11/24/2008

Acchiappafantasmi n. 4 (All you need is love)

“Quando chiudi la porta con la chiave, sai quello che chiudi fuori, ma non sai quel che chiudi dentro”. Questa frase tutt’altro che rassicurante risuona nel buio della stanza più alta del maniero in un vecchio giallo inglese. Gli altri ospiti sono già tutti morti, e la persona sopravvissuta si trova ora al cospetto dell’assassino: chiusa insieme.
E’ un apologo che ho raccontato spesso, a commento della fobia e della criminalizzazione degli “altri”, gli stranieri, in seguito agli innumerevoli delitti nelle ville mono e bi-famigliari che hanno fatto la nostra Italian beauty. Ma gli assassini erano sempre i propri simili, famigliari o vicini di casa: The Others siamo noi. Un anno fa lessi su un muro del centro storico di Cagliari: “Immigrati, salvateci dagli Italiani”. Leggo ora del tristissimo omicidio-suicidio di Verona, una famiglia agiata, tre bambini, madre avvocato e padre commercialista. Nella pagina accanto leggo che la paura degli Italiani è passata, quella che ha alimentato la vittoria della destra, i pogrom contro i Rom, la Carta della Sicurezza e i sindaci sceriffi. Paura e insicurezza non ci sono più, in compenso si teme per la crisi economica planetaria e l’implosione del capitalismo. Ma è proprio adesso che a me viene paura: la deflazione dei sentimenti. Paura di ciò che può accadere quando gli italiani smettono di avere paura degli altri, quelli visibili, e ne alimentano di invisibili (le retoriche fasciste e hitleriane sono questo). Paura di chi si guarda allo specchio senza accorgersi che sia uno specchio, e viceversa guarda l’altro come se lo fosse, senza empatia, in una solitudine senza desideri. All you need is love, si cantava. Intanto questa claustrofobica normalità nutriva i delitti di Alfred Hitchcock, che avvenivano in cucina o in camera da letto, e sul senso della "normalità" insorgeva l’istrionico Orson Welles ne La Ricotta di P.P. Pasolini, se vi ricordate…
(uscito su l'Unità del 23/11/'98)

11/20/2008

Ritorno alle panchine

Su l'Unità di oggi c'è un bell'articolo di Luigi Ciotti (don Ciotti) dedicato alla socialità delle panchine: lui deve la propria formazione (o educazione sentimentale) a una panchina; ma anche il Gruppo Abele da lui fondato a Torino si riuniva su una panchina; e, tra l'altro, costruisce panchine. Lo accompagna un mio breve scritto (troppo breve, in effetti), il primo dopo l'uscita del mio libro Panchine. Lo propongo qui sotto (la fotografia riportata sopra, con lo sfondo del gazometro, è invece di Maria Andreozzi. A Roma, naturalmente).

Per rendere pubbliche le lettere, gli incontri, le testimonianze, le fotografie e i progetti di cui sono stato destinatario nei pochi mesi seguiti all'uscita del mio libro Panchine, occorrerebbe forse un altro libro. Il bel testo di don Ciotti – con cui, insieme allo scrittore Pino Roveredo, ho dialogato a Torino alla festa del libro “Portici di carta” - è uno di questi incontri.
Su Internet sono perfino sorti siti di immagini e gruppio di lettura dedicati alle panchine. L'adesione a questo “magico oggetto” (come ha scritto un giovane architetto, Mauro Tarsetti), alla “luminescenza dell'attesa”, a volte “rassegnata ma felice” (Roberto Carvelli, un lettore), della panchina, viene dal riconoscere in essa un pezzo vivo e pulsante della propria vita. Non c'è luogo, dai paesini della Valle d'Aosta a quelli del Salento, in cui parlare di panchine non mi abbia procurato scoperte, complicità, incontri – con artigiani, artisti, inventori di panchine, ma soprattutto persone che non sono disposte a perdere il proprio tempo di vita e lo spazio pubblico. Mi ha emozionato condividere con tanti qualcosa di così intimo e sociale insieme: stare seduti, guardare il mondo, pensare i fatti propri, leggere un libro, compiere quel lavoro invisibile che nessun emulo di Brunetta elargirà mai ai propri dipendenti. Come i due speciali lettori che ho incontrato al Festivaletteratura di Mantova, i ragazzi di Vicenza (li ricordate?) multati perché “sorpresi a leggere” un libro nel parco.
Le panchine sono un simbolo di libertà e gratuità che, come tante altre cose un tempo evidenti (perfino la scuola e l'educazione) rischiano l'estinzione in nome di un profitto a breve termine, o per l'ordine totalitario cui si vuole giungere dopo avere indotto paura e insicurezza. Nonostante la loro aura poetica, per molti le panchine sono il contrassegno degli indesiderabili e dei perdenti, e teatro di rappresaglie sociali. A parte quei sindaci che sconsideratamente sono disposti a sacrificarle nella loro guerra contro i poveri (poveri, oggi, si dice “extracomunitari”), penso alla panchina di Rimini pubblicata pochi giorni fa dai giornali (e forse oggi già dimenticata): vi dormiva un senza casa a cui è stato dato fuoco, per crudeltà o disprezzo, lo stesso giorno in cui il governo annunciava di voler schedare i senza tetto (e non per dar loro una casa, ma perché i poveri sono pericolosi).
Tra tutte le lettere che ho ricevuto, di una almeno vorrei rendere conto. Quella, drammatica, di Antonio, un ragazzo di Napoli che non sa conciliare la propria vita, fatta di “scambio di tempo col salario”, coll'umanistico lusso di sedersi su una panchina, e contemplare il mondo e se stessi. Parla delle soste di chi non ha il tempo di farle, perché “scrittore non è”.
Sul supplemento domenicale del giornale di Confindustria c'è una pagina dal titolo “Il tempo liberato”. Finisce così, in una vetrina del lusso, un programma di pensiero (non un'utopia) di quando la politica abbracciava davvero gli orizzonti di senso e di vita delle persone? Tra la deriva del senza casa e il presunto privilegio degli “scrittori”, le panchine ci ricordano che siamo tutti dei potenziali clandestini, degli esiliati, dei rifugiati politici.

11/17/2008

Ghostbusters (acchiappafantasmi n. 3)

No, non è un nuovo film di John Landis, purtroppo, ma il nome della rubrica che da tre settimane tengo la domenica su l'Unità (ieri è apparsa appunto la terza): Acchiappafantasmi. Sono pezzi molto brevi (1800 battute) e quindi per forza di cose densi e molto sintetici. Questa che incollo è sulla politica (considerata come "the others"), le prime due erano dedicate rispettivamente agli studenti (con preannunciata denuncia a Cossiga) e al tema del denaro (il fantasma del "valore").
(Il fantasma della politica)
C’è chi, come mio figlio adolescente, pensa che la presunta “gaffe” di Berlusconi su Obama sia frutto di stupidità, un episodio di cui è doveroso scusarsi. Penso al contrario che si sia trattato di parole omogenee a un modo di pensare intrinsecamente fascista di cui è impossibile scusarsi - salvo destrutturarsi al punto di cambiare identità (e quindi visione politica).
Chiamare “abbronzato” un afroamericano (insulto ribadito di fronte all’indignazione planetaria) è perfettamente esemplare di una concezione monologica del mondo in cui l’alterità dell’altro, la sua stessa identità ed esistenza, è negata alla radice: il nero è un bianco abbronzato, la precaria deve sposare un miliardario (come suo figlio), il borghese che vota a sinistra è un imbecille (ricordate?) perché va contro i propri interessi (difendere i diritti e la dignità degli altri non è previsto). Non sono battute, ma tasselli coerenti di una visione politica che, più che il generico razzismo, ricorda i caratteri dell’antisemitismo (che è sempre alla base un'ipertrofia fascista dell’Io) descritti da Jean-Paul Sartre in un magistrale pamphlet del 1954. Si può anche “salvare” l’ebreo in quanto uomo, scriveva, ma negarlo in quanto ebreo (la logica dell’assimilazione). Anche se oggi, per delegittimare o negare qualcuno, non si dice più “ebreo”, ma “comunista” (o “zingaro”, certo). Anche “politicizzato” è un insulto (ai giudici, agli studenti, ecc.).
Ed è proprio la politica oggi a essere rimossa, così come è bandita ogni conflittualità sociale e di idee. Anni fa si chiamava “terrorista” chi manifestava contro la guerra in Iraq (tra cui, presumo, stava il presidente Obama). Oggi si stigmatizza in ogni ambito civile chi ha una visione del mondo diversa, conflittuale. Dialogare coll’attuale governo significa dargli sempre ragione, confermarlo. Fascismo è questo: confermare se stessi a oltranza. Una patologia, prima che un regime.

Aggiornamenti sulla denuncia al sen. Clossiga

Ricevo e dò in lettura:
Cari amici,
lo studente Davide Pulizzotto, di Roma, ha organizzato sul web una raccolta di firme in appoggio alla denuncia che abbiamo rivolto a Cossiga per le sue allucinanti affermazioni. La trovate a questo indirizzo: http://www.firmiamo.it/petizionecossiga.Questa raccolta di firme di appoggio (usiamo questa parola 'appoggio' per distinguerla dalla 'adesione') non invalida la raccolta di firme di adesione che abbiamo fatto negli scorsi giorni e che conviene continuare a fare. Lo scopo è lo stesso: in ambedue i casi la cosa non ha valore legale, ma solo morale e politico. Ma siccome firmare con un clic è più facile che firmare a mano e mandare l'adesione per fax o per posta, evidentemente per la raccolta di firme su carta alcune centinaia di adesioni sono già una cifra rispettabile (siamo a oltre 700), mentre per la raccolta di firme con un clic l'obiettivo è almeno alcune migliaia. Quindi firmate e diffondete la cosa tra i vostri contatti.
E' evidente a tutti che la sentenza del processo per i fatti della Diaz rende questa campagna ancora più importante. A Genova nel 2001 hanno fatto quello che ora Cossiga propone. E le sentenze assolutorie a Genova, soprattutto nei confronti dei responsabili più elevati nella catena di comando, sono un incoraggiamento a farlo un'altra volta. Cerchiamo di prevenirlo!
Un saluto a tutti
Piero Leone

11/14/2008

Provate un brivido, lasciatevi portare dall'onda anomala, ascoltate la voce di Anna Adamolo

Sono Anna Adamolo, sono il Ministro Onda dell'Istruzione, Università e Ricerca. Il mio compito è quello di tutelare l'istruzione e l'università italiana. Il mio primo impegno sarà il ritiro della Legge 133 e della legge Gelmini.
Sono Anna Adamolo. Non capisco perché il mio ultimo bambino, che andrà a scuola fra sei anni, dovrà fare la scuola elementare con un maestro solo, mentre sua sorella da quattro anni studia con tre maestri, e sta imparando un sacco di cose.
Sono Anna Adamolo. Sono single, e lavoro. Ho già passato le pene dell'inferno per trovare un posto all'asilo per mia figlia, ed ora che lei va alle elementari rischio anche di vedermi rubare il tempo pieno. Sono piena di rabbia: vorrei pensare anche alla mia formazione, per non restare sempre rinchiusa in un ruolo che mi sta stretto. Ma come si fa? Sembra di parlare di fantascienza in questo paese. Eppure non sarebbe difficile: basterebbe avere più asili nido, non essere discriminate sul lavoro quando si hanno dei figli, il tempo pieno magari anche alle medie.
Sono Anna Adamolo. Mio figlio ha 17 anni, mi ha detto che domani ci sarà un'assemblea nella sua scuola. Discuteranno sul decreto Gelmini, cercheranno di capire perché vogliono tagliare i finanziamenti alle scuole pubbliche e lasciare inalterati quelli alle scuole private. Gli ho detto di ascoltare con attenzione, di decidere con i suoi compagni, e se vorranno occupare la scuola tutti insieme faranno bene a farlo. Sono molto preoccupata per il suo futuro.
Sono Anna Adamolo. Ho 42 anni, un'abilitazione all'insegnamento e ho vinto il concorso per italiano e storia negli istituti tecnici. Faccio supplenze da sette anni. Ho vinto un concorso, ma non ho una cattedra. Mi sa che con questa nuova legge non ce l'avrò mai.
Sono Anna Adamolo. Ho cominciato un dottorato di ricerca in fisica l'anno scorso, mi sono laureata con 110 e lode, il mio professore voleva farmi studiare a Livermore, ho preferito restare in Italia, mi piacerebbe, prima o poi, insegnare all'Università. Ho visto che in questa legge Gelmini è previsto che su cinque professori universitari che andranno in pensione, ne verrà assunto uno solo. Avrei fatto meglio ad andare a Livermore.
Sono Anna Adamolo. Sono una studentessa universitaria, non avevo tanta fiducia nell'università, le istituzioni sono dei carrozzoni e ognuno deve arrangiarsi come può. Mi fa rabbia che vogliano tagliare tutti questi fondi all'università, quasi il 25% in cinque anni. Non ci possono ridurre sul lastrico, devo passare altri tre anni qui, forse cinque. Come faremo a studiare senza risorse, con i professori sempre più demotivati, e noi non contiamo niente, niente. Mi sono sentita meglio quando sono andata alle prime assemblee, ho fatto i cortei con le mie amiche e i miei amici, abbiamo occupato. è la prima volta che riusciamo a parlare davvero, che capisco come funzionano le cose. Sono più viva, adesso. Non voglio smettere di lottare finché qualcosa non cambia... CONTINUA A LEGGERE, ANZI, AD ASCOLTARE

11/07/2008

Chiedo scuso se parlo (ancora) degli zingari

Mentre, sempre in nome della "sicurezza", il governo si appresta a schedare anche i clochards, cioè i poveri, i barboni, i senzatetto (e non per aiutarli o dare loro un tetto: schedarli, perché i poveri sono pericolosi), faccio qui una segnalazione che concerne gli zingari, e le leggende metropolitane foriere di violenza; per ricordare anche "il triangolo nero", e che "nessun popolo è illegale"; e comunque sempre a proposito di eclissi della democrazia, della re-pubblica e dei diritti civili. Da AGO PRESS:
“La Zingara rapitrice” è il tema di una conferenza stampa che si terrà lunedì 10 ottobre a Roma presso la sala Marconi della Radio Vaticana. Promossa dalla Fondazione Migrantes, sarà l'occasione per presentare una ricerca commissionata al Dipartimento di Psicologia e Antropologia Culturale dell’Università degli Studi di Verona sui presunti tentati rapimenti, addebitati ai rom nell’arco di tempo che va dal 1986 al 2007 in Italia. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dalle notizie fornite dalla stampa nazionale e esaminati attraverso la consultazione dei fascicoli nei diversi tribunali italiani. Il risultato principale che emerge dalla ricerca è che “non esiste alcun caso in cui viene commesso un rapimento. Nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta e provata oggettivamente. Anche laddove si apre un processo, il fatto contestato viene sempre qualificato come delitto tentato e non commesso, le cui circostanze aprono ad una complessa valutazione - all’interno della quale possono a volte far capolino le categorie del senso comune - dell’esistenza o meno della volontà dolosa”.
Durante la conferenza stampa saranno presentati anche i dati di un’altra ricerca volta a verificare quanti bambini figli di rom e sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai tribunali dei minori italiani a famiglie “gagè”, non zingare.
(Commento mio (b.s.): è per questa leggenda metropolitana - gli zingari rubano bambini - che il convegno citato sopra, per quanto con estema prudenza e tantissimi eufemismi, si appresta a smontare, che sono stati incendiati ed evacuati campi nomadi, che il ministro maroni ha potuto varare la sua carta della sicurezza, con proliferazione di divieti da parte dei sindaci-sceriffi, e forse anche il fatto che roma sia governata oggi da alemanno, ecc. ecc.)

11/06/2008

"Perché denuncio Cossiga"

Le parole che riporto qui di seguito sono dell'amico Pietro Leone, da cui è partita la denuncia di cui ho dato notizia. A questo proposito ricordo che chi vuole aderire, seguendo la forma riportata nel post precedente, può indirizzare l'adesione (autografa) a: Pietro Leone, via Flaminia 287 villino 33 CAP 00196 - oppure per fax al numero 06 3220789. E ora il suo testo:

Un giudice a Berlino
Ho deciso di denunciare Cossiga per le pazzesche dichiarazioni che ha fatto e che tutti conoscete.
Perché ho preso questa decisione che può sembrare stravagante?
Innanzitutto perché finora nessun altro lo ha fatto. E soprattutto non lo hanno fatto personaggi e istituzioni che ne avrebbero il dovere.
E poi perché non ci si deve rassegnare alla rassegnazione.
Da anni viviamo in un paese in cui un politico può dire tranquillamente che ci sono i fucili pronti e continuare a fare il ministro dello stesso stato contro cui vuole organizzare una ridicola (ma non per questo meno pericolosa) rivoluzione. E allora, passo dopo passo, si può sprofondare sempre di più nelle sabbie mobili senza che ci facciamo caso. E anche l’istigazione a ferire studenti e insegnanti, e a usare per questo agenti provocatori può sembrare una cosa quasi normale. Insomma – si dice - il personaggio è fatto così, non ci sta più tanto con la testa, è un po’ matto … L’eversione viene mascherata da folclore! In questa situazione anche Gelli può diventare maestro di storia.
Ma anche i pazzi possono essere pericolosi. Come notava pochi giorni fa un giornalista, se Oswald fosse stato beccato il giorno prima che Kennedy passasse per Dallas, si sarebbe detto che un povero sprovveduto stava organizzando un improbabile attentato al presidente degli Stati Uniti. E lo stesso si sarebbe potuto dire (lo stesso giornalista di cui sopra ha fatto anche questo paragone) di Gavrilo Prinkip che con l’attentato di Sarajewo accese la miccia della prima guerra mondiale. E lo stesso si potrebbe dire di tanti altri casi.
Siamo da poco usciti da un secolo in cui le parole sono state spesso pietre acuminate. I futuristi esaltavano i lanciafiamme e le altre armi moderne. A loro sembrava un bel gesto per scandalizzare i borghesi. Poco dopo quelle armi sbudellavano realmente milioni di persone nella prima guerra mondiale. Negli anni settanta prima si mimava la P 38 con le mani, sembrava un gesto innocuo; poi la P 38 si è materializzata e ha sparato. E non voglio continuare con gli esempi.
Nel caso di Cossiga al consiglio criminale a Maroni si unisce l’esaltazione del proprio stesso operato. L’istigazione si combina con l’apologia del (proprio) reato: ovvero: confessione senza pentimento: confessione come rivendicazione (e se – ipotesi improbabile – non fosse vero, allora sarebbe simulazione di reato).
Ma che mi aspetto da questa denuncia?
C’è un obiettivo massimo e un obiettivo minimo. L’obiettivo massimo è la condanna di Francesco Cossiga per i reati che gli contesto. Se io avessi istigato la folla a rapinare una banca sarei stato arrestato e giustamente condannato. Se Cossiga fa di peggio deve restare impunito? E’ pazzo? Ma allora lo si proclami pubblicamente e si dica urbi et orbi che tutto quello che Cossiga dice va attribuito alla sua malattia mentale. Ma in questo caso non gli si faccia da altoparlante. Se invece non è ufficialmente dichiarato incapace di intendere e volere va considerato responsabile di quello che fa e di quello che dice, soprattutto quando quello che dice può influenzare i fatti, o comunque incoraggiare a commettere atti delittuosi.
E l’obiettivo minimo? Una volta un contadino prussiano aveva fatto causa non ricordo a quale personaggio importante. A chi gli obiettava che non avrebbe ottenuto nulla, rispose: “Ci sarà pure un giudice a Berlino”. Anch’io mi auguro che ci sia un giudice a Berlino. Ma se c’è o non c’è non dipende da me. Ma almeno che si sappia che non ci si rassegna, che non ci si abitua. E che qualcuno (non una sola persona, sono molti) reclama che questo giudice a Berlino ci sia e faccia il suo dovere.
Pietro Leone
P.S. Nei commenti, l'appello in francese di un giornalista (francese) sul deteriorarsi progressivo della democrazia in Italia, a partire dalle dichiarazioni del senatore Cossiga. (Nel suo appello europeo, egli riprende il testo della denuncia).

11/04/2008

Avviso importante: depositata una denuncia contro il Senatore Francesco Cossiga

Questo non è un appello, è una segnalazione. Un'informazione.
E' stata depositata presso la Procura dela Repubblica di Roma una denuncia al senatore Francesco Cossiga, come si legge nel testo che qui di seguito incollo. Dopo di esso, incollo anche il facsimile per l'adesione alla denuncia.
Aggiungo solo questo, frettolosamente: chi sa, direttamente o indirettamente, che cosa è accaduto nel 1977 e dopo; chi è andato all'epoca alle manifestazioni di protesta (erano tante, e varie) senza riempirsi le tasche di bulloni, senza delirare su "alzare il livello dello scontro", e solo per protestare; chi ha conosciuto, direttamente o indirettamente, il trauma di essere oggetto di sparatorie, accerchiato, assediato, infiltrato; chi si ricorda il significato della parola "repressione", prima e/o dopo il G8 di Genova (io lo ricordo da prima), e chi si ricorda di Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa nel maggio 1977 da un proiettile sul Ponte Garibaldi a Roma, durante una manifestazione indetta dai radicali (!), plurinfiltrata da poliziotti infiltati e armati, allora sa come si può essere indignati per le dichiarazioni oggetto di denuncia dell'allora (anni Settanta) ministro dell'Interno Cossiga.

Alla Procura della Repubblica di Roma

I sottoscritti denunciano alla Procura della Repubblica di Roma il senatore Francesco Cossiga per le dichiarazioni da lui rilasciate a “Il giorno”, “Il resto del Carlino” e “La Nazione”, pubblicate su questi quotidiani il 23 ottobre scorso, dichiarazioni tanto più gravi in quanto provengono da un personaggio che ha ricoperto i ruoli più elevati nelle istituzioni della Repubblica Italiana.
Nell’ambito di queste dichiarazioni appaiono particolarmente delittuose le seguenti affermazioni (tra virgolette le parole del senatore Cossiga, il resto del testo è costituito dalle domande e dagli interventi del giornalista).
“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno”.
Ossia?
<…>
“In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...».
Gli universitari, invece?
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti».
Presidente, il suo è un paradosso, no?
«Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

(Fonte: Rassegna stampa del governo italiano: http://rassegna.governo.it/testo.asp?d=32976406)

In tali dichiarazioni sono rilevabili i reati – quanto meno – di istigazione a delinquere, commesso pubblicamente come richiesto dalla legge per la sua punibilità: istigazione rivolta sia al ministro Maroni sia agli stessi organi di polizia preposti all’ordine pubblico (art. 414 CP); di istigazione di militari (i Carabinieri) a disobbedire alle leggi a violare il giuramento – sulla Costituzione - (art. 266 CP:) e di apologia di reato (ancora 414 CP), in relazione ai reati da lui commessi ed ora spudoratamente confessati.
I sottoscritti chiedono che per quanto sopra si proceda penalmente a carico del sen. Francesco COSSIGA per i reati suddetti e per tutti quelli che potranno essere ravvisati.
Dichiarano di sentirsi, come cittadini della Repubblica, persone offese da tali reati; riservano la costituzione di parte civile e formalmente chiedono, ai sensi dell'’art. 408 CP, di essere informati in caso di richiesta di archiviazione.
I firmatari denuncianti sono 5. Le adesioni allegate 218. Tra i firmatari, Pietro Leone – nato il 16 06 1939, residente a Roma - e-mail: piero.leone@gmail.com, a cui si possono far pervenire, anche per fax, le adesioni. I suoi recapiti: 06 3220789 (tel. e fax) e cell. 3396085505.

FACSIMILE PER ADERIRE:
Alla Procura della Repubblica di Roma

I sottoscritti cittadini italiani dichiarano di aderire alla denuncia fatta alla Procura della Repubblica di Roma, da Pietro Leone ed altri, nei confronti del senatore Francesco Cossiga a proposito delle sue recenti dichiarazioni ad alcuni giorni in cui i denuncianti hanno ravvisato l’ipotesi del reato di istigazione a delinquere (art. 414 CP), istigazione di militari (art. 266 CP) e apologia di reato (ancora art. 414 CP).
Cognome Nome Data di nascita Indirizzo Firma

11/02/2008

Jean-Luc Nancy, "Stagioni del mondo" (un inedito)

Ho ricevuto dal filosofo Jean-Luc Nancy questo testo inedito (e recentissimo), Saisons du monde, che ho tradotto per l'Unità, in edicola oggi. (Sempre oggi su l'Unità parte una mia rubrica dal titolo "Acchiappafantasmi" - questa prima sugli studenti, gli anni Settanta e sul fantasma di Cossiga, nei confronti del quale sta per partire una denuncia di cui vi aggiornerò. Ora è più bello leggere Nancy).

STAGIONI DEL MONDO, di Jean-Luc Nancy

Le «età del mondo» rappresentavano il più delle volte una forma di successione continua, uguale a quella delle età della vita e che spesso, come la vita, passava da un’infanzia a una maturità, poi a una vecchiaia. L’infanzia stessa poteva a volte essere luminosa e inaugurale, altre rude e oscura; ma l’invecchiare era assicurato, e con esso la perdita della brillantezza e del vigore, sia quelli dell’infanzia che dell’età matura. Si poteva anche concepire l’idea che alla vecchiaia seguisse una rinascita, ma sarebbe allora un altro mondo, non più un’altra età. Sarebbero un’altra vita e un’altra natura – oppure le stesse, ma sotto altri cieli.

Passata l’età delle età, il mondo incontrò la storia, non più regolata sul modello di una vita, ma su quello di una concatenazione di azioni notevoli. Tali azioni erano quelle degli umani, e ci si allontanava così dal processo di un mondo. Gli uomini fondavano, inventavano, conquistavano, producevano. Producevano se stessi nelle loro civiltà, nelle loro culture, nei loro pensieri e nelle loro rappresentazioni. Questa produzione conosceva delle epoche e delle aree. La geografia delle aree – oriente o occidente, isole o continenti, spazi aperti o chiusi – incrociava nella sua distribuzione contingente delle successioni di epoche, cioè delle durate relativamente stabili e identificabili, come un ordine interno di significati, ossia come un « mondo » (il «mondo greco», il «mondo delle cattedrali», ecc.). Ma questa successione di mondi non apparteneva a sua volta a un mondo: la storia in quanto movimento eccedeva l’idea di mondo. Piuttosto, essa trasformava il mondo: sia con incessanti modificazioni o mutazioni di quella stessa idea – e soprattutto, con l’invenzione di « nuovi mondi » - sia al contrario proiettando la finalità di tutto questo processo – o progresso – come la produzione di un ultimo mondo che sarebbe di fatto una nuova natura: quella di un’umanità strappata agli assoggettamenti dell’antica.

La storia ha fatto epoca: la sua epoca al tempo stesso si richiude e si prolunga. Si richiude in quanto rappresentazione di un processo (e ancor più di un «progresso»), e si prolunga in quanto evento, mutazione, spostamento. Non c’è più fine né orizzonte. Niente più fine, né mirata (visée) né visibile (anche se pensiamo sempre – e dobbiamo farlo – di poterci dare degli «obiettivi»); e niente più fine come compimento. Né skopostelos. Di conseguenza, più nessuna «fine ultima»: niente più eschaton – a meno che, potremmo anche pensare, non vi ci sia già, e senza saperlo procediamo verso il nostro giudizio finale in una conflagrazione cosmica.

***

Noi non possiamo anticipare. Eppure sembra proprio che la grande trasformazione del mondo in cui siamo entrati – che si chiama «mondializzazione», come se la sua posta in gioco fosse tutta nel sapere se ci sarà ancora «mondo» oppure no – proceda a grandi passi fuori dalla natura e dalla storia, fuori dalle età e dalle epoche, verso un altro spazio-tempo, un altro ritmo.

Noi possiamo tentare di parlare di stagioni, intendendo con questo ciò che non è né età (ciò che tornerebbe, all’interno dello stesso mondo) né epoca (perché non si stabilizza come un ordine o una struttura); e che non rimanda a un processo continuo, né progressivo né regressivo. Le stagioni ritmano un ciclo, ma ciò che conta in questa parola - «stagione» - è meno il ritorno ciclico che non le variazioni del cielo, dell’aria e della terra, dei colori e delle fragranze: un tremore discontinuo della sensibilità.

Noi non consideriamo, parlando di stagioni, né il semplice valore naturale dei vari sbocciare e ibernarsi, né ben inteso il valore storico secondo cui, tendenzialmente, «non ci sono più stagioni», perché la lunga portata del processo le rende insignificanti. Cerchiamo al contrario, al di sopra di natura e storia, o a lato di esse, spostato, il valore della sensibilità al cambiamento, e della capacità di conformarsi o confrontarsi ad esso.

Più che del tempo che passa, si tratta del tempo che fa. Più che del tempo cronologico, del tempo meteorologico. Non di un vettore uniforme, ma di una costellazione mobile di eventi, umori, passaggi e fughe, occasioni – possibilità e rischi – disseminate lungo un tragitto imprevisto, aleatorio, piuttosto che nel corso di una durata omogenea.

Secondo la stagione – che non è mai la stessa che negli anni passati – si tratta di adattarsi, non con sottomissione ma con ingegno e attenzione. Non di restare al riparo della pioggia o del sole, ma di coglierne il gusto, gli umori, aggirarne gli ostacoli favorendone le risorse. Sono, questi, il sapere e la facoltà dei contadini: noi non cesseremo mai di esserlo, per quanto operai e cittadini siamo potuti diventare.

Del resto, non vediamo trasformarsi anche i nostri lavori e le nostre città, fino a non assomigliarsi più? Non diventiamo forse qualcosa d’altro che operai e cittadini ? Contadini di un altro paese, di un altro paesaggio. Coltivatori di una terra sconvolta di cui ignoriamo ancora se sia coltivabile, e quali frutti potrebbe portare. Né Oriente, né Occidente, né Sud, né Nord, ma in tutti i sensi spostamenti, ricomposizioni, derive di continenti, desertificazioni e innalzamenti dei mari: natura rimodellata, storia dai racconti multipli e reversibili, destini improbabili privati di Dei come di astri.

Stagioni: ciò che vorrebbe dire prima di tutto suspens e attenzione sul bordo di ignote germinazioni, forse mostruose, forse generose; ciò che vorrebbe dire farsi o lasciarsi diventare sensibili ad altri ritmi, altre andamenti del cielo e della terra – e forse alla possibilità che non ci siano più cielo né terra, ma una configurazione inedita, un altro mondo, più cosmico o tellurico, più intrigante e non meno inquietante di quello cui si esponevano i primi uomini.

Stagioni: cioè ragioni di sentirci ancora, se è possibile, al mondo.

11/01/2008

Il giorno in cui è morto Borges

Aspettando il giorno dei Morti (e dei Santi), facendo ordine tra i files, i cassetti e i fogli virtuali del vecchio computer, ho trovato questa specie di racconto uscito sulla rivista "Marka" nel 1986 (avevo ventisei anni), che mi aveva chiesto un intervento sul "narrare"; e poi una foto di me vent'anni dopo. C'è un evidente legame tra l'uno e l'altra. E tra tutt'e due e il giorno dei Morti (e dei Santi).


Come se venissimo scacciati nei boschi

Vorrei cominciare da una passeggiata.
Domenica 15 giugno sono uscito di casa dopo mezzogiorno. L’idea era di sedermi a leggere da qualche parte, e magari mangiare qualcosa. Sulla strada ho comprato il Corriere della Sera, avevo con me un quaderno e il libro di appunti di Walter Benjamin su Parigi. Devo fare in questi giorni un programma di ricerca per sollecitare un nuovo credito in forma di borsa di studio, consacrato come quello precedente alla letteratura intima ed epistolare, in particolare di alcuni autori romantici. Ho pensato che leggere gli appunti di Benjamin sulla fla^nerie mi avrebbe dato delle idee: anche la lettera è un vagabondaggio.
Ho scartato l’Ile Rousseau, dove ho spesso studiato, perché il bar è troppo caro e di domenica troppo affollato. Ho pensato alla vieille ville, col sole e gli alberi. Del Café Papon, nella terrazza che si affaccia sul parco dell’università, ho il ricordo di un buon posto dove leggere il giornale.
Ma hanno cambiato l’arredo, e quando arrivo trovo dei tavoli grandi e inospitali, buoni per mangiare la pizza in comitiva (l’accento dominante tra i clienti è americano). Giro intorno al bar indeciso, quando accanto a un albero scorgo un piccione morto, forse decapitato, con del sangue raggrumato intorno. Mi esce una breve esclamazione di disgusto, più che altro rivolta all’inconsapevole indifferenza dei clienti sudati che mangiano lì vicino, e del personale di servizio. Alla fine scelgo di sedermi a un tavolo vicino all’entrata del ristorante, all’ombra e lontano dal piccione. Appena mi siedo faccio uno starnuto, mi guardo intorno per comandare qualcosa e sul muro di fianco, a un palmo dalla mia testa, vedo un buco tra i mattoni nel quale galleggiano su delle ragnatele, in un disordine amorfo, vari detriti, tra cui una chewingum masticata. Questa visione mi fa più schifo della precedente, perché non è possibile alcuna redenzione, e brontolando mi alzo seguito dallo sguardo di una coppia. Inizio così una peregrinazione sotto il sole, il libro voluminoso di Benjamin in mano, da un bistrot all’altro, ogni volta respinto da una minaccia diversa. L’ultimo posto puzzava di fonduta al formaggio.
Eppure, penso, l’aria è bella e pulita, il cielo è azzurro e bianco, c’è il sole e ho voglia di sedermi a leggere. Mi fermo sulla Terrazza Agrippa d’Aubigné, dopo aver percorso la rue Calvin e costeggiato la cattedrale. Da una fenditura tra gli edifici guardo il lago, il getto d’acqua bianca e spumeggiante che spunta sopra i tetti, le onde e le barche a vela. Le case intorno sono sobrie e color crema, dalle finestre intravedo qualche interno e mi viene voglia di trovarmi a Parigi, così, per vedere delle case. Del lago, in fondo, non mi importa più di tanto. Così mi accorgo, accendendomi una sigaretta, di non avere nessuna premura, e appoggiandomi al muretto decido di sfogliare il mio giornale. E’ morto Borges. Allora vado a pagina tre, che è tutta consacrata a questo evento. Il primo articolo che appare è di Claudio Magris, “La letteratura non salva la vita”.

Spesso mi sono riferito a dei libri. Le letture fanno parte della mia sfera di esperienza a pari titolo (forse addirittura a maggior titolo, mi rimproverava un’amica) di altri miei atti o stati del mondo. Non solo le letture: voglio dire i libri, anche quelli non letti. Di conseguenza anche i loro autori. Sono sempre stato piuttosto sicuro nel riferire frasi tratte da libri, enunciazioni che potessero sostenere le mie idee (dunque mi capitava di avere delle idee da sostenere). Ad esempio citavo Gilles Deleuze, più spesso senza nominarlo: letteratura minore, letteratura di idee, movimenti, macchine astratte, esilio, stare sempre nel mezzo come l’erba, voltità, muro bianco e buchi neri, l’ape e l’orchidea, essere stranieri nella propria lingua (cercare di esserlo), linee di fuga, concatenamenti, divenire sempre, non diventare mai, metamorfosi vs metafora, ecc. Naturalmente altri concetti e parole chiave si sono aggiunte alla lista: opacità (contro la trasparenza), racconto breve, soggettività, narrare vs romanzo, diluendosi in un territorio così vasto che la libertà mi è sembrata alla fine totale, e ogni morale provvisoria, un po’ come quella frase di Giorgio Manganelli che un mio amico ama citare, “le vie della salvezza letteraria sono infinite”; e che mi potrebbe anche far comodo, se non fosse che, della salvezza letteraria, non mi importa assolutamente nulla.
La provvisorietà della morale letteraria (che non comporta la rinuncia a un’etica) ha preso per me questa forma, di volere situare quello che scrivo in un luogo o in direzione di un luogo. Non mi interessano soltanto le coordinate, per così dire, geopoetiche di quello che scrivo o che leggo, ma vorrei riportare nella scrittura l’effettualità e la coscienza aurorale che si trovano nell’esperienza quotidiana e nell’esperienza dello spazio. Per questo forse faccio fatica, oggi, a dire la mia sul narrare, o sul racconto, come se fosse possibile enunciare qualcosa che non sia in sé narrazione, come se si potesse dare una riflessione che già non si racconti, e viceversa.
In questo mio desiderio di reportage (si tratta in fondo di questo) c’è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Parlo dell’abitare. Sono stupito dell’abitabilità. Più ancora del mistero della luce, il fatto di abitare da qualche parte, che la gente abiti qui o là e che spesso affronti il problema della casa con quieta sicumera, mi turba e mi affascina: sia che si tratti degli invisibili abitatori di quelle ville allineate sul lago, tra Ginevra e Losanna, immersi nella nebbia sei mesi all’anno, sia dei pescatori di tonno dell’isola di Lampedusa. Forse perché mi sembra questa la finzione più grande, la più misteriosa - abitare una casa, un luogo, un genere, una forma, avere delle abitudini, di fronte a cui le mie reazioni sono mutevoli e contraddittorie: nostalgia, identificazione, desiderio di essere come gli altri; oppure repulsione, scetticismo, cercare una via d’uscita o di fuga.
Alla ricerca di un gesto, di una consuetudine, ho appreso nel cuore della città vecchia di Ginevra della morte dello scrittore Jorge Luis Borges. “Devono essere tutti fioriti gli alberi del cortile del Liceo Calvino, a Ginevra, adesso che Borges è morto, a due passi dalla scuola dove andò da ragazzo”, intonava un corsivo del Corriere. Allora mi volto, è vero, sono tutti fioriti da un pezzo. Dopo mi sono sentito più calmo. Ho letto sulla fla^nerie in un baretto qualsiasi, poi ho scritto sul quaderno una traccia di questo mio intervento a partire da quella “coincidenza”: scrivere sui luoghi (la scrittura deve dare delle forme per vedere il mondo; uno di quelli che oggi mi piacciono di più è James Ballard); passeggiata nella vieille ville (incidenti, piccione morto, odore di fonduta e morte di Borges – uno scrittore che ho amato – proprio nei luoghi in cui mi trovo in questo momento); questo apologo non ha una morale, e forse non è una storia, difficile è estrapolarne i nessi, ma non è la mia preoccupazione; infine, che di Borges mi piace soprattutto il gusto per gli avvenimenti semplici, effettuali, eventuali, e insieme il fatto che la sua opera non è che una serie di frammenti, di testi molto brevi e sparsi, come ha detto lui stesso.
Borges ha soprattutto insegnato che non c’è differenza tra pensare e raccontare, e ha introdotto una possibilità nuova, anche se evidente: fare il riassunto di una narrazione più lunga, di quel romanzo che si è troppo stanchi, o pigri, o scettici, per scriverlo e abitarlo.

Esiste una bellissima storia, raccontata dai Chassidìm, che mi viene ora in mente, e che mi sembra molto adatta a rilanciare un’idea etica del raccontare, oltre che a chiudere questo testo. La cito a memoria come l’ho letta tempo fa in un libro sulla mistica ebraica.
C’era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione. Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere”, e questo era sufficiente. Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva”, e infatti bastava. Finché, in un’altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”. E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.

Per concludere devo dire della telefonata di V.
La sera di domenica 15 giugno mi ha telefonato un amico da Parma. E’ un bravo poeta, in questo periodo non compra i giornali, sta molto in casa e sta ultimando una raccolta di poesie. Mi ha letto qualche suo verso, poi mi ha annunciato che, di lì a poco, gli avrebbero tagliato il telefono. Poteva quindi indugiare più a lungo del solito. Nel corso della conversazione mi ha letto una frase di Kafka tratta da una sua lettera. Non so se faccia parte delle coincidenze, o anche solo della storia, né se sia importante situarla in un tempo. Ho però trovato importante trascriverla. Eccola:
“Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci colpisce duramente, come la morte di qualcuno che amavamo più di noi stessi, come se venissimo scacciati nei boschi, via da tutti gli uomini. Come la notizia di un suicidio, un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi”.