Ieri sera, a cena da Bernardo Bertolucci e poi davanti alla tv, confesso che eravamo un po' annoiati della - a tratti - pomposa banalità (dalla parte giusta della barricata, certo) di "Vieni via con me"... quando, come una folata di vento freddo, come una finestra che sbatte, ci è arrivata per telefono la notizia di Mario Monicelli. Triste e tragica, ma quanto vitale... Poco dopo, ancora a caldo, Bernardo ha voluto dirmi questa frase, che leggerete domani, credo, su l'Unità:
"Era l'ultimo, e ha tenuto duro sostituendo il piacere di fare film con quello di vivere la politica come un giovane, a tempo pieno. Per ricordare la sua modestia: una sera, a casa di Laura Betti, lo presentai a Mark Peploe: 'Mark, questo è il grande Monicelli'. Mario mi bloccò: 'Bernardo, queste sono parole che diminuiscono'".
Io lo ricordo la scorsa primavera alla scuola cine-tv "Rossellini" (dove mi onoro di insegnare), quando con energia invitò gli studenti a ribellarsi - ribellarsi - di fronte ai giornalisti beffati da una convocazione per una (falsa) conferenza stampa per presentare il sequel (falso) de "L'armata Brancaleone": "La nuova armata Brancaleone".
Ecco, forse non è poi così falso, l'armata Brancaleone siamo noi, lui, e sono tutti gli studenti che stamattina, da direzioni diverse e da numerose manifestazioni, convergeranno a Piazza Montecitorio, dove si decide sul massacro detto "Gelmini" dell'educazione e istruzione pubbliche.
Il link qui sotto è una traccia lasciata da mario Monicelli alla scuola Rossellini, alle proteste di questi strani giorni, ai giovani, a tutti noi della nuova armata Brancaleone: http://video.unita.it/media/Cinema/L_opera_di_Monicelli_contro_i_tagli_della_Gelmini_1368.html
11/30/2010
11/27/2010
Le cose che non servono a niente
(Questo è il testo della mia rubrica domenicale acchiappafantasmi che ho appena inviato all'Unità, in uscita domani. Quando l'ho finito anche sotto le mie finestre, un po decentrate, è passato un corteo di studenti giovanissimi, liceali. Li ho guardati con amore. Gridavano slogan civilissimi, poi hanno intonato Bella ciao. Guardate la foto a sinistra (non il titolo): libri come scudi. Oggi c'è una grande manifestazione a Roma, studenti e operai, si diceva una volta. E' a loro che dedico questo breve testo. Tra breve invece partirò, sfogliando la città, per una destinazione diversa, anche se vicinissima nello spazio - un luogo di preghiera e silenzio, del tutto fine a se stesso, senza teologia di nessuna sorta. In fondo,credo, è la stessa cosa, è lo stesso fare anima. Buona giornata).
Le cose che non servono a niente
Lo stesso giorno ho visto la bellissima immagine degli studenti in corteo che si fanno scudo con cartelli che hanno titoli di libri (da Petronio e Boccaccio alla Costituzione Italiana), e ho letto che in Parlamento l’on. Antonio Martino (Pdl) ha esclamato contro il centrosinistra: “Le università insegnano cose che non servono. Non vi vergognate di difenderle?” Confessione esemplare, quest’ultima, del conflitto di civiltà che qui evoco spesso (e che non è detto che oggi divida esattamente la “destra” dalla “sinistra”).
A cosa servono le cose che non servono a niente? E’ un buon titolo per una dissertazione che darei agli studenti delle scuole. Facciamolo, un elenco dell’inutile: leggere (tutta la letteratura), la musica, l’arte, il cinema, la filosofia, il teatro, la mistica, la bellezza, su su fino alle carezze, l’amore senza finalità procreative (col preservativo o senza), i gay, il pregare gratuitamente, per puro amore del divino. Tutto questo non serve a nulla, nulla che non sia se stesso. Un fine in sé, scriveva Kant dell’opera d’arte. Come la vita. Ma com’è che l’elenco delle cose che non servono a niente coincide con l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere, ed entrambi con tutto ciò che esula, quando non le avversa, dalle catene di montaggio e dalle spirali della guerra? Non è solo che ciò che non “serve” in realtà “regna”, suggerendo un’idea di sovranità o "signoria senza schiavi” che è tra le più belle utopie, o programmi politici, tra quanti circolavano negli anni ‘70. E’ che la politica stessa, senza questo orizzonte, non serve a nulla se non a confermare e giustificare l’esistente. L’otium, cultura e contemplazione, per gli operai; licei classici serali per tutti, per il gusto di studiare; sono esempi tra tanti di cose che contino davvero. Come i libri imparati a memoria, perché non se ne estingua la memoria, nella foresta in cui si rifugiano i lettori dissidenti in Farhenheit 451; gli stessi libri che costituiscono simbolici scudi agli studenti nelle manifestazioni di questi giorni. Questa loro semplice idea mi ha letteralmente commosso.
Le cose che non servono a niente
Lo stesso giorno ho visto la bellissima immagine degli studenti in corteo che si fanno scudo con cartelli che hanno titoli di libri (da Petronio e Boccaccio alla Costituzione Italiana), e ho letto che in Parlamento l’on. Antonio Martino (Pdl) ha esclamato contro il centrosinistra: “Le università insegnano cose che non servono. Non vi vergognate di difenderle?” Confessione esemplare, quest’ultima, del conflitto di civiltà che qui evoco spesso (e che non è detto che oggi divida esattamente la “destra” dalla “sinistra”).
A cosa servono le cose che non servono a niente? E’ un buon titolo per una dissertazione che darei agli studenti delle scuole. Facciamolo, un elenco dell’inutile: leggere (tutta la letteratura), la musica, l’arte, il cinema, la filosofia, il teatro, la mistica, la bellezza, su su fino alle carezze, l’amore senza finalità procreative (col preservativo o senza), i gay, il pregare gratuitamente, per puro amore del divino. Tutto questo non serve a nulla, nulla che non sia se stesso. Un fine in sé, scriveva Kant dell’opera d’arte. Come la vita. Ma com’è che l’elenco delle cose che non servono a niente coincide con l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere, ed entrambi con tutto ciò che esula, quando non le avversa, dalle catene di montaggio e dalle spirali della guerra? Non è solo che ciò che non “serve” in realtà “regna”, suggerendo un’idea di sovranità o "signoria senza schiavi” che è tra le più belle utopie, o programmi politici, tra quanti circolavano negli anni ‘70. E’ che la politica stessa, senza questo orizzonte, non serve a nulla se non a confermare e giustificare l’esistente. L’otium, cultura e contemplazione, per gli operai; licei classici serali per tutti, per il gusto di studiare; sono esempi tra tanti di cose che contino davvero. Come i libri imparati a memoria, perché non se ne estingua la memoria, nella foresta in cui si rifugiano i lettori dissidenti in Farhenheit 451; gli stessi libri che costituiscono simbolici scudi agli studenti nelle manifestazioni di questi giorni. Questa loro semplice idea mi ha letteralmente commosso.
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11/21/2010
Un Social Network dei valori
Ho visto The Social Network, il film. E’ la storia di un ragazzo con enorme intelligenza cognitiva e acuti problemi di comunicazione, soprattutto affettiva, per compensare i quali inventa e realizza la più grande piattaforma di comunicazione virtuale del mondo, Facebook, che è tale grazie all’adesione degli utenti che vi si consegnano. Il film inizia col dialogo disastroso con la ragazza che, al college, lo molla per la sua anaffettività; finisce quando anni dopo, multimiliardario come Berlusconi, le chiede l’amicizia su Facebook. Il ragazzo, adulto, non è guarito. Tra le righe del film spuntano le problematiche del copy-right delle idee e di quello della propria identità. Suscita altre domande, tipo: quale rapporto tra fallimento emotivo e successo imprenditoriale? Il “medium” non era già il “messaggio”?
Nel frattempo, qui da noi, in Tv un leader di destra e uno di sinistra hanno fatto l’elenco pericolosamente simile dei loro valori. Ma il vice di quello di sinistra, a Milano, si è dimesso perché alle primarie il popolo di sinistra ha preferito il candidato di sinistra. Il dimissionario del Pd è colui che anni fa invitò a sbarazzarsi della vocazione pedagogica del Pci per andare incontro alle aspettative della gente (stile Lega). Disastrosa stima degli orizzonti della “gente”, i cui valori sono sradicati, diserbati, da decenni di diseducazione televisiva, pubblicità che ha fagocitato la politica, vendita all’asta delle idee (le idee sottoposte ai sondaggi: se hanno successo si dichiarano, se no, no). La verità semplice che un partito di sinistra vince se è di sinistra (come uno di destra se è di destra), invece di dar gioia imbarazza. E mi dispera che non sia colta la vera differenza: che tutto è politica, il linguaggio, le battaglie culturali, l’educazione, il difendere le proprie scelte, il fare opposizione alla destra, non concorrenza: un diverso “social network”, ecco.
Nel frattempo, qui da noi, in Tv un leader di destra e uno di sinistra hanno fatto l’elenco pericolosamente simile dei loro valori. Ma il vice di quello di sinistra, a Milano, si è dimesso perché alle primarie il popolo di sinistra ha preferito il candidato di sinistra. Il dimissionario del Pd è colui che anni fa invitò a sbarazzarsi della vocazione pedagogica del Pci per andare incontro alle aspettative della gente (stile Lega). Disastrosa stima degli orizzonti della “gente”, i cui valori sono sradicati, diserbati, da decenni di diseducazione televisiva, pubblicità che ha fagocitato la politica, vendita all’asta delle idee (le idee sottoposte ai sondaggi: se hanno successo si dichiarano, se no, no). La verità semplice che un partito di sinistra vince se è di sinistra (come uno di destra se è di destra), invece di dar gioia imbarazza. E mi dispera che non sia colta la vera differenza: che tutto è politica, il linguaggio, le battaglie culturali, l’educazione, il difendere le proprie scelte, il fare opposizione alla destra, non concorrenza: un diverso “social network”, ecco.
(rubrica acchiappafantasmi, su l'Unità di domenica 21 novembre 2010)
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11/16/2010
Ogni cosa c'entra con ogni cosa. Conversazione con Gianfranco Baruchello.
1975-Jungkapital, Gesellenkapital, Machinenkapital (Il Capitale)
Lo studio di Gianfranco Baruchello è pervaso di quadri, disegni, carte, cartelle, libri e soprattutto oggetti, tutti pertinenti al suo lavoro di artista che definirò «enciclopedico». Il suo nomadismo, estensivo e intensivo, è come la sua conversazione: un’esperienza di «semiosi illimitata», come trovarsi in uno dei suoi grandi spazi costellati di «geroglifici», segni, «punti cosmogonici», «accidenti in un perimetro», punti di riferimento e di crisi insieme precisi e ambigui, rigorosi e (quasi) indecifrabili, dove perdersi e trovarsi sono alla fine sinonimi. Il fatto che tutto c’entri con tutto, in una concatenazione virtualmente infinita, è la posizione filosofico-estetica comune: l’unica cosa che “non c’entra”, mi dice Baruchello, l’unica frase e domanda da bandire, è proprio: ‘Cosa c’entra questo con quello?’ Il rigore di Baruchello è nel disegno; il mio, dice lui, è nelle parole, e nell’uso della mia fragilità, o apertura. Provo con lui la stessa sensazione che ebbi nello studio di Bruno Munari: non esistono materiali sterili, si può adoperare tutto, anche l’assenza. Ma l’opera di Baruchello è, in più, venata di una consapevolezza politica (come la ricorrenza del concetto di valore d’uso di Marx), e la sua poetica mi coinvolge strettamente: amiamo entrambi gli archivi, gli elenchi, gli oggetti trovati e smarriti, la filosofia, perfino l'I Ching. La sua «creatività di confine» conforta il mio essere borderline nello scrivere. «Vuol dire non essere negli elenchi, essere fuori dai canoni», mi dice. Più metodico di me, ha segnato sull’ultima pagina bianca di un paio di miei libri (Oggetti smarriti e altre apparizioni, e H.P....), con la sua calligrafia minuta («baruglifica», direbbe Paolo Fabbri) una mappa di parole-citazioni che lo hanno interessato, col numero di pagina. Alla sua unica vera domanda a me – come io gestisca il problema della metafisica, quale sia il mio «meccanismo del pensiero», detto con le parole di De Chirico sulla pittura, appunto, «metafisica» – rispondo gestendo questo dialogo.
Guardiamo sul computer una serie di immagini di suoi lavori, e scorrono a salti un’opera e una vita intensissime: Baruchello ha fatto tutto, e prima degli altri. Dalla Coscienza del presente (awareness), esposto la prima volta alla mostra che lanciò la Pop Art (la mostra New Realists, da Sydney Janis, a New York, nel 1962), poi la stele con i libri incollati e sepolti nel bianco, Partout le silence sous le mouvement (nello stesso anno), esposta a Parigi con i collage in una mostra (Collage et objets) in cui c’erano tutti, da Picasso a Man Ray, a Max Ernst e a Rauschenberg; al grande quadro sul Capitale di Marx e gli altri di corredo (accumulatori di energia, con riferimenti a Duchamp), ai numerosi libri, al film ormai storico con Alberto Grifi (Verifica incerta, nel 1964) e quelli – una settantina – da solo. Fino al lavoro agricolo-ecologico a Santa Cornelia, nella campagna intorno alla sua casa oggi non più casa ma Fondazione. Sullo schermo appare un’immagine in bianco e nero di quella terra arata:
Ecco, qui l’opera è il confronto fra l’agricoltura e l’arte, tra valore di scambio e valore d’uso del prodotto agricolo e quelli del prodotto artistico. Il contadino vende la sua cosa, però la mangia anche lui, l’artista vende la cosa e non la mangia, anzi non può proprio vivere se non fa l’arte: ecco le differenze di valore. Su questo concetto ho lavorato e fatto libri, come Agricola Cornelia s.p.a. e poi Io sono un albero. Questo, invece (guardiamo l’immagine di un filone di pane in una cassa piena di terra) è una parte di Nascita e morte del pane, azione in cui il pane nasceva dalla terra, poi veniva martoriato, legato, incatenato, imbottito di giornali, tagliato a metà, e a un certo momento moriva, scompariva nella terra.
L’hai seppellito?
Sì, alla fine scompare nella terra. In altre azioni ho lavorato sui miti agresti, dal sacrificio del maiale dentro i solchi di Demetra al contagio di malattie veneree attraverso il fallo agreste. Questa (sullo schermo appare una pannocchia) è De senectute, pannocchie riscoperte in un cassetto dopo vent’anni, metà tarlate, che ho poi piantate nella terra: pannocchie vecchie che hanno generato nuove pannocchie. La vecchiaia rispetta il seme, mentre colpisce tutto il resto. Il mio primo film, Il grado zero del paesaggio, è del 1963; pochi giorni fa ho fatto un video per una mostra a Bruxelles che si chiama Le lieu: alla Fondazione, ho ripreso con la telecamera l’aratura di un pezzo di terra zoommando l’interno dei solchi, per fare un discorso sulla zolla…
A me interessa molto approfondire con te l’uso di concetti come capitale e valore, valore di scambio e valore d’uso, a proposito di arte. Inoltre, possiamo parlare anche del tabù del denaro? Oltre al cliché cattolico che lo vuole sterco del diavolo – una delle più astute leggende messe in giro dai ricchi per dissuadere i poveri dal diventare come loro.
È un’interpretazione che sottoscrivo. Vengo da una famiglia col culto degli industriali: mio padre era un uomo onesto della Confindustria, poi precipitato nel nulla insieme al fascismo. Dovevo assolutamente laurearmi, non fare lo stupido o l’artista, ho fatto diciotto esami e la laurea in un anno, tesi sugli Accordi monetari di Bretton Woods! Il denaro mi dà un enorme fastidio, ma bisogna avercelo, altrimenti sei perduto.
Per Marx il denaro era agente di emancipazione, liberazione...
Se ne deve parlare, infatti. Ma gli approcci sono talmente lontani, lui partiva dalla fine invece di partire dall’inizio. Tu sei qui con le mani e fai un lavoro: questo lavoro è denaro e questo denaro ti viene riconosciuto, a differenza del discorso della ricchezza fine a se stessa lontano da un’etica sociale. Ho fatto un film di recente, Sette minuti, due euro, riprendendo dalla mia finestra due muratori rumeni che facevano un lavoro (in nero) tutto a base di muscoli e pala senza alcun apporto meccanico o tecnico. Lì davvero vedi il valore, centesimo per centesimo, minuto per minuto del loro lavoro.
Quanto alla sollecitazione precedente, termini un po’ fuori corso come “valore d’uso e valore di scambio” mi sono sempre sembrati adatti a spiegare cosa cercavo di fare nel mio lavoro di artista al tempo della operazione “Agricola Cornelia” (1973). I prodotti della terra e della zootecnia hanno un valore (dunque un prezzo, una utilità) legato allo scambio, ma anche un immediato e diretto valore d’uso per essere elementi dell’alimentazione, e dunque della sopravvivenza fisica dei produttori stessi. I prodotti, chiamiamoli così, dell’arte, tentando una strumentale semplificazione, a seconda della loro natura, hanno anche loro, un cospicuo o misero prezzo, insomma, un riconoscimento economico da quello che si definisce il mercato. Ma in questo caso il valore d’uso è secondo me la capacità e la necessità di percorrere in solitudine lo spazio che precede la produzione del fare arte, cioè far vivere e funzionare il proprio “talento-mente” - pensare, percepire, immaginare ed esprimere. Il prodotto finale di per sé non esisterebbe senza questo presupposto, e l’artista non sarebbe tale se non traesse questo “valore d’uso” non già dal mercato, ma dal fatto di essere capace e partecipe della ” soddisfazione dell’essere” connessa col proprio lavoro.
Non è un orologio, è un contasecondi, tratto dal film Rétard, un termine duchampiano usato in altro modo. La parola rétard l’ho applicata al concetto di tempo che è uno dei temi base del mio lavoro. Esiste la possibilità di controllare il tempo e visivamente un oggetto qualsiasi – un albero, un cespuglio, un prato: prima guardi, poi scatti due secondi, e vedi di nuovo il prato, ad esempio, identico a prima, però sono passati due secondi. Quei due secondi hanno cambiato la struttura della materia, hanno cambiato te stesso, hanno cambiato tutto. Ho chiamato queste visioni rétard, parola inventata da Duchamp, mio amico-padre affettuoso che ha inciso la mia vita in maniera travolgente. Non è una sospensione, è un prolungamento fra due sguardi.
Hai raccontato spesso di avere iniziato con la poesia, la fascinazione della parola. Poi sei passato all’immagine, «l’immagine senza patria, senza grammatica e sintassi, immagine senza confini o prelevata dal sogno», «strumento liberatorio e ambiguo» che segna una libertà dalla logica e dal senso. Pensi lo si possa ancora dire?
Come no, l’immagine è orfana: Joyce, Pound, Céline. Le loro parole sono in qualche modo un sentiero, una specie di percorso del passato, che io rivedo in forma di immagine perché non le vedo più come parole.
È ancora possibile un’immagine orfana?
Oggi hanno troppi genitori. Io ho lavorato molto sul sogno, ho dieci volumi di sogni descritti e disegnati e su quei gruppi di immagini tratte da sogni non ho più voglia di tornare. Ho fatto un sogno l’altra notte, parlavo con sei persone e di ognuna vedevo la faccia molto precisa; poi mi sono svegliato e mi sono chiesto come sia possibile che veda una facce così precise e diverse di qualcuno che non so chi sia. Molti personaggi hanno una faccia così, un’immagine che non sai da dove viene.
Jean-François Lyotard parlava della «libertà degli orfani», e spiegava che il Sublime è l’irrappresentabile, categoria che descrive per lui l’arte contemporanea.
Lui ha detto anche che è un sentimento potente.
Anche Kant.
Sì, quando sono andato a trovare Lyotard a Fillerval, in una campagna vicino Parigi stava leggendo Kant: aveva davanti un unico libro aperto su uno spesso tavolo di vetro trasparente nel gelo di una soffitta; c’erano soltanto lui, il libro e il freddo. Era il suo modo di leggere Kant.
Pensando al tuo biografico «zigzagare», mi appari a volte come un Bouvard-Pécuchet (i miei eroi epistemologici) condannato a riuscire, a non fallire. Anche questa è un’epica dell’elenco.
Bada però che negli gli elenchi ho sempre messo una ragione – diciamo – di nonsense: sono un sacerdote rigoroso del nonsense, o mi diverte molto far finta di esserlo. Ho scritto un libro (inedito, non so se lo pubblicherò mai), I consigli del tricheco, un personaggio di Lewis Carroll che dice: «È venuto il tempo di parlare di molte cose, di navi e scarpe, di ceralacca, di cavoli e di re». Il fiabesco è un modo di elencare, non importa che cosa, con la scusa della fiaba; la poesia è il modo di mettere insieme «ships and shoes», irresponsabilmente. Se non è irresponsabile non è poesia; se c’è troppo senso non funziona.
Come in letteratura: non è la storia che conta, ma il narrare, non il soggetto, né comunicare qualcosa, ma il tono.
Non è né il soggetto né ciò che l’utente capisce. Certo, se capisce sono contento, ma non sono legato all’idea del comunicare qualcosa. Un giovane artista faceva un bollettino che si chiamava Comunicare fa male. Non arrivo a questo, bisogna anche comunicare, ma che cosa? Nella comunicazione oggi c’è l’intersezione del potere, che impone un uso distorto della parola: popolo, libertà, futuro, ecc. È stato fatto uno stupro nell’uso della parola sui giornali.
L’universo delle parole e della comunicazione è oggi ridotto a slogan o comando, parole vacue e senza referente (anche la «sinistra» sembra a traino di questa retorica).
Ho amato Ingrao, una delle poche teste politiche che si salvano della mia generazione. C’è anche Napolitano, che sa cosa dire, un uomo che non per nulla amava il cinema. Ora, dove sta la mente della sinistra, dove sono gli Sciascia?
Nel tuo zig-zag enciclopedico mi colpisce che la tua biografia sia puntuata e scandita da un confronto con Paul Klee, un ciclico ritorno a Klee. Che cos’è Klee per te?
Klee è il centro del vortice: io ho lavorato molto sul concetto di «piega», che come sai non è di Klee ma di Leibniz. Poi naturalmente Gilles Deleuze ha lavorato su questo. Ora nel concetto di piega, nell’arte, sopravviene quest’altra piega: è questa la storia dell’arte, piega di piega di piega. La piega cos’è? Klee parla del punto cosmogonico e tutto parte da questo punto – Klee è un gigante di fronte a Kandinskij, è una mia idea, anche se Kandinskij rimane un grandissimo pittore perché fa delle immagini travolgenti. Alla Klee Stiftung di Zurigo vidi un disegno, alcune ruote e linee intersecate con una data, 1939, in piena guerra, a matita su fondo bianco: il titolo era Presto cammineremo di nuovo. Quest’opera di Klee secondo me vale tutti i collage, le pennellate, i colori possibili: un titolo, una parola premonitrice, che designa uno schema, bianco e nero, la fine dei campi di sterminio e il ritorno alla vita. Ecco perché Klee è così importante. Non è un discorso della forma. Della storia, forse. Klee è un angelo, quest’angelo brilla come certi personaggi mancati, lui invece ha vissuto anche se poi si è ammalato e non ci stava più con la testa.
Penso alla tua definizione dell’arte come opposizione, come pharmakon: è ancora possibile?
Certo, è possibile: quando il mondo aspira ad altre cose che non la saggezza l’arte può essere il pharmakon. È importante provare a vivere come se si fosse artisti: è il discorso dei Consigli del tricheco, il «vivi come se» è importantissimo. L’esperienza non è mai triste, è sempre un arricchimento e può essere una sorta di opera d’arte, non nel senso di qualcosa di estetico, ma di raccontabile. L’esperienza è come il coito, si vive il piacere e successivamente non si è affatto tristi, ci si sente più ricchi.
Il tuo lavoro eccede i generi, e insegna che si può usare, fecondare qualunque materiale: un metodo che è anche un’etica…
Il mio genere è lo spreco, e lo spreco è tutta la mia vita. Nel film Ars memoriae ricompongo la mia vita e le persone che ho incontrato, frugo nel mio passato. Ho fatto un archivio di sessantadue schede in cui ci sono personaggi ed esperienze con cui ho creato il film, suddiviso in quattro parti. In una ci sono io che spiego post factum l’operazione. Alla fine, ho optato per l’oblio e mi sono ripreso mentre, una ad una, bruciavo le schede dell’intero archivio. Ricordare è infatti un dramma perché riporta in vita i fallimenti e gli errori commessi. Ancora oggi io continuo a sprecare la mia vita senza però farne un dramma.
Recentemente sei tornato al tema della terra, svolta ecologico-economica, ma anche riepilogo di tutte la tua opera. Cosa è la terra, e cosa «il luogo»?
Le tappe del mio tragitto sono l’oggetto, la natura, la materia. La terra come radice di un luogo, l’essere, e poi la materia. Ave, materia!, diceva Teilhard de Chardin, ora dimenticato. Ho fatto quattro disegni sulla zolla, sezioni di terreno, sezioni del bosco, l’aratura, avevo anche pensato di portare una zolla alla mostra di Bruxelles. Queste operazioni e questi disegni rispecchiano il mio modo di pensare. Mentre facevo il film per Bruxelles (da Greta Meert), Le lieu, ho girato parecchie inquadrature al cimitero di Prima Porta. Sono andato a guardare le sepolture dei senza tomba: quella terra serve a squagliare i corpi sepolti. Ci sono mucchi di terra già usata pervasi di morte, spinti in un angolo speciale del cimitero dai bulldozer. Questa parte, tra il retorico e il funebre (una retorica del funebre) nel film non c’è, non l’ho montata. L’idea è che comunque la terra non muore mai, anche se è pervasa di morte; accetta il seme e lo fa nascere.
«Il luogo» è tappa di una mia riflessione sull’essere e sul sublime nel senso che gli Lyotard (lettore di Kant): “ni universalité morale ni universalitation esthétique, mais plutôt la destruction de l’une par l’autre dans la violence de leur différend, qui est le sentiment sublime”. Mi approprio di immagini filosofiche, le concateno e le uso per cercare come sempre di fare apparire con le immagini l’inesistente ma possibile: «Le lieu et la formule», diceva Rimbaud. L’arte è strumento per un tentativo di capire il mio rapporto personale con l’essere, e il fine ultimo è l’étonnement d’e^tre, anzi una satisfaction d’e^tre, come dicevamo all’inizio, il piacere. Parametro che in me sostituisce il «successo».
C’è qualcosa che vuoi aggiungere alla fine (provvisoria) di questo dialogo?
Nel momento in cui le immagini del mio lavoro appaiono in molte delle pagine di questo “Alfabeta 2”, vorrei dire che questa presenza io la vivo come contributo personale al dibattito che questo numero propone nelle diverse articolazioni culturali e politiche. Anche se da un artista visivo non ci aspettano parole, queste immagini sono da “leggere” come testi che negli anni hanno espresso posizioni e interventi coerenti con la mia idea che l’arte può essere uno strumento per capire, commentare e, anche, resistere.
(la conversazione appare nel n. 4 di Alfabeta 2, in edicola e in libreria dal 16 novembre. L'intero numero della rivista è illustrato da immagini del lavoro di Gianfranco Baruchello)
Lo studio di Gianfranco Baruchello è pervaso di quadri, disegni, carte, cartelle, libri e soprattutto oggetti, tutti pertinenti al suo lavoro di artista che definirò «enciclopedico». Il suo nomadismo, estensivo e intensivo, è come la sua conversazione: un’esperienza di «semiosi illimitata», come trovarsi in uno dei suoi grandi spazi costellati di «geroglifici», segni, «punti cosmogonici», «accidenti in un perimetro», punti di riferimento e di crisi insieme precisi e ambigui, rigorosi e (quasi) indecifrabili, dove perdersi e trovarsi sono alla fine sinonimi. Il fatto che tutto c’entri con tutto, in una concatenazione virtualmente infinita, è la posizione filosofico-estetica comune: l’unica cosa che “non c’entra”, mi dice Baruchello, l’unica frase e domanda da bandire, è proprio: ‘Cosa c’entra questo con quello?’ Il rigore di Baruchello è nel disegno; il mio, dice lui, è nelle parole, e nell’uso della mia fragilità, o apertura. Provo con lui la stessa sensazione che ebbi nello studio di Bruno Munari: non esistono materiali sterili, si può adoperare tutto, anche l’assenza. Ma l’opera di Baruchello è, in più, venata di una consapevolezza politica (come la ricorrenza del concetto di valore d’uso di Marx), e la sua poetica mi coinvolge strettamente: amiamo entrambi gli archivi, gli elenchi, gli oggetti trovati e smarriti, la filosofia, perfino l'I Ching. La sua «creatività di confine» conforta il mio essere borderline nello scrivere. «Vuol dire non essere negli elenchi, essere fuori dai canoni», mi dice. Più metodico di me, ha segnato sull’ultima pagina bianca di un paio di miei libri (Oggetti smarriti e altre apparizioni, e H.P....), con la sua calligrafia minuta («baruglifica», direbbe Paolo Fabbri) una mappa di parole-citazioni che lo hanno interessato, col numero di pagina. Alla sua unica vera domanda a me – come io gestisca il problema della metafisica, quale sia il mio «meccanismo del pensiero», detto con le parole di De Chirico sulla pittura, appunto, «metafisica» – rispondo gestendo questo dialogo.
Guardiamo sul computer una serie di immagini di suoi lavori, e scorrono a salti un’opera e una vita intensissime: Baruchello ha fatto tutto, e prima degli altri. Dalla Coscienza del presente (awareness), esposto la prima volta alla mostra che lanciò la Pop Art (la mostra New Realists, da Sydney Janis, a New York, nel 1962), poi la stele con i libri incollati e sepolti nel bianco, Partout le silence sous le mouvement (nello stesso anno), esposta a Parigi con i collage in una mostra (Collage et objets) in cui c’erano tutti, da Picasso a Man Ray, a Max Ernst e a Rauschenberg; al grande quadro sul Capitale di Marx e gli altri di corredo (accumulatori di energia, con riferimenti a Duchamp), ai numerosi libri, al film ormai storico con Alberto Grifi (Verifica incerta, nel 1964) e quelli – una settantina – da solo. Fino al lavoro agricolo-ecologico a Santa Cornelia, nella campagna intorno alla sua casa oggi non più casa ma Fondazione. Sullo schermo appare un’immagine in bianco e nero di quella terra arata:
Ecco, qui l’opera è il confronto fra l’agricoltura e l’arte, tra valore di scambio e valore d’uso del prodotto agricolo e quelli del prodotto artistico. Il contadino vende la sua cosa, però la mangia anche lui, l’artista vende la cosa e non la mangia, anzi non può proprio vivere se non fa l’arte: ecco le differenze di valore. Su questo concetto ho lavorato e fatto libri, come Agricola Cornelia s.p.a. e poi Io sono un albero. Questo, invece (guardiamo l’immagine di un filone di pane in una cassa piena di terra) è una parte di Nascita e morte del pane, azione in cui il pane nasceva dalla terra, poi veniva martoriato, legato, incatenato, imbottito di giornali, tagliato a metà, e a un certo momento moriva, scompariva nella terra.
L’hai seppellito?
Sì, alla fine scompare nella terra. In altre azioni ho lavorato sui miti agresti, dal sacrificio del maiale dentro i solchi di Demetra al contagio di malattie veneree attraverso il fallo agreste. Questa (sullo schermo appare una pannocchia) è De senectute, pannocchie riscoperte in un cassetto dopo vent’anni, metà tarlate, che ho poi piantate nella terra: pannocchie vecchie che hanno generato nuove pannocchie. La vecchiaia rispetta il seme, mentre colpisce tutto il resto. Il mio primo film, Il grado zero del paesaggio, è del 1963; pochi giorni fa ho fatto un video per una mostra a Bruxelles che si chiama Le lieu: alla Fondazione, ho ripreso con la telecamera l’aratura di un pezzo di terra zoommando l’interno dei solchi, per fare un discorso sulla zolla…
A me interessa molto approfondire con te l’uso di concetti come capitale e valore, valore di scambio e valore d’uso, a proposito di arte. Inoltre, possiamo parlare anche del tabù del denaro? Oltre al cliché cattolico che lo vuole sterco del diavolo – una delle più astute leggende messe in giro dai ricchi per dissuadere i poveri dal diventare come loro.
È un’interpretazione che sottoscrivo. Vengo da una famiglia col culto degli industriali: mio padre era un uomo onesto della Confindustria, poi precipitato nel nulla insieme al fascismo. Dovevo assolutamente laurearmi, non fare lo stupido o l’artista, ho fatto diciotto esami e la laurea in un anno, tesi sugli Accordi monetari di Bretton Woods! Il denaro mi dà un enorme fastidio, ma bisogna avercelo, altrimenti sei perduto.
Per Marx il denaro era agente di emancipazione, liberazione...
Se ne deve parlare, infatti. Ma gli approcci sono talmente lontani, lui partiva dalla fine invece di partire dall’inizio. Tu sei qui con le mani e fai un lavoro: questo lavoro è denaro e questo denaro ti viene riconosciuto, a differenza del discorso della ricchezza fine a se stessa lontano da un’etica sociale. Ho fatto un film di recente, Sette minuti, due euro, riprendendo dalla mia finestra due muratori rumeni che facevano un lavoro (in nero) tutto a base di muscoli e pala senza alcun apporto meccanico o tecnico. Lì davvero vedi il valore, centesimo per centesimo, minuto per minuto del loro lavoro.
Quanto alla sollecitazione precedente, termini un po’ fuori corso come “valore d’uso e valore di scambio” mi sono sempre sembrati adatti a spiegare cosa cercavo di fare nel mio lavoro di artista al tempo della operazione “Agricola Cornelia” (1973). I prodotti della terra e della zootecnia hanno un valore (dunque un prezzo, una utilità) legato allo scambio, ma anche un immediato e diretto valore d’uso per essere elementi dell’alimentazione, e dunque della sopravvivenza fisica dei produttori stessi. I prodotti, chiamiamoli così, dell’arte, tentando una strumentale semplificazione, a seconda della loro natura, hanno anche loro, un cospicuo o misero prezzo, insomma, un riconoscimento economico da quello che si definisce il mercato. Ma in questo caso il valore d’uso è secondo me la capacità e la necessità di percorrere in solitudine lo spazio che precede la produzione del fare arte, cioè far vivere e funzionare il proprio “talento-mente” - pensare, percepire, immaginare ed esprimere. Il prodotto finale di per sé non esisterebbe senza questo presupposto, e l’artista non sarebbe tale se non traesse questo “valore d’uso” non già dal mercato, ma dal fatto di essere capace e partecipe della ” soddisfazione dell’essere” connessa col proprio lavoro.
Non è un orologio, è un contasecondi, tratto dal film Rétard, un termine duchampiano usato in altro modo. La parola rétard l’ho applicata al concetto di tempo che è uno dei temi base del mio lavoro. Esiste la possibilità di controllare il tempo e visivamente un oggetto qualsiasi – un albero, un cespuglio, un prato: prima guardi, poi scatti due secondi, e vedi di nuovo il prato, ad esempio, identico a prima, però sono passati due secondi. Quei due secondi hanno cambiato la struttura della materia, hanno cambiato te stesso, hanno cambiato tutto. Ho chiamato queste visioni rétard, parola inventata da Duchamp, mio amico-padre affettuoso che ha inciso la mia vita in maniera travolgente. Non è una sospensione, è un prolungamento fra due sguardi.
Hai raccontato spesso di avere iniziato con la poesia, la fascinazione della parola. Poi sei passato all’immagine, «l’immagine senza patria, senza grammatica e sintassi, immagine senza confini o prelevata dal sogno», «strumento liberatorio e ambiguo» che segna una libertà dalla logica e dal senso. Pensi lo si possa ancora dire?
Come no, l’immagine è orfana: Joyce, Pound, Céline. Le loro parole sono in qualche modo un sentiero, una specie di percorso del passato, che io rivedo in forma di immagine perché non le vedo più come parole.
È ancora possibile un’immagine orfana?
Oggi hanno troppi genitori. Io ho lavorato molto sul sogno, ho dieci volumi di sogni descritti e disegnati e su quei gruppi di immagini tratte da sogni non ho più voglia di tornare. Ho fatto un sogno l’altra notte, parlavo con sei persone e di ognuna vedevo la faccia molto precisa; poi mi sono svegliato e mi sono chiesto come sia possibile che veda una facce così precise e diverse di qualcuno che non so chi sia. Molti personaggi hanno una faccia così, un’immagine che non sai da dove viene.
Jean-François Lyotard parlava della «libertà degli orfani», e spiegava che il Sublime è l’irrappresentabile, categoria che descrive per lui l’arte contemporanea.
Lui ha detto anche che è un sentimento potente.
Anche Kant.
Sì, quando sono andato a trovare Lyotard a Fillerval, in una campagna vicino Parigi stava leggendo Kant: aveva davanti un unico libro aperto su uno spesso tavolo di vetro trasparente nel gelo di una soffitta; c’erano soltanto lui, il libro e il freddo. Era il suo modo di leggere Kant.
Il sentimento del Sublime potrebbe descrivere il tuo lavoro? Nel senso appunto dell’irrappresentabile, come l’arte concettuale, o come l’infinito?
Sì, ma come fine. Però non è facile dire «faccio una cosa pensando al Sublime». L’infinito mi funziona benissimo, nel senso del «naufragar m’è dolce», anzi se non naufrago, sto male. Pensando al tuo biografico «zigzagare», mi appari a volte come un Bouvard-Pécuchet (i miei eroi epistemologici) condannato a riuscire, a non fallire. Anche questa è un’epica dell’elenco.
Bada però che negli gli elenchi ho sempre messo una ragione – diciamo – di nonsense: sono un sacerdote rigoroso del nonsense, o mi diverte molto far finta di esserlo. Ho scritto un libro (inedito, non so se lo pubblicherò mai), I consigli del tricheco, un personaggio di Lewis Carroll che dice: «È venuto il tempo di parlare di molte cose, di navi e scarpe, di ceralacca, di cavoli e di re». Il fiabesco è un modo di elencare, non importa che cosa, con la scusa della fiaba; la poesia è il modo di mettere insieme «ships and shoes», irresponsabilmente. Se non è irresponsabile non è poesia; se c’è troppo senso non funziona.
Come in letteratura: non è la storia che conta, ma il narrare, non il soggetto, né comunicare qualcosa, ma il tono.
Non è né il soggetto né ciò che l’utente capisce. Certo, se capisce sono contento, ma non sono legato all’idea del comunicare qualcosa. Un giovane artista faceva un bollettino che si chiamava Comunicare fa male. Non arrivo a questo, bisogna anche comunicare, ma che cosa? Nella comunicazione oggi c’è l’intersezione del potere, che impone un uso distorto della parola: popolo, libertà, futuro, ecc. È stato fatto uno stupro nell’uso della parola sui giornali.
L’universo delle parole e della comunicazione è oggi ridotto a slogan o comando, parole vacue e senza referente (anche la «sinistra» sembra a traino di questa retorica).
Ho amato Ingrao, una delle poche teste politiche che si salvano della mia generazione. C’è anche Napolitano, che sa cosa dire, un uomo che non per nulla amava il cinema. Ora, dove sta la mente della sinistra, dove sono gli Sciascia?
Nel tuo zig-zag enciclopedico mi colpisce che la tua biografia sia puntuata e scandita da un confronto con Paul Klee, un ciclico ritorno a Klee. Che cos’è Klee per te?
Klee è il centro del vortice: io ho lavorato molto sul concetto di «piega», che come sai non è di Klee ma di Leibniz. Poi naturalmente Gilles Deleuze ha lavorato su questo. Ora nel concetto di piega, nell’arte, sopravviene quest’altra piega: è questa la storia dell’arte, piega di piega di piega. La piega cos’è? Klee parla del punto cosmogonico e tutto parte da questo punto – Klee è un gigante di fronte a Kandinskij, è una mia idea, anche se Kandinskij rimane un grandissimo pittore perché fa delle immagini travolgenti. Alla Klee Stiftung di Zurigo vidi un disegno, alcune ruote e linee intersecate con una data, 1939, in piena guerra, a matita su fondo bianco: il titolo era Presto cammineremo di nuovo. Quest’opera di Klee secondo me vale tutti i collage, le pennellate, i colori possibili: un titolo, una parola premonitrice, che designa uno schema, bianco e nero, la fine dei campi di sterminio e il ritorno alla vita. Ecco perché Klee è così importante. Non è un discorso della forma. Della storia, forse. Klee è un angelo, quest’angelo brilla come certi personaggi mancati, lui invece ha vissuto anche se poi si è ammalato e non ci stava più con la testa.
Penso alla tua definizione dell’arte come opposizione, come pharmakon: è ancora possibile?
Certo, è possibile: quando il mondo aspira ad altre cose che non la saggezza l’arte può essere il pharmakon. È importante provare a vivere come se si fosse artisti: è il discorso dei Consigli del tricheco, il «vivi come se» è importantissimo. L’esperienza non è mai triste, è sempre un arricchimento e può essere una sorta di opera d’arte, non nel senso di qualcosa di estetico, ma di raccontabile. L’esperienza è come il coito, si vive il piacere e successivamente non si è affatto tristi, ci si sente più ricchi.
Il tuo lavoro eccede i generi, e insegna che si può usare, fecondare qualunque materiale: un metodo che è anche un’etica…
Il mio genere è lo spreco, e lo spreco è tutta la mia vita. Nel film Ars memoriae ricompongo la mia vita e le persone che ho incontrato, frugo nel mio passato. Ho fatto un archivio di sessantadue schede in cui ci sono personaggi ed esperienze con cui ho creato il film, suddiviso in quattro parti. In una ci sono io che spiego post factum l’operazione. Alla fine, ho optato per l’oblio e mi sono ripreso mentre, una ad una, bruciavo le schede dell’intero archivio. Ricordare è infatti un dramma perché riporta in vita i fallimenti e gli errori commessi. Ancora oggi io continuo a sprecare la mia vita senza però farne un dramma.
Recentemente sei tornato al tema della terra, svolta ecologico-economica, ma anche riepilogo di tutte la tua opera. Cosa è la terra, e cosa «il luogo»?
Le tappe del mio tragitto sono l’oggetto, la natura, la materia. La terra come radice di un luogo, l’essere, e poi la materia. Ave, materia!, diceva Teilhard de Chardin, ora dimenticato. Ho fatto quattro disegni sulla zolla, sezioni di terreno, sezioni del bosco, l’aratura, avevo anche pensato di portare una zolla alla mostra di Bruxelles. Queste operazioni e questi disegni rispecchiano il mio modo di pensare. Mentre facevo il film per Bruxelles (da Greta Meert), Le lieu, ho girato parecchie inquadrature al cimitero di Prima Porta. Sono andato a guardare le sepolture dei senza tomba: quella terra serve a squagliare i corpi sepolti. Ci sono mucchi di terra già usata pervasi di morte, spinti in un angolo speciale del cimitero dai bulldozer. Questa parte, tra il retorico e il funebre (una retorica del funebre) nel film non c’è, non l’ho montata. L’idea è che comunque la terra non muore mai, anche se è pervasa di morte; accetta il seme e lo fa nascere.
«Il luogo» è tappa di una mia riflessione sull’essere e sul sublime nel senso che gli Lyotard (lettore di Kant): “ni universalité morale ni universalitation esthétique, mais plutôt la destruction de l’une par l’autre dans la violence de leur différend, qui est le sentiment sublime”. Mi approprio di immagini filosofiche, le concateno e le uso per cercare come sempre di fare apparire con le immagini l’inesistente ma possibile: «Le lieu et la formule», diceva Rimbaud. L’arte è strumento per un tentativo di capire il mio rapporto personale con l’essere, e il fine ultimo è l’étonnement d’e^tre, anzi una satisfaction d’e^tre, come dicevamo all’inizio, il piacere. Parametro che in me sostituisce il «successo».
C’è qualcosa che vuoi aggiungere alla fine (provvisoria) di questo dialogo?
Nel momento in cui le immagini del mio lavoro appaiono in molte delle pagine di questo “Alfabeta 2”, vorrei dire che questa presenza io la vivo come contributo personale al dibattito che questo numero propone nelle diverse articolazioni culturali e politiche. Anche se da un artista visivo non ci aspettano parole, queste immagini sono da “leggere” come testi che negli anni hanno espresso posizioni e interventi coerenti con la mia idea che l’arte può essere uno strumento per capire, commentare e, anche, resistere.
(la conversazione appare nel n. 4 di Alfabeta 2, in edicola e in libreria dal 16 novembre. L'intero numero della rivista è illustrato da immagini del lavoro di Gianfranco Baruchello)
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11/14/2010
Le macerie e "La Ginestra" - L'Aquila e Pompei
Durante la recente contestazione dei comitati cittadini a Berlusconi, a L’Aquila per la cerimonia di consegna di onorificenze alla protezione civile, è stato issato questo striscione: Macerie di democrazia – 20 novembre, L’Aquila chiama Italia. E’ lo slogan della manifestazione nazionale che svolgerà sabato prossimo. Io ci andrò, ma rovesciando dentro di me lo slogan: è l’Italia (cioè tutti noi) a chiamare L’Aquila, dove la ricostruzione dopo la tragedia non è mai iniziata, non c’è nessuna prospettiva per il futuro, e dove con più drammatica consapevolezza ci si sta da tempo ribellando alla crisi culturale, politica, economica, politica e istituzionale in cui è precipitata l’Italia. E’ il luogo che più esemplifica la bruciante attualità dell’essere fantasmi – senza diritti, senza casa, sans papier, clandestini - dove abitare è un’avventura, la cittadinanza un’utopia, e dove resta nitidamente da immaginare, progettare e rifondare la vita individuale e la politica. L’Aquila è laboratorio e sintesi (“macerie di democrazia”) dell’immane processo di ricostruzione dopo la deflagrazione atomica prodotta da anni di governo della destra più cinica, quella pubblicitaria.
L’ho detto ieri per un film collettivo di testimonianze che sarà presentato il 20 a L’Aquila, ma ho dimenticato questo: l’invito a rileggere La Ginestra di Giacomo Leopardi. E’ una poesia magnifica, ma anche un’invettiva (“secol superbo e sciocco”) contro la presunzione tecnico-economica; è una meditazione sulla natura, ma anche una perorazione politica alla solidarietà, alla “social catena”. La scrisse, è noto, alle pendici del Vesuvio, nel cui parco nazionale si è pensato oggi di interrare rifiuti tossici. La scrisse dopo la scoperta archeologica - vera epifania – di Pompei e Ercolano, che si è riusciti oggi, per indifferenza e incuria, a fare ulteriormente crollare.
L’ho detto ieri per un film collettivo di testimonianze che sarà presentato il 20 a L’Aquila, ma ho dimenticato questo: l’invito a rileggere La Ginestra di Giacomo Leopardi. E’ una poesia magnifica, ma anche un’invettiva (“secol superbo e sciocco”) contro la presunzione tecnico-economica; è una meditazione sulla natura, ma anche una perorazione politica alla solidarietà, alla “social catena”. La scrisse, è noto, alle pendici del Vesuvio, nel cui parco nazionale si è pensato oggi di interrare rifiuti tossici. La scrisse dopo la scoperta archeologica - vera epifania – di Pompei e Ercolano, che si è riusciti oggi, per indifferenza e incuria, a fare ulteriormente crollare.
(rubrica "acchiappafantasmi", domenica 14 nov. 2010)
P.S. Il trailer del film che sarà proiettato sabato 20 a L'Aquila : http://www.youtube.com/watch?v=jaZAmZs0BMI
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11/07/2010
Conflitto di civiltà
Vorrei, se ne avessi lo spazio, scrivere un elogio del conflitto. Non della violenza, ma della differenza, legittima e irriducibile, di visioni del mondo. Il conflitto è comunicazione, oltre che l’essenza della politica. Solo dove la politica (e con essa la libertà d’espressione) è tabù, anche il conflitto è tabù.
Ora, mentre la miseria pubblica e privata di chi ha guidato l’Italia per quasi 15 anni - sottraendoci orizzonti di pensiero e di immaginazione senz’altro più fecondi – è giunta al suo massimo grado di visibilità (non di conoscenza), mi sembra di sentire le fanfare di coloro che, negando l’evidenza, si dichiareranno antiberlusconiani (alcuni già lo fanno). Ma imperdonabile non è tanto il capo del governo (che recita benissimo se stesso), quanto chi lo ha ripetutamente eletto (“elezione”: pensate all’importanza di questa parola), chi ha riso e ancora ride consenziente quando lui parla, o batte le mani.
Provo ormai insofferenza per tutte le descrizioni che si fanno delle sue stranote malefatte morali e politiche: è su come giudicarle che da anni si svolge in Italia l’unico vero “conflitto di civiltà” che conosco, che nessuna togliattiana e ideale “amnistia” potrà cancellare. Perfino la satira sul primo ministro in carica normalizza e banalizza il genocidio di civiltà che ha compiuto - la distruzione della cultura, del tessuto sociale, dell’educazione. Ecco perché l’elogio del conflitto.
E mentre per caso mi imbatto nelle parole di un noto esponente religioso (“quelli che vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”) mi accorgo che il 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti, laica o religiosa che sia (una volta si diceva valori condivisi), nessun giornale ne ha fatto cenno, troppo occupati a parlare delle puttane del re.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 7 novembre 2010)
Ora, mentre la miseria pubblica e privata di chi ha guidato l’Italia per quasi 15 anni - sottraendoci orizzonti di pensiero e di immaginazione senz’altro più fecondi – è giunta al suo massimo grado di visibilità (non di conoscenza), mi sembra di sentire le fanfare di coloro che, negando l’evidenza, si dichiareranno antiberlusconiani (alcuni già lo fanno). Ma imperdonabile non è tanto il capo del governo (che recita benissimo se stesso), quanto chi lo ha ripetutamente eletto (“elezione”: pensate all’importanza di questa parola), chi ha riso e ancora ride consenziente quando lui parla, o batte le mani.
Provo ormai insofferenza per tutte le descrizioni che si fanno delle sue stranote malefatte morali e politiche: è su come giudicarle che da anni si svolge in Italia l’unico vero “conflitto di civiltà” che conosco, che nessuna togliattiana e ideale “amnistia” potrà cancellare. Perfino la satira sul primo ministro in carica normalizza e banalizza il genocidio di civiltà che ha compiuto - la distruzione della cultura, del tessuto sociale, dell’educazione. Ecco perché l’elogio del conflitto.
E mentre per caso mi imbatto nelle parole di un noto esponente religioso (“quelli che vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”) mi accorgo che il 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti, laica o religiosa che sia (una volta si diceva valori condivisi), nessun giornale ne ha fatto cenno, troppo occupati a parlare delle puttane del re.
(rubrica "acchiappafantasmi", l'Unità di domenica 7 novembre 2010)
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11/04/2010
"An ecology of mind" - incontro con Nora Bateson
Organizzato dal Circolo Bateson e da Legambiente, si svolgerà a Roma il 6 novembre Roma, nell'Aula Magna del Rettorato dell'università Roma Tre, in via Ostiense, il convegno dal titolo "Per una ecologia della mente", incentrato e prerceduto dalla proiezione del film-documentario An Ecology of Mind che Nora Bateson, figlia di Gregory Bateson, ha ideato e prodotto sul pensiero del padre. Il documentario verrà proiettato in anteprima europea e sarà presentato dall’autrice. Tra i partecipanti al convegno, Rosa Conserva, Giuseppe O. Longo, Giovanni Madonna, Sergio Manghi, Laura Formenti, Marcello Cini e tanti altri.
Ho visto in anteprima il film, e mi sono commosso. Ho passato poi una giornata bellissima con Nora Bateson, cui si sono aggiunte, per una serie di incredibili coincidenze, o convergenze, altri amici, altre persone (che mi invitavano a pranzo nello stesso posto e alla stessa ora in cui avevo invitato a pranzo Nora). Il groviglio intellettuale-affettivo che ho messo su a tavola, con (tra gli altri) un amico sciamano e un famoso regista italiano altrettanto amico, come una famiglia composita e variegata, è degno della sceneggiatura di un film americano. Grazie a Nora, omaggio a lei, e a Gregory, maestro della connessione? Forse sì. Comunque sia, oggi su l'Unità compare questo pezzo che ho scritto ieri prima di sera - in fretta, purtroppo. Dentro di me lo intitolerei così: "La mente (come l'universo) è un'opera jazz".
Biologo, filosofo, antropologo, cibernetico, fondatore del pensiero sistemico, ispiratore della psichiatria (la famosa teoria del double bind, “doppio vincolo”, è chiave per comprendere la schizofrenia), in realtà per Bateson non esiste separazione tra le discipline, né tra scienza e poesia. “Imparava sempre - racconta Nora – da qualunque cosa, un cane, un acquario di pesci, dagli scienziati che venivano a trovarlo, dalla poesia e dall’arte. Da lui ho imparato che l’apprendimento non cessa mai”. “Da bambina mi sedevo per terra e disegnavo, ascoltandolo mentre teneva delle lezioni. Già allora mi sembrava che sbirciasse da una porticina gli ingranaggi più intimi della vita. Ho studiato cinema e non antropologia, per allontanarmi, ma l’idea di fare questo film ce l’ho forse da sempre, ma soprattutto da quando ho aiutato mia sorella nel reperire materiali (video delle sue lezioni) per il convegno del 2004”. La domanda ovvia è come sia stato averlo avuto come padre e maestro. “Tutto quello che mi ha insegnato, come era suo stile, era in forme di storie. Non mi trasmetteva conoscenze, ma percezioni, un modo di guardare le cose e il mondo. Fu molto intenso, sapeva che non avremmo condiviso molto tempo. Gli piaceva molto parlare coi bambini, perché non sono limitati e corrotti da quella che chiamava l’istruzione distruttiva. Anche questo film in fondo è un metalogo, una storia su cosa significhi ‘comprendere’”.
Il film riassume da diverse angolature, come variazioni di un’opera jazz, una biografia intellettuale di per sé inesauribile, lo studio ininterrotto e interminabile di ciò che Bateson chiamò ”la struttura che connette” - l’interdipendenza di tutto con tutto, la vita, la natura, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco, il sacro e i metodi dell’Anonima Alcolisti. La domanda che Bateson si pone è: “quale struttura collega il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula, e tutte e quattro con me, e me con voi?” Tutto questo va inoltre connesso col “contesto”, cornice più ampia di ogni singola idea e realtà. “Senza contesto, aggiunge Nora, parole e fatti non hanno alcun significato. E questo è vero per tutta la comunicazione – anche quella che dice all’anemone di mare come crescere e all’ameba cosa deve fare il momento successivo”.
Nora è sposata col batterista jazz Dan Brubeck, figlio del famoso Dave Brubeck. Le chiedo se il pensiero di Gregory Bateson, e in fondo la natura stessa, non abbiano somiglianze strutturali col jazz, con le sue variazioni e ripetizioni. Nora sorride: sta in effetti preparando con Dan una serie di concerti-seminari per esporre la relazione tra doppio vincolo e improvvisazione. Il jazz è un’ottima metafora del pensiero di Bateson, conferma, perché è un processo creativo, un apprendimento dell’apprendimento, e proprio come in un corpo, ogni organo o strumento compensa l’altro, in costante relazione e comunicazione.
Siamo sempre in relazione con qualcos’altro, ci insegna Bateson, ed è l’aspetto più critico del suo pensiero. Gli esseri umani si comportano in modi distruttivi per i sistemi ecologici naturali, osservava, senza riuscire a vedere le delicate interdipendenze di un sistema ecologico che gli conferiscono integrità. C’è una attualità politica immensa e scottante nel pensiero educativo di Bateson. E mentre vedevo scorrere nel film i suoi insegnamenti – con quello stile magistrale ricco di metafore, storie, paradossi, poesie, humour, un linguaggio costituito di ciò di cui parla, ovvero una visione olistica ed ecologica della “realtà” – non potevo non pensare con impazienza, confesso a Nora, quanto sarebbe diverso il mondo se i politici (quelli di sinistra: quelli di destra fanno benissimo il loro mestiere) leggessero e rileggessero il pensiero esemplare di suo padre. “Sì, dice Nora, viviamo in un terribile e immenso doppio vincolo, per spezzare il quale occorre la fantasia e il coraggio di un atto creativo”. Ma c’è una buona notizia, mi dice Nora, proprio oggi. Nonostante la sconfitta, in California è stato eletto governatore il democratico Jerry Brown, che nel film di Nora fa un esempio di “doppio vincolo” molto attuale: “L’ineguaglianza cresce e la risposta dei governi è far crescere l’economia ancora più rapidamente, ma così facendo aggraviamo la disuguaglianza e abbiamo un tremendo impatto sul clima e sull’ambiente. Abbiamo bisogno di un salto di qualità, di una visione e di una immaginazione straordinarie, dato che frenare l’economia crea disoccupazione e sofferenza...” (per la cronaca, Jerry Brown fu allievo di Gregory Bateson).
(uscito su l'Unità, 4/11/2010)
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