2/24/2008

Il "sacro" e l'arte - per Emilio Villa

A dispetto di una dolorosa sciatalgia che mi rende quasi invalido, ho passato un fine settimana molto mosso. Venerdì una conversazione pubblica in cui ho imparato tante cose, a Parma, con Gea Casolaro e Simona Vinci (titolo "italian beauty"). Sabato un'esperienza davvero emozionante: la mostra a Reggio Emilia, che ho visitato durante l'allestimento con l'amico Claudio Parmiggiani, che l'ha curata e progettata, dal titolo Emilio Villa poeta e scrittore. Non solo i suoi manoscritti, traduzioni della Bibbia comprese, ma alcune opere degli artisti con cui ha condiviso passioni fervide, da Burri a Rothko, da Capogrossi a Manzoni, da Pollock a Matta, Sam Francis, Cy Twombly ecc. Andateci, c'è tempo fino ai primi di aprile. Alcune impressioni le ho scritte a caldo in un pezzo un po' frettoloso che uscirà sull'Unità domani, a corredo del bellissimo testo di Claudio Parmiggiani che appare nel catalogo della mostra. Ecco il mio:

Ho visto sabato a Reggio Emilia una delle mostre più belle della mia vita. E' nella chiesa dei gesuiti di San Giorgio - chiesa consacrata, anche se nel contenitore lievemente barocco non c'è segno di iconografia cattolica, neppure un Crocefisso. Al suo posto, sull'altare maggiore, si innalza una scultura in ferro di Ettore Colla, un'asta che regge tre ovali che raccolgono luce dall'alto; ai piedi dell'altare, come un libro nero ondulato, due superfici di metallo di Francesco Lo Savio, tra un'opera di Matta e una di Sam Francis. Appena entrati, del resto, la prima cappella a sinistra, tra colonne di marmo bianco di Carrara decorate a rilievo, incornicia una “Superficie” di Giuseppe Capogrossi del 1959, e quella di destra, tra marmi rossastri, un “Concetto spaziale” di Lucio Fontana. Mi volto: sul paramento della porta una grande tela di Corrado Cagli. Cammino sotto le volte, emozionato dalla bellezza di questo allestimento che è in sé una grande opera estetica e liturgica. La seconda cappella sulla sinistra racchiude, tra colonne di marmo nero e decorazioni secentesche, una tela di Jackson Pollock (“Black and Silver III”) e, di fronte, l'opera di Piero Manzoni “Achrome” (1958-59). La terza cappella a sinistra della navata centrale alberga al centro una tela bellissima di Mark Rothko del 1961, bianco, arancione e nero, mentre di fronte al posto della pala d'altare c'è un “Sacco” del 1953 di Alberto Burri. Non è solo il vedere opere amate e intense, ma vederle nella migliore cornice che forse esse abbiano mai avuta. Come si spiega questo miracolo?
Sono opere di alcuni degli artisti affermati, amati, attraversati, negli anni '50 e '60, da un testimone e complice straordinario, “Emilio Villa, poeta e scrittore”, come titola la mostra. Sulle pareti, tra un altare e l'altro, il visitatore legge brani dei testi che Villa scrisse in loro nome e occasione – in un gesto che in realtà li oltrepassa in un'autonoma tensione poetica verbale - raccolti nel 1970 in un volume tanto leggendario quanto, allora, commercialmente fallimentare: Attributi dell'arte odierna 1947/1967, voluto dall'allora editor della Feltrinelli Aldo Tagliaferri. Nello spazio centrale della chiesa e sulle pareti dell'abside, vetrine e bacheche mostrano manoscritti e libri di Emilio Villa, poesie, corrispondenza (con Marcel Duchamp, ad esempio) e le sue preziose traduzioni della Bibbia. Chi sia Emilio Villa (1914-2003) è facile e difficile a dirsi: uno dei più grandi e inafferrabili poeti del secondo Novecento in Italia, sperimentatore babelico e senza requie di linguaggi, un Joyce italiano imbevuto di Ezra Pound, traduttore dell'Odissea e della Bibbia e studioso di lingue mesopotamiche in continuità con le proprie poesie, ispiratore di artisti (come Burri e Nuvolo, ad esempio, con cui condivise passioni e povertà nella Roma dei primi anni '50), colui che spinse Rotella a strappare i manifesti e perseverare nei suoi oggi famosi décollages, a riprova che la città ordinaria fosse già bellezza e già museo. Ma Emilio Villa fu anche ribelle irriducibile nella vita e nelle forme, in una tensione infinita e quasi messianica, fino alla dissipazione. Studi recenti, a partire dalla biografia che gli ha dedicato Aldo Tagliaferri (Il clandestino. Vita e opere di Emilio Villa, DeriveApprodi 2004) approfondiscono la portata della sua opera utopica, intrisa di teologia apofatica e densa di analogie, precoci e attualissime, col “basso materialismo” di Georges Bataille, con cui condivise di certo l'attenzione alle basi antropologiche dell'arte e del sacro. Oltre al ricco catalogo della mostra edito da Mazzotta (con una presentazione di Claudio Parmiggiani), è felicemente oggi in libreria la ristampa, con un secondo volume di inediti, di quegli Attributi all'arte odierna citati sopra (Le Lettere, pp. 463, euro 42). Nel secondo volume, i testi in appendice di Carla Subrizi, Aldo Tagliaferri e Andrea Cortellessa misurano l'entità del lavoro estetico di Emilio Villa, la sua idea di inesauribilità e processualità dell'arte e della poesia, la sua costante avversione verso formule critiche e mercantili che ne addomesticano l'energia, la sua concezione mistica, fino alla dissoluzione, del fare dell'arte.
L'allestimento della mostra di Reggio Emilia, visitabile fino al 6 aprile, dice già tutto questo con perfetta coerenza: la dimensione cultuale, non banalmente culturale, dell'arte e della poesia di Emilio Villa. Ad averla realizzata, come una sola miracolosa opera, è uno dei più grandi e umili artisti contemporanei, Claudio Parmiggiani, già amico devoto di Emilio Villa.

2/18/2008

Lettera a l'Unità (sull'Unità)

Oggi a Roma, alle 14,30, nella sede della FNSI, si svolge l'Unità day (sic!), manifestazione di solidarietà per il giornale l'Unità, impantanata in una trattativa di vendita confusa. Quello che è chiaro, è che ormai da tempo l'attuale proprietà non cura e non ama il giornale, e si vede. Ma la solidarietà è molto diffusa, e sul giornale di oggi c'è un primo elenco di adesioni. Molti gli scrittori italiani (già collaboratori, anche, de l'Unità). Qualunque sia il nuovo proprietario, se ci sarà, esiste ora un comitato di garanti rappresentato da Clara Sereni, Furio Colombo e Alfredo Reichlin. A loro ho consegnato (impossibilitato ad esserci) questo mio messaggio di adesione da leggere durante la manifestazione, che incollo qui di seguito:
"... oltre ad onorarmi di essere stato un collaboratore del giornale – soprattutto delle sue pagine dette culturali - dal 2001 in poi, ricordo l'ultima occasione in cui ho indirizzato una lettera pubblica sull'argomento “Unità”, ovvero a commento della valanga di lettere che arrivavano al giornale per cercare di contrastare l'allontanamento di Furio Colombo dalla direzione. “La posta in gioco”, come la chiamai allora, di quell'evento, è una cosa che non si può rimuovere o dimenticare: sorta di buco nero nella coscienza dei lettori e di chi ha avuto nei confronti dell'Unità responsabilità dirette: la proprietà innanzitutto, e il partito di riferimento.
Qualcuno tra i presenti è in grado di dire con parole semplici e non imbarazzanti a cosa fu dovuto quel “cambiamento”? Ci provo io. Fu un fastidio istituzionale (politico, partitico) nei confronti di un giornale (di sinistra) che lanciava parole d'ordine, che faceva opinione. Era troppo aggressivo? Forse. Ma qualcuno, molto miope, scambiò la sua autonomia e autorevolezza come un limite, e il successo dell'Unità come una minaccia.
Ricordarlo non è un esercizio retorico né polemico: il declino – calo di vendite, ma non solo - ha inizio da quella data. La fiducia dei lettori – il poeta Coleridge la chiamerebbe “sospensione volontaria dell'incredulità”, willing suspension of the disbelief – si è incrinata allora, con conseguente allontanamento di parte di essi. Si è dissolta la possibilità dei lettori di identificarsi, non solo politicamente ma anche esistenzialmente, moralmente e culturalmente, con il giornale. Tutto ciò ben prima di quella che con una scorciatoia viene detta oggi anti-politica, e che significa invece disincanto.
Nei suoi primi anni di vita la nuova Unità presentava anche questa caratteristica rilevata dai sondaggi: il fatto che tra le prime ragioni di acquisto del giornale c'erano le pagine della cultura, “Orizzonti”. Erano le pagine degli scrittori italiani. A ripensarci, faccio fatica a identificare chi dei migliori scrittori non vi abbia collaborato; così come, incontrando amici scrittori in giro per l'Italia, ero testimone della simpatia e adesione che riscuoteva l'Unità, considerata unica nel panorama imbalsamato o del tutto commercializzato delle pagine culturali degli altri giornali, anche autorevoli.
Ormai lo sappiamo tutti: non si compra un giornale soltanto per sapere che cosa è successo - per questo basterebbero Internet e la televisione - e ognuno conosce la sensazione di déjà vu, anzi di già letto, che ci riservano le prime pagine. Compriamo e leggiamo un giornale per sapere come è successo quello che è successo, e questo come, che è spiegazione, analisi, commento, è soprattutto una promessa di qualità e di stile di linguaggio. Di allargamento degli orizzonti delle cosiddette notizie. La cultura, parafrasando Pound, è fatta di news, notizie, che restano tali anche dopo averle lette.
Ma la proprietà, dimostratasi già permeabile e influenzabile dal partito politico di riferimento, ha progressivamente e vistosamente disinvestito nel giornale. Un disinvestimento economico e affettivo: nonostante i sempre annunciati nuovi piani per il giornale, è stato tagliato tutto il tagliabile, dal numero delle pagine ai budget per i collaboratori. Che idea di futuro può trasmettere il giornale a queste condizioni?
Mi piacerebbe che si dibattesse, all'interno e non all'esterno de l'Unità, il giornale che si vorrebbe.
Il patrimonio del giornale è nelle energie di quella rifondazione che ha riportato nelle edicole un quotidiano con una forte identità di sinistra, libera e plurale, che lo distingueva da tutte le altre testate, e una ricchezza di sperimentazioni di linguaggi che accorciavano la distanza tra chi scrive e chi legge. L'auspicio è che chi abbia le condizioni di sostenerlo non perda altro tempo; che sospenda, durevolmente, l'incredulità".

2/14/2008

Se non posso avere una casa, lasciatemi almeno una homepage

Mi sono reso conto all'improvviso che questo blog ha già un anno. E' nato - cioè, ci sono state scritte le prime incredule parole, stupite di esserci - il 13 febbraio 2007. E' nato dentro a un sito (che è ancora sempre da sistemare - per esempio mancano completamente le presentazioni dei libri che ho fatto come le vorrei, e mancano tutte le recensioni, ammesso che sia una buona idea metterle), sito a sua volta fatto e pensato come dono dall'artista David Pesarin. A tutt'oggi, non so ancora che cosa sia un blog (parlo per me) né che senso abbia - c'è e basta. E quando Loredana Lipperini mi fece lo scherzo di chiedermi pubblicamente perché facessi un blog (insieme a me lo chiese ad altri, tra cui Babsi Jones, avevo scritto questa cosa qui (orgoglioso che piacesse a Babsi Jones, che l'aveva ripresa nel suo blog). Ecco, i blog degli altri non mi fanno problema, il mio sì. Perché? Perché scrivo. E non sono in pace con lo scrivere cose inutili. Nello stesso tempo, amo soprattutto ciò che è inutile (anche il dottorato in Estetica lo dedicai a una pratica così, le lettere - "Lettere&Filosofia").
Beh, buon compleanno: a chi frequenta questo sito.

Minimondi (per un'educazione estetica)

A Parma si apre domani, venerdì 15, una manifestazione particolarmente ricca e simpatica, Minimondi, che è un festival per i ragazzi, quindi per tutti. Quest'anno in particolare intitolato all'arte (ovvero all'educazione estetica, così traduco), con l'apertura di una grande mostra retrospettiva di Bruno Munari, e vari laboratori, tra cui uno di Katsumi Komagata. Ma nel programma linkato trovate tutto. Trovate anche un settore che curo di persona, teen art, incontri - ogni venerdì dal 15 febbraio al 7 marzo - con artisti, scrittori e scienziati, rivolti in prima istanza a studenti adolescenti (non finirò mai di elogiarne la disponibilità e l'intelligenza - almeno dell'avanguardia di essi che avevo incontrato in questi mesi), dove si alterneranno persone che stimo come Wu Ming 1 (stima che si estende a tutto il gruppo degli omonimi anonimi), Gea Casolaro, Simona Vinci, Botto&Bruno, Brian Selznick, Marco Petrella, Vittorio Gallese e altri.
In una cartella stampa della manifestazione si trovano a mio nome, tra le frasi di circostanza, anche queste, che rievocano il mio incontro con Bruno Munari, nome tutelare di questa edizione di Minimondi: "...il piacere e l’emozione di trovarmi nel suo studio, ormai una dozzina d’anni fa, per un incontro-dialogo che riversai nel mio libro sui maestri, Porta senza porta, uscito nel 1997 e nel frattempo esaurito. Mi sembrava di trovarmi nel laboratorio di un mago felice, e Munari stesso mi sembrava a metà tra Archimede Pitagorico e un maestro Zen. Tra esempi di arte e creatività tratta da pressoché ogni cosa immaginabile, e ogni materiale (perché per i veri maestri non esiste materiale sterile, e lui lo mostrava continuamente), la conversazione che si protrasse per un intero pomeriggio di gennaio fu un’esperienza indimenticabile. Esperienza è del resto la parola giusta per dire il suo insegnamento: formatore di autodidatti, inventore e trasmettitore di processi mentali, nel suo passarmi giocoso oggetti – dal tetraedro del cartoccio del latte a una foglia di fico d’India di cui mi mostrava la nervatura, dal disegno dell’albero all’ideogramma giapponese di albero, e così via, Munari mi presentava la sua sostanziale equivalenza con quanto di più avanzato, nel campo delle scienze umane, è stato prodotto negli ultimi decenni: la teoria del deutero-apprendimento, ovvero dell’imparare a imparare, introdotta dal grande filosofo e biologo Gregory Bateson, fondatore e autore della "ecologia della mente". Solo che Munari non ha mai avuto nulla di libresco, né di saccente. Era un osservatore della natura (come Galileo Galilei), da cui traeva e trasmetteva meraviglia (proprio come Galileo Galilei); e trasmetteva come artista una didattica delle forme tratta da questa osservazione-imitazione della natura: imitazione, si badi, non delle forme finite, ma della struttura che le determina, della naturalezza della creazione, delle cose prodotte dalla natura. Anche la natura, in effetti, ha il suo bell’imparare a imparare, che si chiama evoluzione. E forse proprio dalla natura Munari ha imparato anche ad allontanarsi come pochi dal narcisismo intrinseco, forse fisiologico, all’essere artista. Pensate la rarità di un grandissimo artista che non si identificava nella produzione di valore e plus-valore (estetico, economico) delle proprie opere, ma considerava opera la trasmissione stessa del fare arte. Che cioè faceva delle proprie opere d’arte una didattica dell’arte...".
Ci sono abbastanza motivi, credo, per far capire il taglio di questi incontri del venerdì, che debuttano domani 15 febbraio con Wu Ming 1: arte e/o educazione estetica (contro ogni tipo di anestesia e anestetizzazione) intese come salvaguardia della ricchezza narrativa, artistica, estetica, sensoriale, insomma umana, e quindi anche urbanistica e paesaggistica, della nostra vita presente, e della nostra memoria. Arte e narratività non tanto e non solo di cui fruire, ma da abitare.

2/12/2008

Identità, stato in luogo, ecc. (ancora su Israele e poi basta)

Linko qui un articolo che parla anche di Israele, in realtà un breve intervento in forma di lettera, che uscì su l'Unità in aprile 2002. Rileggerlo mi rende evidente l'ingenuità che affiora qui e là, soprattutto alla luce degli accanimenti di questi ultimi anni, da ogni parte. E' un intervento in cui provavo forse a essere didattico, col rischio di risultare stucchevole. Oggi sono più pessimista, eppure la sostanza non cambia. Il dibattito on line, anche su questo blog (con alcuni commenti che mi sono piaciuti molto, che ammiro anche quando si allontanano dai miei orizzonti o dalle mie pulsioni), o su nazioneindiana a seguito dell'intervento di Gianni Biondillo, su lipperatura e altrove, mi sembra confermi alcuni punti: la costante dell'antisemitismo, anche nella forma politicamente "accettabile" dell'antisionismo, si compone di alcune parole d'ordine e operative, come l'idea ricorrente del "complotto" (ebraico), la vivisezione di ogni aspetto negativo di Israele come indice di un'immagine generale (come quando si dice che gli Italiani sono tutti mafiosi, e come se anche in Israele non ci fossero fascisti - e ci sono, hanno perfino ammazzato un Premier, non è un Paese marziano), la negazione, sotto sempre nuove spoglie o nuove maschere o nuove provocazioni, dell'identità ebraica e/o israeliana (l'antisemitismo è sempre stato il tentativo di eliminare l'ebreo, spesso nella forma di un invito a essere come noi, a sbarazzarsi della sua identità, senza minimamente mettere in discussione la nostra). Uno dei più diffusi e orrendi cliché è la disinvoltura con cui si rovesciano sugli israeliani formule come vittime che si trasformano in oppressori (o carnefici), per ulteriormente colpevolizzarli visto che sono stati perseguitati, o come se proprio per questo dovrebbero essere quasi dei santi, in perpetua osservazione e libertà vigilata. Ho ancora nelle orecchie il malcelato disprezzo che nell'adolescenza circolava (e che condividevo inconsapevolmente) sulla presunta rassegnazione e passività con cui gli Ebrei in Europa si sarebbero consegnati alla morte in milioni (luogo comune smentito da ricostruzioni di rivolte nei lager nazisti, come quella di Sobibor - si veda il film omonimo di Lanzmann). Mi fermo. C'è un'ampia letteratura, ma nulla serve se non ci si dà il tempo di indugiare un po', di ascoltare, di lavorare su di sé e sui propri giudizi, di placarli quando troppo rapidamente vengono alla bocca (al limite mordersi la lingua come faceva Palomar di Calvino).

2/11/2008

Diario notturno (sono sempre gli altri che muoiono)

Sono turbato. L'unica idea che trattengo adesso è questa: che occorre ricominciare, ripartire dalle domande fondamentali. Che cosa significa “giusto”, su cosa si fondano questa parola e la pulsione di chi la pronuncia. Far sì che non resti un'enunciazione astratta (bandire anzi ogni astrazione, che non è mai innocente), che non resti senza rapporto a sé, alla propria vita-corpo; incarnarla in un esempio, incarnarla e basta. Troppo grave parlare a vuoto. I giudizi. Politici. (“Politici”...). Possono essere l'orrore. Forse sono l'orrore, nella sua forma “essenziale”, “spirituale”. Ricordarsi qualcosa che già tante volte ho saputo: che occorre posizionare ogni cosa che si dice, situarsi, descrivere se stessi, non fare galleggiare le proprie parole in un universo concettuale, nella vacua astrazione di principi (l'esempio del “giusto”). Chiedersi ogni volta che rapporto vi sia tra ciò che si dice (cioè si fa) e ciò in cui si vuole sperare (e che cosa sia “sperare”, in pratica). Responsabilità. Chi sono gli altri, chi sono io. Cosa loro per me, ecc., reciprocamente.
(Ho paura, però, che siamo già nel peggio. Che la peggiore violenza, dall'omicidio al massacro al genocidio, sia assolutamente accettabile e accettata dall'orizzonte mentale medio, dall'understanding medio, dalla sensibilità media, senza escludere da questa medietà (morale) le cosiddette intelligenze. E che questo avvenga, appunto, equanimemente, trasversalmente, tra chi si professa di sinistra e chi di destra, tra chi si appella al giusto, alla giustizia, e chi no (ma tutti lo fanno, tutti usano queste parole-ombrello). Paura che l'orrore da guardare sia questo).

Con più lucidità, più sangue freddo, vorrei pensare ad altri nessi tra il linguaggio e la morte (il dare linguaggio e il dare morte) che non quelli entro lo schema grammaticale, filosofico, heideggeriano, agambeniano di cui pure mi sono nutrito e acceso per anni (la salvezza dei deittici, che unisce il buddhismo all'Antico Testamento ad Agostino a Bonaventura ai mistici medievali a Beckett ecc. ecc.; e che forse sono ancora la strada, se significa appunto il posizionarsi, il situarsi). No, ora penso alla verità carnale di Kafka sul parlare e il tacere, e che il silenzio è la scelta di chi vuole “uscire dalla schiera degli uccisori”. Anche l'ebraismo che riconosco è questo, il filo che unisce Kafka a Levinas: parlare e/o uccidere, oppure parole come volti, di fronte ai quali, alle quali, “non posso più potere”. Abbassare le armi – le parole. O niente.
Ma pare che la vita umana... ecc. (l'accettazione distaccata della morte di un individuo, di una pluralità, di un popolo)... L'idea che Marcel Duchamp, al di là degli scacchi, degli oggetti, dell'arte, ci abbia lasciato non un gioco nel suo epitaffio, ma una tremenda, profetica ammonizione, critica radicale e precisa della nostra epoca – che sia vero che, per noi, “sono sempre gli altri che muoiono” (e gli altri non esistono nel nostro incessante monologo).

2/09/2008

Tentativo di precisazione sull'antisemitismo (a proposito dell'appello su Israele e la Fiera del Libro di Torino)

Avrei voluto essere meno pigro, e soprattutto meno oberato di impegni, per scrivere e argomentare la mia adesione a quell’appello stilato da Raul Montanari (che purtroppo non conosco), e il cui testo è evidentememente incompleto e ricco di omissioni, ma tant’è, lui l'ha fatto, altri no, e mi è sembrato (mi sembra tuttora) importante pronunciarsi sulla questione del controproducente annunciato boicottaggio agli scrittori dello Stato di Israele ospiti alla Fiera del libro di Torino. Gianni Biondillo su nazioneindiana spiega con garbo e passione perché ha formato l'appello, e in gran parte sottoscrivo le sue motivazioni. Su lipperatura, con impeto, in un brevissimo commento flash ho parlato di "antisemitismo" senza precisare i nessi (farlo assomiglia davvero a un lavoro, e anche adesso, qui, frettolosamente, non so se riuscirò). Sono stato attaccato e criticato (anche Carla Benedetti lo fa su ilprimoamore). Ho dato insomma per implicite una serie di elaborazioni che a me sembrano, purtroppo, da tempo evidenti, e che affiorano anche in discorsi di persone che stimo, con mia angoscia. Anche alcuni amici con cui ho condiviso, in un'assiduità di scrittura per mail durata giorni, l'appello su “nessun popolo è illegale”, o “il triangolo nero”, mi hanno fatto notare per telefono che questa sorta di imputazione o di accusa non viene recepita, o recepita male. Vero, mi rendo conto che c'è (sono tanti) chi continua a professare propositi sostanzialmente avversi di principio a Israele senza essere sfiorato dal dubbio di continuare l'antisemitisimo con altri abiti. E se a farlo notare è un ebreo, o magari un israeliano, quasi naturalmente la sua voce è già in parte o del tutto invalidata dalla sua appartenenza. Come se il conflitto, la discussione, fosse tra chi è portatore di un'appartenenza e chi invece se ne pretende immune, e quindi innocente e libero nelle sue parole. Beh, io non sono ebreo né israeliano, ma noto che questo abissale pregiudizio di chi dà per scontato che i propri propositi non abbiano nulla a che fare con l'antisemitisimo mi turba. Profondamente.
Da ormai da molto tempo l’antisemitismo non è più quello di una volta, ma si chiama antisionismo, con quella domanda davvero impudente sulla legittimità dello stato di Israele. Qualcuno c’è mai stato? Sembra l’Italia di alcuni decenni fa. Ma la domanda è: dove comincia la Storia? Chi ne detiene il criterio della legittimità? (per quanto riguarda gli Stati: a parte l'Onu, che ratificò l'esistenza di Israele nel '47 o '48). Forse che l’Italia ha più diritto di esistere come Stato? E chi l’ha deciso, se non altre grandi potenze furbette, come l'Inghilterra per gli ebrei del sogno socialista-sionista, dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah? (Noi abbiamo avuto invece, a conclusione del nostro ridicolo e disastroso risorgimento, i Savoia e Cavour, ma turbolemnze hanno continuato ad esserci alle "frontiere"...). Esiste un punto a partire dal quale si può evitare di mettere in discussione fatti ed eventi di questa portata? Ci sono generazioni di persone nate in Israele, che ovvietà dirlo, così come ci si batte (io mi batto) perché gli immigrati siano considerati cittadini italiani, e tanto più coloro che in Italia sono nati. Non è un'pvvietà, mi rendo conto. E qualcuno dall'esterno può cintestarne la legittimità? Che follia...
Se a Torino si fossero invitati gli Usa, i cui scrittori - dice giustamente Gianni Biondillo su nazioneindiana - ci hanno nutrito (aggiungo colonizzato) l’immaginario e l’inconscio, qualcuno avrebbe tentato di boicottarli, per la ragione che non c’è male o sciagura mondiale che non sia dipesa in questi lunghi uiltimi decenni dagli Usa? (ma è buono anche l’esempio della Russia di Putin, il cui volto minaccioso oggi troneggia su alcuni giornali, con la didascalia della nuova corsa al riarmo nucleare "contro la Nato"). Ricordo poi le proteste al salone del Libro di Parigi nel 2002, quando l'Italia di Berlusconi era il Paese ospite. Fu contestato Sgarbi, delegato del governo. Ma gli scrittori furono accolti, eccome (all'epoca, era appena uscito il librino collettivo di scrittori che avevo contribuito a fare con Stefania Scateni, Non siamo in vendita. Voci contro il regime, in parte pubblicato anche da Le Monde).
Credo di avere speso in questi anni molte parole contro la politica dei Israele (di alcuni loro governi), e sul terrorismo simmetrico tra Israele e Palestinesi, e ricordo che è anche l’unico Paese di quella regione (oltre che l’unica vera democrazia, se questo è ancora un valore per qualcuno) ad avere avuto un primo ministro assassinato mentre stava firmando una probabile pace. Ci sono fascisti in Israele, sì, non è uno stato di marziani, e ci sono pacifisti, anarchici, una sinistra variegata, una destra, ecc. ecc. Ma c’è anche tanto, troppo da aggiungere per un post improvvisato come il mio, sull’assedio e le minacce costanti a un popolo (non solo a uno Stato), che non si spengono. Siamo così ostinatamente sordi sull’antisionismo (avatar dell’antisemitismo) mondiale e italiano, che non ci turbiamo più di tanto che un altro Stato membro dell’Onu abbia ripetutamente dichiarato di voler distruggere Israele, negandone il diritto all'esistenza. L'Iran, certo. Ma non ci si rende conto quanto sia pazzesco tutto questo, se anche nei commenti di questi giorni leggo dubbi sulla legittimità di Israele che da soli fanno cadere tutta l'impalcatura discorsiva di chi vuole difendere la causa sacrosanta dei Palestinesi ad essere popolo e Stato. (Tra l'altro, non è così che li s aiuta, tutt'altro, ma questo è un discorso politico denso e complesso). La stessa simpatia e rispetto che ho per Israele potrei esprimerla per i Palestinesi, la loro lotta, i loro diritti derubati, a loro necessità non rimandabile di uno Stato (esattamente come si pronunciano pubblicamente tanti Israeliani, scrittori e non). Ho dedicato nel tempo tanto di quel fiancheggiamento alla lotta dei Palestinesi che spesso mi sembra scontato. nello stesso tempo, nessuno può nascondersi che noi Italiani, noi Europei, non solo siamo culturalmente contigui agli Israeliani, e ugualmente americanizzati perfino nel subconscio, ma anche senza esserne con sapevoli ci gioviamo di quell'unica democrazia reale nel medioriente come cuscinetto più o meno comodo e sacrificale tra noi e un altro magmatico mondo dove demagogie, fascismi teocratici e corruzioni varie, nello sfondo di una povertà estrema, ci minacciano realmente, attizzati si sa dalla politica Usa di iperproduzione e proliferazione del cosiddetto "terrorismo".
Ma tornando sull'antisemitismo, e sull'indignazione che questa parola provoca in alcuni commenti. Invito ognuno di noi a non dare proprio niente per scontato. Non possiamo dimenticare che sono passati pochissimi anni da un tentato genocidio reale, avvenuto qui, in Europa, in Germania, in Italia. Storia nostra, non loro (degli Arabi...). Storia collettiva, non di un tedesco che non era neanche tedesco, ma austriaco, e di un romagnolo maestro di scuola che era all'inizio un socialista. Storie torbide di passioni, pulsioni di popoli e di collettività. Storie di nemicizzazione collettive dell'altro, degli altri. Storie di assimilazione violenta e di incazzatura pazzesca per le differenze esibite da chi non reca nessun tratto evidente per giusificare una propria differenziazione (l'antisemitismo, diceva Jankelevitch, è l'odio per l'impercettibilmente diverso, non per il diverso). L'odio per gli stranieri. Oggi i portatori sono i rom, ad esempio (ma già allora).
Ho tralasciato per esempio tutte le considerazioni da fare sulla circostanza di una Fiera del Libro (anch'io, come Biondillo, non ci vado mai, mi annoiano, ma sono comunque occasioni di parola pubblica). Considerazioni quindi sull'diozia politica, e non solo, di non profittare di "rappresentanti" - per quanto individui critici e senza potere reale quali possono essere appunti gli scrittori - per una discussione franca e appassionata. Occasione di pace, di parola, di costruzione di orizzonti. Ma a qualcuno interessano ancora gli orizzonti, o solo e semplicemente le divise, le proprie e quelle degli altri? C'è un'altra via oltre la nemicizzazione degli altri? Mi viene in mente che quando un anno fa un ragazzo italiano fu accoltellato in Israele, il padre lo perdonò perché l'uccisore, anch'egli un giovane e palestinese, disse di averlo scambiato per "un isrealiano". Fatico a dire quanto mi abbia agghiacciato quella motivazione, che alcuni accolsero come attenuante, ma che è invece una iperbolica aggravante all'omicidio. La domanda è anche: vogliamo alimentare questa spirale, questa follia, o crediamo che davvero gli orizzonti dell'essere umani e insieme sulla Terra sia una favoletta da ignorare, e importa solo il presente della violenza che ripete violenza, un presente continuo, senza futuro che non sia il futuro di questo presente?
P.S. Sul mio sito ci sono tra gli "articoli" e gli "incontri" alcuni materiali su Israele e la cultura ebraica, su Lanzmann e la Shoah, sul giorno della memoria, ecc. Altri mi riprometto di metterne oggi appena li ritrovo. In particolare un mio intervento su Israele e il diritto di criticarlo, e una conversazione su Israele con due importanti rappresentanti della Comunità ebraica italiana ed europea. Non ho molto altro da aggiungere a questi materiali che offrirò in lettura oggi stesso. O forse sì: il consiglio di leggere i libri di Amos Oz, e soprattutto Storia di amore e di tenebra, in cui racconta la sua intifada da ragazzino contro gli inglesi, coi sassi, ma ricorda anche le scritte sui muri di tutta Europa prima della seconda guerra mondiale ("fuori gli Ebrei dall'Europa"), e quelle dopo la seconda guerra mondiale sui muri della Palestina ("fuori gli Ebrei dalla Palestina").

2/06/2008

Nel nome della letteratura (ma non solo)

Israele ospite della Fiera del Libro di Torino 2008

Con queste firme esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del Libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008.L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute.In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale governo israeliano, possono tranquillamente – diremmo perfino banalmente! – coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, e rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.

Raul Montanari

Prime adesioni:Alessandra Appiano, Alessandra C., Gabriella Alù, Cosimo Argentina, Sergio Baratto, Paola Barbato, Antonella Beccaria, Daria Bignardi, Gianni Biondillo, Riccardo Bonacina, Elisabetta Bucciarelli, Gianni Canova, Fabrizio Centofanti, Benedetta Centovalli, Piero Colaprico, Giovanna Cosenza, Sandrone Dazieri, Francesco De Girolamo, Girolamo De Michele, Donatella Diamanti, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Marcello Fois, Francesco Forlani, Giuseppe Genna,Michael Gregorio (Daniela De Gregorio, Mike Jacob),Helena Janeczek, Franz Krauspenhaar,Nicola Lagioia,Loredana Lipperini,Valter Malosti, Antonio Mancinelli, Valentina Maran, Federico Mello, Antonio Moresco , Gianfranco Nerozzi, Chiara Palazzolo, Gery Palazzotto, Paolo Pantani, Leonardo Pelo, Guglielmo Pispisa, Laura Pugno, Andrea Raos, Roberto Moroni, Mariano Sabatini, Rosellina Salemi, Flavio Santi,Tiziano Scarpa,Beppe Sebaste, Gian Paolo Serino, Luca Sofri, Monica Tavernini, Annamaria Testa, Maria Luisa Venuta, Andrea Vitali,Vittorio Zambardino,Zelda Zeta (Pepa Cerutti, Chiara Mazzotta, Antonio Spinaci)

Ps. Potete aderire nei commenti su Lipperatura, Nazione Indiana, Ilprimoamore, dove l'appello è apparso contemporaneamente.

2/03/2008

da "i colori di Roma" (ut pictura poesis)

Quello che si vede nell'opera posta sopra di Andrea Aquilanti (per guardarla meglio, cliccateci sopra)

lo scroscio dell’acqua della fontana, quasi al centro del quadro
i passi del bambino con la giacca a vento arancione che corre dietro un piccione, in basso, a sinistra del quadro
lo strisciare dei pneumatici delle automobili sull’asfalto umido, dietro le nostre spalle
la donna in cappotto marrone, che alza il cartello da guida turistica col braccio destro e l’aria rassegnata, e un gruppo di turisti che la segue rassegnato, a sinistra del quadro
l’africano con la borsa rossa di cellophane che cammina svelto, leggermente in basso, al centrodel quadro
i fanalini dell’autobus rosso che passa lentamente, leggermente a destra del quadro
la virata del piccione bianco e il suo atterraggio davanti ai nostri occhi, in primo piano davanti all’obelisco, leggermente in basso
i lineamenti pensosi delle statue, a destra del quadro
l’uomo dalla borsa nera, che attraversa sullo sfondo, da destra a sinistra
il ragazzo e la ragazza che si baciano appassionatamente sotto la terza colonna, in basso, a destra del quadro
l’uomo col cane giallo, leggermente appiattito sullo sfondo
i carabinieri che attraversano in coppia, scuri, da sinistra a destra
la donna anziana vestita di bianco che cerca qualcosa nella borsetta piegando la schiena, a sinistra del quadro
la donna che chiama il bambino con il monopattino, in primo piano, quasi al centro del quadro
le luci accese dietro le finestre spente, leggermente in alto, a sinistra del quadro
(inaugurazione della mostra "i colori di Roma" lunedì 4 febbraio ore 19, Auditorium di Roma, Sala Sinopoli)

2/01/2008

Di cosa parliamo quando parliamo di arte

Un mio articolo sul tema "di cosa parliamo quando parliamo di arte" su l'Unità di oggi:
"Racconto spesso l’apologo didattico (creato da Thierry De Duve) dell’etnologo marziano che viene sulla Terra e cerca di capire cosa si intenda qui per “arte” – parola ombrello che raccoglie diversi oggetti, riti, gestualità, ecc. Non approda a nessuna definizione certa o convincente: il concetto di arte risulta indeterminato a forza di essere sovra-determinato, e si caratterizza per una flessibilità, un’apertura, un’indeterminazione tali da rendere indiscernibili un emporio e una galleria, i banchi di Porta Portese e le esposizioni di un museo o di Arte-Fiera, una ritualità artistica da un’altra religiosa o militare..." (continua a leggere)
Una segnalazione (per chi sta a Roma o nei paraggi, del libro I colori di Roma, edito da Repubblica, dove compare un mio racconto già postato l'anno scorso qui nel blog (Bianco su bianco). Ma la cosa nuova è la mostra all'Auditorium che si inaugura lunedì 4 (ore 19). Io ho scritto una poesia per un'opera (bellissima) di Andrea Aquilanti [vedi post sopra, NdR]. Penso di postare il tutto domani o dopo. Buon week-end, e/o buon shabbat.