10/31/2010

La scuola è finita (ma non c'è via d'uscita)

   Un senso crescente di fallimento, anzi di disperazione. A ogni barlume di buona notizia o temporanea quiete, la paura quasi fisica che tutto precipiti nello schianto finale. Non c’è redenzione. Chi dovrebbe salvare dalle sabbie mobili sta egli stesso sprofondando, e mostra il peggio di sé. Tutt’intorno squallore, rinuncia. Peggio: abitudine. Tranne quel cieco, burocratico andare avanti esercitando il potere piccolo e gratuitamente oppressivo dei carcerieri indistinguibili dai carcerati. Nessuno crede a ciò che fa, e si inacidisce a imporlo. Se l’Inutile fosse una divinità, sarebbe la religione ufficiale. Nessun colpevole o responsabile del mefitico ristagno, ma concorso di tutti, come in certi gialli di Agatha Christie; ma qui non riguarda una stanza chiusa, chiusa e strozzata è la vita stessa, ogni orizzonte. La vita di chi deve ancora imparare a viverla, la cui ribellione e rifiuto a oltranza è in realtà un disperato alzare la posta in cerca di un’autorità da riconoscere. Sto parlando degli effetti del genocidio culturale, napalm versato sulla vita, di fronte a cui ogni protesta sul red carpet di un festival di cinema è folklore di lusso. Sto parlando della scuola, quella vera, in macerie, che nessuna fiction tv ha mai mostrato, coi buchi nei muri delle aule. Studenti che abitano case prive di libri, insegnanti che ai libri non credono più: noia contro noia. Nell’anestesia e insensatezza generale, il raro sogno di una liberazione, di un’estetica, ha la forma della musica che libera il corpo, o di una pasticca colorata. Sto parlando del film La scuola è finita del regista e insegnante Valerio Jalongo, ambientato nell’Istituto “Pestalozzi” di Roma, come il grande pedagogo (oggi fantascienza). E tanto peggio se la bella crudezza della prima parte del film venga anch’essa alla fine inghiottita dal vortice sentimentale di una fiction tv. Valga come autodenuncia della colonizzazione della nostra anima, della strozzatura dei nostri sogni.

10/27/2010

Torna "Pesca alla trota in America" di Richard Brautigan

di: Rock Reynolds & Beppe Sebaste    

   Qualcuno ha pensato che tutte le speculazioni fatte in vita (e soprattutto in morte) sulla personalità di Richard Brautigan non si avvicinassero neppure lontanamente all’intima verità, e ha pensato di costruire un archivio online che rendesse giustizia allo scrittore e, soprattutto, all'uomo (http://www.brautigan.net). Le foto che lo ritraggono nelle varie fasi della sua vita ce lo tramandando nei panni di uno studentello, di un bohémien scherzoso, di una specie di intellettuale da Far West, di un uomo dall'animo tormentato. C'è un’immagine splendida che ha fatto il giro del mondo ed è così che ci piace ricordarlo: con gli immancabili baffoni, l’eleganza di un dandy di frontiera, il cappellaccio e una vecchia macchina da scrivere.

   Nato nel 1935 a Tacoma sulle coste settentrionali del Pacifico statunitense - l’ambiente impervio e selvaggio che trasmise energia primordiale ad altre personalità travagliate come quelle di David Lynch, Jimi Hendrix e Kurt Cobain, per citarne solo alcuni - Richard Brautigan incarnò appieno il travaglio del classico “white trash”, la frangia più diseredata della società americana bianca, quella costretta (ma siamo sicuri che si tratti di una forzatura?) a vivere tra roulotte e rimorchi. Non ebbe una vera famiglia, non menzionò quasi mai parenti nelle rare interviste concesse, ed entrò a 19 anni in un ospedale psichiatrico, ironicamente lo stesso in cui anni dopo Milos Forman avrebbe girato Qualcuno volò sul nido del cuculo, dal romanzo di Ken Kasey. Quando uscì, tre mesi dopo partì per San Francisco, dove conobbe Ferlinghetti e gli altri poeti beat, ma legandosi in amicizia soprattutto col grande poeta Jack Spicer, forse colui che gli assomigliava di più, e a cui Pesca alla trota in America è dedicato.
   Ecco il ritratto esclusivo che di Brautigan ci dà Peter Beagle, un altro grande interprete misconosciuto del sogno a stelle e strisce, un sogno di vite errabonde, di motel da quattro soldi, compagnie occasionali, armonie cosmiche e cadenza blues, quello narrato in Una lunga strada da fare: “Era un uomo strano, triste, dall’infanzia terribile, segnata da povertà e fame, una madre che passava da un uomo all’altro, un padre biologico conosciuto poco prima di morire, una vita sentimentale travagliata, pochi anni di popolarità per essersi trovato nel posto giusto quando il suo stile era quello giusto, prima di finire nuovamente in un anonimato sancito ancor più dalle circostanze della sua morte: il rinvenimento del suo cadavere parecchio tempo dopo il suicidio. Pesca alla trota in America è la sua opera migliore. C’è un gruppo rock che porta quel titolo e conosco almeno due persone che sono state chiamate in quel modo. Non sono un fan delle sue poesie, così come non vado pazzo per quelle di Raymond Carver – malgrado lo adori – ma quando era sobrio e in giornata (Brautigan è stato alcolista quasi tutta la vita), sapeva scrivere ai massimi livelli. C’è un aneddoto su Richard – o meglio sulla sua assenza – che mi va di raccontare. Sul finire degli anni ‘60, quando lui era ai massimi della fama, venni invitato a tenere un seminario di scrittura a Boulder, Colorado, insieme a Brautigan, la star dell’evento. Non feci in tempo ad assistere alla sua lettura, ma l0’indomani lui, io e un poeta che si chiamava Charles Wright saremmo dovuti apparire insieme a una tavola rotonda, però Richard non si presentò: prese i soldi e si eclissò. Il posto era zeppo di persone intervenute solo per lui e il rischio era di venire massacrati, ma mi venne un'idea geniale... Mi misi d’accordo con Wright. Salimmo sul palco e dicemmo al pubblico che era venuto il momento di svelare la verità: non esisteva nessun Richard Brautigan e noi due ci eravamo inventati la sua personalità artistica per scrivere sotto falso nome, creando un mito. Risero tutti e io e Charles ci rivolgemmo l'uno all'altro con il nome di Richard. Mi domando se il vero Richard lo sia mai venuto a sapere...”
   Brautigan ottenne la consacrazione e il successo con la pubblicazione di Pesca alla trota in America (1967), che da domani torna in libreria nella traduzione di Riccardo Duranti. E’ un libro jazz fatto di variazioni sul tema, associazioni di idee, memorie, aneddoti e storie che incantano e producono nel lettore uno stato di beatitudine. Non parla di canne da pesca, né di mulinelli, né di trote, ma di amori e di solitudine, di bar e di strade, e di alcool, e soprattutto dell’America. La sua America, come disse il suo amico e collega Jim Harrison, era quella del centro degli Stati Uniti, quella cioè che si rischia di non vedere mai, di sorvolarla, presi come si è dalla smania di passare da una parte all’altra del paese. Il modo di raccontare di Brautigan come sempre rompe e deborda le cornici del racconto. Maestro riconosciuto delle short stories, ha attraversato la letteratura americana come una meteora, sperimentando forme letterarie libere e nomadi, irriducibili ai canoni e ai generi. Un’opera forse paragonabile, in Europa, a quella di Georges Perec, ma liberata dal peso della Storia e della cultura.
   Che gli amanti di Brautigan siano una grande famiglia lo si prova riconoscendosi quasi a pelle, come quando al festival blues di Piacenza ci ritrovammo sullo stesso palco noi, Ronald Everett Capps e suo figlio Grayson, Joe Cottonwood e altri. Ci si commuove e si ride delle sue pagine che dicono la vita così com’è, delle sue frasi così sorprendentemente ricche di inventiva e poesia, delle sue trame narrative bislacche e sfilacciate, delle sue divagazioni, gag strampalate, battute di spirito fulminanti, risate, sogni, attese. In Brautigan la vita è stramba e dolorosa, e fa decisamente ridere anche quando sembra spezzarci il cuore.

(su l'Unità di giovedì 28 ottobre 2010)

10/24/2010

"Poi"

  
Se col termine stakeholder si intendono i soggetti “portatori di interessi” nei confronti di un’impresa economica (clienti, fornitori, finanziatori, collaboratori ecc.), Roberto Saviano nell’ultimo capitolo di Gomorra forniva un quadro differente: gli stakeholder, laurea in economia e master all’estero, sono i mediatori tra la camorra e le aziende, “geni criminali dell’imprenditoria dello smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi, figure d’impresa coinvolte nel progetto economico e che con la loro attività sono direttamente o indirettamente in grado di influenzarne gli esiti”. Mi turba descrivere con termini tecnocratici un crimine contro l’umanità come la trasformazione della Campania felix, la terra più feconda del pianeta, in una discarica che irradia veleni e tumori, ma lo stesso Saviano spiega che per il camorrista la vita è cosa di breve durata, importa solo il presente, al massimo un futuro prossimo. Non c’è un futuro, non c’è un poi. Ora, è la stessa mentalità del tipo antropologico creato del berlusconismo, con la sostituzione ad esempio dell’idea di comunità in quella di immunità, la pretesa di non morire (mai), l’annullamento del passato e del futuro nel perpetuo presente sul modello della tv. Il fascismo mediatico, impropriamente detto soft, è esso stesso un crimine contro l’umanità dell’uomo.
   Io mi occupo di estetica, e sono a Bari per parlare di una mostra, tra le più belle e commoventi che abbia mai visto, del fotografo Gianni Leone, già amico e sodale di Luigi Ghirri. Si chiama “Poi”, avverbio e deittico (dopo, in seguito) ma anche sostantivo (il poi). La mostra (catalogo Diabasis) racconta un viaggio intensivo tra gli oggetti di una casa, esplora uno spazio chiuso dilatando con esso il tempo, ci insegna l’infinità dei mondi racchiusi in una vita, e che non esiste “io” senza “l’altro”, né senza un “poi”. Vi prego, fatela girare.

(rubrica "acchiappafantasmi" di oggi, su l'Unità)

10/23/2010

"Naufragio con spettatore" - La nuova mostra di Claudio Parmiggiani

Siamo verso le cinque del pomeriggio davanti alla chiesa sconsacrata di San Marcellino, all’angolo di un vicolo del centro storico di Parma. La bellissima facciata sembra un libro, un volume rinascimentale, dico. “Sembra un trattato di Leon Battista Alberti”, dice Claudio Parmiggiani. Entriamo dalla piccola porta e ci troviamo in una silenziosa penombra: un fascio di luce in alto a sinistra illumina l’abside da cui, al posto dell’altare e della cattedra, punta verso di noi un vascello sorretto e come trattenuto da libri. Un gozzo maestoso di 12 metri, costruito da un maestro d’ascia ligure dell’inizio del secolo scorso, arenato, su e tra centomila volumi che formano un blocco compatto e invalicabile. L’impressione è fortissima, e mentre scrivo mi viene in mente l’uccello marino di Baudelaire, quel “re dell’azzurro” imprigionato da marinai sulla tolda di una nave, goffo e inadeguato ora che la sua eleganza e potenza è resa invisibile dall’esilio e la cattività. Non è forse questa l’immagine inaugurale dell’arte contemporanea?

   Naufragio con spettatore (come il libro ormai classico del filosofo Hans Blumemberg) è il titolo della mostra di Claudio Parmiggiani che si inaugura oggi a Parma, ed è la prima volta, mi dice l’artista nel nostro sopralluogo qualche giorno fa, che fa una mostra così importante vicino al luogo in cui vive (una casa sulle colline di Parma). Con pudore mi dice che questo allestimento è stato una vera traversata. C’è tutta la sua opera, ma anche gli spazi museali, una successione di stanze al secondo piano del Palazzo del Governatore che ospitava una volta gli uffici comunali, sono stati restaurati seguendo le indicazioni dell’artista, non nuovo alla progettazione dei luoghi in cui espone.

Che la vita sia un viaggio nel “gran mare dell’esistenza” (Platone, Fedone), è tra le metafore più usate dall’antichità. La vita è incertezza, la sua rotta sempre esposta al naufragio, da Enea al Titanic. Il naufragio ha ispirato ai pittori una galleria colma di voluttà, da Turner a Friederich (di cui Parmiggiani mi ricorda il “naufragio della Speranza”, ovvero il “Mare di ghiaccio”), da Géricault a Delacroix; ha ispirato scrittori e poeti da Omero a Virgilio, dal Robinson Crusoè al Gordon Pym di Edgar Allan Poe, e oltre. Cosa sarebbe un viaggio senza la possibilità del naufragio, del non arrivare in porto: l’essenza della vita non è quando, per fortuna, non va secondo i nostri piani e ci sorprende? “Naufragio” ha almeno due sensi: quello di “affondamento di una nave in mare per eventi avversi, per incagliamento o altro”, e quello figurato di “evento rovinoso, sventura, fallimento”. Penso al “Fallire. Non importa. Provare di nuovo. Fallire meglio” di Samuel Beckett (ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better). E mi viene in mente che già in un altro scritto paragonavo la poetica e la qualità ascetica del silenzio a voce alta di Parmiggiani a quello di Beckett (http://beppesebaste.blogspot.com/2008/01/se-cerchi-la-civilt-chiedi-alla-polvere.html)
   Come quella di Beckett, l’essenzialità e la risonanza mentale dell’opera di Parmiggiani si compone di materiali nudi e umili - polvere, cenere, fuliggine, legno, ferro, gesso - a disegnare un paesaggio di rovine. Parafrasando il titolo di una sua opera, un teatro della civiltà e della sua sparizione. Le urne di cenere sul pavimento bianco, le forme di pane fuse in ferro, il cappello di panno albergato da lievi farfalle colorate, l’enorme àncora che trapassa le pareti e allude alla fine del viaggio (il naufragio), realizzano quegli ossimori che, simili a koan (il “rompicapo” Zen che modificare e allarga il concetto stesso di comprensione), hanno l’intensità di preghiere e rituali. Vale per le sue perturbanti “delocazioni”, di cui una, creata appositamente, resterà nelle sale espositive di Parma. E’ plasmando spesso fantasmi che sono tutt’uno con la materia che per Parmiggiani il luogo diventa l’opera, e da fisico diventa mentale, pulsando vita con “una voce, un cuore che batte dentro lo spessore dei muri”.

   Percorro dunque con lui le sale, assisto ai lievi aggiustamenti, nella luce declinante ma ancora diurna. Nasce in questo percorso l’idea che il museo dovrebbe silenziare ogni illuminazione artificiale e lasciare spazio alle ombre, solo luce naturale, a costo di chiudere in inverno alle 17 anziché alle 19. Dalle finestre che si affacciano sulla Piazza Garibaldi si insinua a volte il brusìo del popolo del sabato a sottolineare il silenzio delle opere, “rifiuto e reazione a quel linguaggio inaccettabile che fa del clamore, del gratuito e della superficialità il principale obiettivo artistico”. Ha detto ancora Parmiggiani: “Quale spazio, quale senso cerca oggi un’opera? Che cosa significa esporre? Che cosa significa fare arte oggi? Il problema dello spazio dell’opera significa non solo porsi il problema di un spazio formale, estetico ma anche e soprattutto quello di uno spazio etico, politico, dentro il quale l’opera andrà a situarsi”.
   Ripenso al vascello naufragato nella chiesa di san Marcellino: "naufragio con spettatore" è in fondo una definizione non solo della filosofia, ma dello stato dell’arte. Ispirandosi al Lucrezio del De rerum natura - “Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina / ma la distanza da una simile sorte” - Blumenberg scrisse che la modernità ha inizio con una scelta di campo: essere nomadi e avventurosi, a rischio del naufragio; restare a riva, spettatori stanziali dei naufragi altrui (come alla tv, tra una pubblicità e l’altra). Esiste però anche l’esperienza di essere insieme nàufraghi e spettatori di se stessi - poetica di cui sono forse precursori l’ode al sogno, “il naufragar m’è dolce in questo mare” di Leopardi, e il paradosso del superstite beato di Ungaretti (Allegria di naufragi, 1917): “E subito riprende / Il viaggio / Come / Dopo il naufragio / Un superstite / Lupo di mare”. E’ il mio augurio. Buon viaggio, Claudio.

(Articolo uscito col titolo "Nel gran mare della vita" (e qualche refuso) su l'Unità di oggi. La mostra di Parmiggiani si inaugura oggi, ore 10 del mattino, e sarà aperta fino alla fine di gennaio, e oltre).

10/20/2010

Sebaste ucciso in uno scontro a fuoco dalla polizia (una storia vera)

Che uso fare di questa storia? Sono certo che un uso lo farò di certo. Intanto questa storia è mia, dal momento che l'ho appena scritta qui...

CHARLOTTE, NC (WBTV) -
A man who was involved in a standoff with Charlotte-Mecklenburg Police was found dead inside his south Charlotte home early Friday morning.
The standoff happened at 115 Hollyday Court in south Charlotte at 11:13 p.m. as police were responding to a disturbance call.
Police were told [David Martin] Sebaste, 48, was outside his house cursing and honking his car horn. The caller told police Sebaste was also armed with a handgun.
When officers arrived at the scene, Sebaste allegedly pointed his gun at the officers and fired multiple shots, according to CMPD spokesperson Robert Fey.
"Fearing for his life, the officer immediately fired several rounds from his service pistol," Fey said. "The officer was not injured during the exchange of fire."
Sebaste ran into his home creating a standoff situation, forcing police to call in the S.W.A.T. team.
After several unsuccessful attempts to make contact with Sebaste, S.W.A.T. officers entered his home around 1:50 a.m. and found Sebaste dead.
The CMPD said Sebaste suffered a gunshot wound to his lower body. It is unclear if Sebaste was shot by the police officer or if he shot himself.
A neighbor told WBTV.com Sebaste had been harassing neighbors since early Thursday afternoon. The neighbor, who would only identify himself as "C.J." said Sebaste threatened to shoot him.
C.J. brushed off the threats initially until he said Sebaste became more aggressive.
"He pulled his car into the driveway, coming at the house, so I just called 911," C.J. said, "I was just scared for my family."
C.J. said he ducked for cover as the shots were being fired.
"I wasn't looking to see who shot first," he said.
The officer involved in the shooting, Patrick Howell, has been placed on administrative leave pending the outcome of the investigation which is standard procedure. Howell was hired by CMPD in January of 2008.
(Copyright 2010 WBTV. All rights reserved)

P.S. Altre dubbi e interrogativi sulla polizia che ha ucciso Sebaste: http://www.charlotteobserver.com/2010/10/18/1769746/police-shoot-15-year-old.html

10/17/2010

Silenzio "ad alta voce"

Mentre a Roma si svolgeva la forte, pacifica e sacrosanta manifestazione della Fiom, a Bologna la gente si radunava in vari luoghi e orari ad ascoltare scrittori che leggevano testi (di altri scrittori) per la decima edizione della rassegna “Ad alta voce”, quest’anno sul tema della memoria. Una cerimonia civile e comunitaria, lontana dalla passività del virtuale e della televisione, in cui ho ascoltato testi di Sebald, Gramsci, Bunuel, Arendt e tantissimi altri. C’ero anch’io, nel cortile-giardino antistante il Museo della memoria di Ustica. Con l’aiuto delle voci di due amici (Lisa Bentini e Carlo Lucarelli) ho letto semplicemente l’elenco dei nomi delle vittime del lavoro del 2010, che ammontano a circa 350. Il nome, l’età, e la litania agghiacciante delle cause delle morti bianche: soffocato in una cisterna, schiacciato da un muletto, travolto da una pala, soffocati dalle esalazioni del gas di un silos, caduto da un’impalcatura, schiacciato da una putrella, fracassati dagli ingranaggi di..., e così via, le parole si ripetono con poche tragiche varianti, mentre le voci si sovrapponevano. Ci siamo commossi: è quando si danno i nomi ai danni, cioè ai morti collaterali di una guerra, o peggio di una civiltà - una civiltà basata sul lavoro; è quando si liberano le storie dall’anonimato della Storia che ci accorgiamo dell’evidenza nascosta di ciò che diciamo “realtà”, con un effetto di svelamento che è quasi illuminazione. Ho fatto precedere il rosario dei nomi dalla lettura di una poesia, Zéinch minéut (“Cinque minuti”) del grande Raffaello Baldini, traducendo dal suo al mio dialetto. Dice la sua poesia che non si sente niente, se non state zitti, se non stiamo zitti tutti. Invita tutti a tacere: ecco, così. Però, dice alla fine, anche se stiamo tutti zitti “non si sente niente lo stesso, però / che roba, senti che roba a star zitti tutti”.

(rubrica "acchiappafantasmi" su l'Unità di oggi)

10/10/2010

Vissero infelici perché costava meno

("acchiappafantasmi" di oggi)

C’è questa frase di Leo Longanesi (per anni pensavo fosse di Flaiano): “Vissero infelici perché costava meno”. Dopo il sorriso provoca un cortocircuito che lascia una specie di livido, ma cosa significa? La prima tentazione è associarla al valore d’uso (“chi più spende meno spende”) contro l’alienata rincorsa del consumismo. Poi ti accorgi che la bestemmia cui la frase allude sta nell’accostamento tra due parole tra loro incommensurabili, felicità ed economia. Ho buttato la frase tra i miei conoscenti, ed ecco alcune reazioni: “E’ il manifesto del popolo italiano”. “La felicità è faticosa”. “L’infelicità non costa poco, a volte costa addirittura la vita, ma richiede coraggio”. “Decidere di imparare a essere felici costa fatica, implica un’educazione al rispetto di sé e degli altri”. Infine: “Sì, la felicità fa paura, rischi di sparirci dentro, e poi di cosa ti lamenti?” – detto con ironia verso il nostro attaccamento al dolore e alla paura. Si oscilla tra l’eroismo ascetico di un’infelicità critica e la percezione di un nesso tra la miseria morale italiana, la viltà e avarizia di un popolo attaccato al neg-ozio, sospettoso di tutto e nutrito di paura. Si capisce anche che è per “spendere meno” che si taglia sull’educazione, la cultura, la salute mentale, la bellezza e altre cose “inutili” (cosa rimane?). Eppure sospetto che l’annoso successo dell’impostore che occupa il posto di primo ministro (eletto da noi, anche se tutti negheranno di averlo fatto) sia dovuto a un desiderio inconfessabile e distorto di felicità, assente da tempo immemorabile nel “programma” (?) della sinistra.
Adesso mi viene in mente la frase del mio amico Fausto Taiten Guareschi, maestro Zen, “la vostra vita è troppo preziosa perché sia felice, perché sia spendibile facilmente”, e so che per lui in questa apparente rinuncia risiede la felicità più alta, l’unica.

10/05/2010

Il corpo del fantasma ("Spettri di Derrida")

   Sono usciti per gli Annali dell'Accademia del disegno di Valerio Adami gli atti del convegno "Spettri di Derrida" tenutosi a Napoli, Istituto di Studi Filosofici, l'ottobre dello scorso anno. Impossibile pubblicare qui il mio intervento-relazione (oltre 25 pagine), ma un brano iniziale sì, e anche l'ultimo breve paragrafo...
   Il testo ha per titolo "Il corpo del fantasma", ed è un percorso a tappe, una "hantologie", la chiamo, cioè un'antologia di fantasmi, quelli che ritrovo nel mio percorso testuale e di pensiero, letterario o filosofico che sia, ma da sempre e ogni volta anticipato dall'opera di Derrida...
Ecco comunque l'estratto da: Il corpo del fantasma:

[...]
In un’epoca in cui sempre più nettamente e violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura, il suo ingegno e la sua fama una sorta di barriera difensiva - sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare. Nel 2004 Derrida aderì a un appello “contro la guerra all’intelligenza” lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso – disse Derrida - “designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia”. Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del “presente vivente” con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes [...].

[...]
  Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che “The time is out of joint” (W. Shakespeare, Amleto I. v.). Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo - dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e “della specie” - si traggono soprattutto oggi le conseguenze. E’ il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli “Stati-fantasma”, come la mafia, il consorzio della droga, ecc. Scrive Derrida:
   “[I]l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto”. Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare, anch’esse “out of joint. Per quanto corrette e legittime, [...] sono tutte disaggiustate”. Fino a quella magniloquente di Gide, “Cette époque est déshonorée”. Altrettante versioni esistono in italiano.
   Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint (senza l’articolo). Interessante è la variante del traduttore italiano (Gianni Pannofino) per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: “Tempo fuori luogo”. Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi. Narra di quella situazione così letteraria (diciamo l’Unheimlich di Freud) del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie. Tralascio la trama. Ma il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei “mondi possibili”, è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell'homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come “sentirsi” a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, “infestare”, è una delle non tantissime modalità.
   Il “fuori luogo” dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida. E' lo spirito (Geist), del tempo. Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come quelli sull’ospitalità, appunto, o sul “dono”); l’essere clandestini come condizione ontologica (per di più, oggi in Italia, criminale, poiché “essere clandestini”, oltre a un pleonasma, è un reato). Il fuori luogo è il sempre altrove, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (e forse è per questo che abbiamo bisogno di una home page). E’ una dislocazione (o “delocazione”, come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e con le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla specularità, o spectrum, o speculazione e, da qui, dalla scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi). La disgiuntura, il “tempo fuori luogo”, dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, “faticosamente, dolorosamente, tragicamente, [di] un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia”. Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, forse anche leggendo Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un “guest-writer”.
   Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma – revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite. [...]

   [...]
   Accennavo prima a una nuova esperienza dell’abitare, che, mutuata da Derrida, è anche una nuova es   perienza del linguaggio, quella del revenant, testimone, forse homme des lettres. In realtà è un’esperienza molto antica. E’ quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del “parlare con i morti”, su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, “romanzo”, e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita - in différance - in Derrida (per esempio, nel primo straordinario capitolo di Spettri di Marx).
   Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo.
   Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è “la vita più intensa che sia possibile” (cfr. intervista a le Monde del 19/8/2004).
   Ma penso ora, in particolare, al Canto Undicesimo dell’Odissea. Penso a un testo come Circonfession.
   Parlare con i morti, incontrare fantasmi, è ciò che accomuna l’esercizio della filosofia e della letteratura fin delle origini. Per dirlo in una frase, una frase che compendi in un comune avvenire gli spettri di Derrida e i miei, né Ulisse né Dante, né Amleto, né Shakespare, né Marx, né Jacques Derrida, sarebbero stati capaci di ritornare a casa, se prima non avessero parlato con dei fantasmi. Né Enea, l’eroe della nostalgia irrimediabile e senza ritorno, sarebbe stato capace di reinventarsela. [...]