un uomo assolutamente ordinario aveva gettato in faccia a
Berlusconi un souvenir (!) del Duomo di Milano. Sotto il peso e la pressione
dei corpi che lo sommersero, quando gli agenti lo portarono via salvandolo
dalla piazza, l’uomo aveva ripetuto una frase indimenticabile: “Non sono
niente, io non sono nessuno”.
Lessi che era un ingegnere di 42 anni (in realtà aveva solo il
diploma di perito elettronico), in cura da anni per problemi psichici, e che
quindici anni prima aveva avuto un momento di relativa notorietà per aver
brevettato dei “quadri musicali”: “Coniugando la passione per l’elettronica con
il gusto per l’arte astratta, M. T. realizzò piccoli quadri che si illuminavano
di luce colorata diversa ogni volta che nella stanza in cui erano appesi si
ascoltava della musica”. Che l’aggressore avesse rapporti con l’arte astratta -
quella che il fido ministro dei Beni culturali Bondi, come aveva ripetuto
spesso, e a volte addirittura con candore, non capiva e disprezzava - era forse
un’aggravante. Malgrado la sua arma improvvisata a me sembrava inerme, mi
sembrava anzi la vittima assoluta.
Tre anni dopo cammino a Milano nella piazza del Duomo, che non è
solo il davanti sterminato invaso dai piccioni, quello di Totò e Peppino col
colbacco nel famoso film, ma è anche il lato sinistro col severo Arcivescovado,
il lato destro colle vetrine della Rinascente e degli stilisti, e si chiama
Piazza del Duomo anche lo spazio sul retro, dove l’antica chiesa di S. Maria
Annunziata in Camposanto fronteggia l’abside del Duomo. Mi siedo qui, in un
caffè fighetto ma riscaldato, vicino al negozio di articoli sportivi e
magliette delle squadre di calcio, Milan compreso, tra il negozio Intimissimo e
la libreria San Paolo, dove sotto l’insegna FOOTBALL TEAM Silvio Berlusconi la
sera del 13 dicembre 2009 stava in piedi con la faccia ferita tra le auto della
scorta a scrutare nel buio. In questa parte di piazza arrivano nuvole di suoni
ovattati che ricordano il brusio delle spiagge d’estate: è la folla solitaria
dell’ininterrotto shopping nella luce livida di un sabato d’inverno, dispersa
in mille rivoli di solitudini ma omogenea nei consumi; e penso alla folla
adorante che si radunò quella sera di dicembre ad ascoltare Berlusconi alla
festa del Popolo della libertà. Fu un comizio intenso e aggressivo,
inaspettatamente contestato da un gruppetto di giovani: anche nella folla più
uguale possono esserci variabili “impazzite”. Quando il presidente scese dal
palco sul retro, dove si formò il capannello di intimi e audaci, nel brulichio
di braccia e di corpi spuntò per caso Massimo Tartaglia, che si trovò di fronte
al Presidente. Il modellino del Duomo l’aveva comprato lungo la strada…
Sappiamo come è andata: Massimo
Tartaglia è colui che ha lanciato contro il re un giocattolo, come un bambino contro il padre o
la madre. A questo si riducono la protesta politica e la critica? Il fatto che,
come qualcuno scrisse, “siamo tutti Massimo Tartaglia”, penso che non
significasse propensione alla violenza, ma la messa al bando della politica. Si
è infantili oppure malati, e ai bambini si danno le sculacciate, ai matti le
pasticche: così, da anni, viene gestito il conflitto, o quel poco che emerge,
mentre la politica abdica a se stessa e alla conflittualità. Ma ogni tanto
trovo su Internet questa domanda carica di dietrologie: “che fine ha fatto
Massimo Tartaglia?” Nessuna fine, ma una quotidianità umile e ordinaria, fatta
di rinunce, libertà vigilata, degenza e cura in una comunità terapeutica,
dichiarazione di “pericolosità sociale”, obbligo di residenza in un comune
dell’hinterland milanese (i “domiciliari”), frequentazione obbligatoria di un
centro diurno psichiatrico. Nel frattempo (Galeotto fu Tartaglia), a causa del
suo gesto Berlusconi ha incontrato alla clinica San Raffaele, dove si curava la
bocca l’igienista dentale Nicole Minetti, che ha intrapreso da allora una certa
carriera politica e dalla quale consegue parte delle vicende che hanno portato
allo scandalo della prostituzione minorile, alla rivelazione del bunga-bunga e
al processo per concussione del presidente, forse addirittura alle sue
dimissioni. E al suo conseguente recentissimo revenir, come in francese si dice dei fantasmi: revenant, colui che ritorna (mi
piacerebbe molto intervistarlo su questo).
In effetti non sono andato a Milano soltanto sul luogo
raffreddato del delitto, ma per far visita a Massimo Tartaglia a Cesano
Boscone, paese per certi versi struggente
alla periferia di Milano, dove lui vive. La sua storia mi ha distratto, per empatia, dalla
stesura finale di un romanzo horror, dandomi il desiderio di raccontarla. (Poi
ho pensato che in fondo non sono opere dissimili – entrambe, l’horror
soprattutto, descrivono l’iperrealtà del nostro presente).
Assolto il 29 giugno 2010 perché giudicato non imputabile,
Massimo Tartaglia sta ora molto meglio, e dice di sé: “nella malinconia e nelle
mie restrizioni, io sto bene”. La sua condizione di libertà vigilata e di
“pericolosità sociale” mi avevano impedito di incontrarlo. Ci siamo scambiati
lettere sui suoi quadri (“stile Pollock”, come dice lui), sulla mostre che
visitavo io e quelle che visitava lui col centro diurno (“Renoir a Pavia, poi
pranzo in un agriturismo”), sulla speranza di abbassare il dosaggio dei suoi
farmaci, sui laboratori che frequenta, dalla lavorazione della creta alla
psicoterapia di gruppo. L’ultima udienza ha sancito che il sabato e la domenica
è libero di girare nel comune di Milano e in quello di Cesano Boscone (tutto il
resto della provincia, e del mondo, escluso).
Eccomi con Massimo Tartaglia in via Dante, nell’unica strada
pedonale e lastricata di porfido del minuscolo centro storico di Cesano,
silenziosa come una domenica svizzera, in un bar che offre una varietà di caffè
con la cioccolata che beviamo parlando di fronte a due vetrine, quella dell’estetista
“Le vie del benessere”, col manifesto che reclamizza “L’alba della bellezza”; e
quella del negozio di abiti e confezioni con dei cappotti grigi appesi. C’è un
sole pallido da qualche parte, come la voce pacata di Massimo, sfibrato dai
farmaci, che parla con parsimonia, nessuna parola inutile. Non ha mai fatto
politica. Ma nel periodo precedente al suo gesto “sentiva di vivere come un
film nella realtà, un film della
realtà”: serate passate a indignarsi davanti ai talk-show politici in tv.
Riteneva come tanti che il responsabile della spettacolarizzazione della
politica fosse lui, Berlusconi, un leader immorale che faceva cose indegne del
suo ruolo istituzionale e internazionale, come certe battute contro le donne,
le offese agli Italiani quando diede dei ‘coglioni’ a chi non lo votava. Era
come se il successo, la ricchezza, l’arroganza e il disprezzo delle regole che
Berlusconi ostentava, lo avessero sfregiato, perché Massimo Tartaglia è,
all’opposto, un onesto e talentuoso perdente la cui vita è costellata di
insuccessi, dal voto minimo alla maturità (per problemi di salute), al non
trovare lavoro.
Verso i
trent’anni costituì con un amico una società di assemblaggio elettronico che si
occupava anche di riparazioni di macchine timbra biglietti, nastri
inchiostrati, schede elettroniche, con la supervisione del padre. Nel 2005
registrò il brevetto italiano di invenzione industriale coi suoi “quadri
musicali”, esteso nel 2006 all’Europa: “il peggiore investimento della mia
vita”, dice. Oggi quei brevetti sono scaduti, ma considera i suoi quadri
musicali “una pacchianata superata dalla tecnologia: non so nemmeno come ho
fatto a crederci tanto allora, forse per via del riconoscimento avuto
dall’Obiettivo ICT (del Politecnico di Milano), che mi selezionò dandomi
l’input per proseguire, ma senza investitori è stato tutto fumo e niente
arrosto”.
In dicembre
2009 aveva abbandonato la “presa della Pastiglia”, scherza Tartaglia, era
quindi scoperto e ipersensibile. Quel giorno era nuvoloso, e lui depresso e
nervoso, la ragazza conosciuta da poco gli aveva dato buca, era andata in
montagna con un altro. Seppe dalla tv dell’adunata per il tesseramento del
Popolo della Libertà, e quasi senza accorgersene si incamminò verso il centro.
C’era una musica a volume altissimo che intontiva, come nelle vendite multilevel
che aveva conosciuto frequentando corsi e incontri di tecniche di vendita, le
stesse adottate nei comizi. Ma si stufò presto di ascoltare, stava per
andarsene alla metro facendo il giro del Duomo quando lo richiamarono le urla
dei contestatori. Tornò passando dietro al palco, di fianco all’abside del
Duomo. “Non l’avessi mai fatto: c’era la macchina del Presidente già disposta
per andarsene, e Berlusconi giù dal palco a farsi un bagno di folla, dare la
mano alla gente, proprio verso di me; e io, lì in mezzo alla folla, la musica
che inneggiava al Popolo della Libertà portata all’apice, io mi sono
suicidato…”
Tartaglia
scrisse in seguito una lettera di scuse a Berlusconi, dicendo tra l’altro di
avere compiuto quel gesto come atto simbolico nei confronti di una persona che
avrebbe potuto essere suo padre. “Una sorta di suicidio rivolto alla causa
presunta dei miei problemi”.
Sulla main
street di Cesano Boscone, che sfocia sulla Vigevanese, una strada trafficata e
rumorosa coi marciapiedi larghi, supermercati con parcheggio e grandi pizzerie,
Massimo mi confida il suo sogno di fare volontariato al Centro Recupero Animali
Selvatici del WWF: “dare un aiuto ai più deboli, a chi è in difficoltà, per
esempio aiutare a restare nella natura un rapace sparato a cui abbiano rotto
una zampa”. Il problema è che è ancora in libertà vigilata, e il servizio
sarebbe in un bosco fuori dal suo comune di residenza. Mi parla di un’aquila
reale a cui un cacciatore aveva sparato alle ali, che “invece di essere stata
soppressa è nella gabbia didattica, come un pollo, senza un’ala, anche se le
zampe e gli artigli sono ancora robusti”.
Nel nuovo
parco Pertini, una grande distesa d’erba cinta da alberi che mi ricorda il
parco di Blow up, mentre i bambini giocano sui prati Massimo
continua a raccontarmi: “Subito dopo il mio gesto, i nostri sguardi si sono
incrociati una volta, quello di Berlusconi era molto minaccioso…” “…In Questura
ho ripetuto che non ero nessuno, poi sono scoppiato a piangere”...
Venerdì di Repubblica, 21-12-2012, Beppe Sebaste (frammento di un romanzo in corso)
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