“La fotografia, al di là di tutte le spiegazioni
critiche e intellettuali, al di là di tutti gli aspetti negativi che pure
possiede, penso che sia un formidabile linguaggio visivo per poter incrementare
questo desiderio di infinito che è in ognuno di noi” (Luigi Ghirri). “Ogni mia
opera, per estensione, è una fotografia: implica un’ottica fotografica, anche
quando non lo è materialmente (nel senso che fotografa un gesto, una distanza o
perfino un’assenza), tende cioè ad illustrare il momento di eternità dell’immagine.
Fotografia e disegno sembrano insomma condividere l’attitudine - che vorrei
chiamare vocazione - a far trasparire: la trasparenza non ha fine, tende
all’infinito, non fa ‘immagine’ ma fa ‘immaginare’, vedere sempre al di là
del limite contingente” (Giulio Paolini).
Luigi Ghirri, fotografo reggiano che l’anno prossimo
avrebbe settant’anni (ma è morto nel 1992), e Giulio Paolini, artista
quasi coetaneo, genovese trapiantato a Torino, non ebbero mai l’occasione di
conoscersi, e ora per la prima volta si incontrano, e felicemente, in una
mostra a
Milano, “La soglia dell’invisibile”, nell’appena inaugurata galleria Repetto Projects, via
Senato 24 (fino al 17 novembre).
Le citazioni riportate sopra, suggerite del curatore Daniele De
Lonti (già assistente di Luigi Ghirri), guidano il visitatore: 12 fotografie di
Ghirri tratte dal ciclo Kodachrome (1978), suo primo
libro (di cui si annuncia una nuova edizione), si combinano sapientemente,
rivelando allusioni “casuali” e illuminanti, con 12 collages di Paolini, sia
recenti che degli anni ’70. Il non ultimo senso di questo incontro, per noi
ammirati spettatori, è anche nel ricordare e affermare, oggi, la comune origine
concettuale, d’avanguardia, dei due artisti. In un’epoca di eclissi del
pensiero, dove tutto è possibile a patto che sia superficiale e senza impegno,
sul modello di fluidità narrativa della fiction, la loro rigorosa riflessione
linguistica sull’immagine è più che salutare: necessaria. La loro pensosità -
più nota ed evidente in Paolini, occultata dal successo e dal retorico cliché
che ha fatto di Ghirri un fotografo del “paesaggio” – denuncia in modi non
dissimili l’omologazione del visibile e quella del territorio (nessuno è più
capace di vedere niente del mondo esterno, diceva Ghirri alla fine degli anni
’80).
La mostra è un dialogo tra due artisti che non esitano a interrogare e trasformare di continuo sia i propri tradizionali strumenti di lavoro che la storia dell’arte, la storia delle immagini del mondo, travalicando i confini di fotografia e pittura. Due maestri del vedere, nel senso stretto e autentico della parola, due maestri del dire e immaginare mondi, d rendere cioè infinito il mondo nella finitezza dell’immagine. Entrambi amici di scrittori (di Paolini ricordo il bellissimo libro einaudiano anni ’70, Idem, col testo di Italo Calvino, e il recente L'autore che credeva di esistere, edito da Johan & Levi), proprio come la scrittura inquadrano e racchiudono pezzi di mondo nelle loro opere-cornici, sapendo che esse stesse sono mondo. “Non c’è nulla fuori dal testo”, enunciava con serissima ironia Jacques Derrida nel 1971: per quanto fare arte sia fare cornici, non c’è un fuori dell’immagine, come non c’è un fuori testo, e l’infinito è lì, se lo sai vedere, appeso a una parete o nella pagina di un libro.
La mostra è un dialogo tra due artisti che non esitano a interrogare e trasformare di continuo sia i propri tradizionali strumenti di lavoro che la storia dell’arte, la storia delle immagini del mondo, travalicando i confini di fotografia e pittura. Due maestri del vedere, nel senso stretto e autentico della parola, due maestri del dire e immaginare mondi, d rendere cioè infinito il mondo nella finitezza dell’immagine. Entrambi amici di scrittori (di Paolini ricordo il bellissimo libro einaudiano anni ’70, Idem, col testo di Italo Calvino, e il recente L'autore che credeva di esistere, edito da Johan & Levi), proprio come la scrittura inquadrano e racchiudono pezzi di mondo nelle loro opere-cornici, sapendo che esse stesse sono mondo. “Non c’è nulla fuori dal testo”, enunciava con serissima ironia Jacques Derrida nel 1971: per quanto fare arte sia fare cornici, non c’è un fuori dell’immagine, come non c’è un fuori testo, e l’infinito è lì, se lo sai vedere, appeso a una parete o nella pagina di un libro.
(articolo pubblicato su l'Unità di domenica 4 novembre 2012)
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