Sono turbato. L'unica idea che trattengo adesso è questa: che occorre ricominciare, ripartire dalle domande fondamentali. Che cosa significa “giusto”, su cosa si fondano questa parola e la pulsione di chi la pronuncia. Far sì che non resti un'enunciazione astratta (bandire anzi ogni astrazione, che non è mai innocente), che non resti senza rapporto a sé, alla propria vita-corpo; incarnarla in un esempio, incarnarla e basta. Troppo grave parlare a vuoto. I giudizi. Politici. (“Politici”...). Possono essere l'orrore. Forse sono l'orrore, nella sua forma “essenziale”, “spirituale”. Ricordarsi qualcosa che già tante volte ho saputo: che occorre posizionare ogni cosa che si dice, situarsi, descrivere se stessi, non fare galleggiare le proprie parole in un universo concettuale, nella vacua astrazione di principi (l'esempio del “giusto”). Chiedersi ogni volta che rapporto vi sia tra ciò che si dice (cioè si fa) e ciò in cui si vuole sperare (e che cosa sia “sperare”, in pratica). Responsabilità. Chi sono gli altri, chi sono io. Cosa loro per me, ecc., reciprocamente.
(Ho paura, però, che siamo già nel peggio. Che la peggiore violenza, dall'omicidio al massacro al genocidio, sia assolutamente accettabile e accettata dall'orizzonte mentale medio, dall'understanding medio, dalla sensibilità media, senza escludere da questa medietà (morale) le cosiddette intelligenze. E che questo avvenga, appunto, equanimemente, trasversalmente, tra chi si professa di sinistra e chi di destra, tra chi si appella al giusto, alla giustizia, e chi no (ma tutti lo fanno, tutti usano queste parole-ombrello). Paura che l'orrore da guardare sia questo).
Con più lucidità, più sangue freddo, vorrei pensare ad altri nessi tra il linguaggio e la morte (il dare linguaggio e il dare morte) che non quelli entro lo schema grammaticale, filosofico, heideggeriano, agambeniano di cui pure mi sono nutrito e acceso per anni (la salvezza dei deittici, che unisce il buddhismo all'Antico Testamento ad Agostino a Bonaventura ai mistici medievali a Beckett ecc. ecc.; e che forse sono ancora la strada, se significa appunto il posizionarsi, il situarsi). No, ora penso alla verità carnale di Kafka sul parlare e il tacere, e che il silenzio è la scelta di chi vuole “uscire dalla schiera degli uccisori”. Anche l'ebraismo che riconosco è questo, il filo che unisce Kafka a Levinas: parlare e/o uccidere, oppure parole come volti, di fronte ai quali, alle quali, “non posso più potere”. Abbassare le armi – le parole. O niente.
Ma pare che la vita umana... ecc. (l'accettazione distaccata della morte di un individuo, di una pluralità, di un popolo)... L'idea che Marcel Duchamp, al di là degli scacchi, degli oggetti, dell'arte, ci abbia lasciato non un gioco nel suo epitaffio, ma una tremenda, profetica ammonizione, critica radicale e precisa della nostra epoca – che sia vero che, per noi, “sono sempre gli altri che muoiono” (e gli altri non esistono nel nostro incessante monologo).
7 commenti:
mi lascia un senso di inquietudine la lettura di questo post. Avverto qualcosa che si agita, come un dolore, del quale emerge solo la riflessione su questo...non quello.Mi perdoni la franchezza? La sensazione è che ogni parola che scrivi, mascheri qualcos'altro, di più personale e profondo. Che però mi sfugge...
che le parole non servano a niente? (beppe)
12/02
E allora pubblico il post che per coerenza ieri avevo cancellato subito dopo averlo impostato.
11/02
"No, cosi é la parola che muore, e soffoca il battito d'ali della fenice sempre più ingolfato dal ticchetio in uscita da case stracolme di archi scordati: noi, gli utenti di un mondo sordo alla parola, un mondo invaso dai ticchetii sordi di battitori senza battute. Se era una preghiera la sua, una in-vocazione, da qui non si sente nulla. Se si moltiplicano i deserti sono i digiunatori ad uscirne duplicati e non le vie di fuga. Mangiamo troppe parole, e non sappiamo piu dove sputare la sabbia che ci resta da masticare. "Mastica e sputa, da una parte il grano, dall'altra la cera". C'era una volta la parola. Ora c'é solo una parola svenduta che non ripaga piu nessuno. "Notiziario delle 21. Il bischero del merlo é arrivato tardi. I piccioni hanno mangiato tutto". Queste erano le PAROLE di un poeta rimasto alla finestra a fischiare ai morti. Un poeta che il suo diario postumo se lo é guadagnato con anni di Scrittura. Questo stillicidio di ticchettari, io compreso, mi fa pensare ad un parlatorio il cui vetro é offuscato dagli sbuffi di mille narcisi imprignnionati per una causa che sfugge tanto a loro quanto ai loro padroni. Perché non chiudi questo parlatorio Sebaste ?
OO/OO
La scrittura é un lusso che ha bisogno di case chiuse per essere praticato ad alti livelli.
un parlatorio? e io che c'entro col parlare degli altri?
Lei c'entra con il suo parlare, e le verifiche degli appelli "giusti" che lancia sta a lei farli, altrimenti le parole sono parole parole parole. Ha verificato il ritorno della petizione firmata da lei ed altri scrittori sul caso dei Romeni ? Si é fatto un controllo della sua efficacia ? Nessuno le chiede di mettersi al posto dei diseredati della terra, per la semplice ragione che se lo scrittore va nel bosco il lupo si mangia pure lui e poi i gorgoglii della sua pancia chi li traduce più ? Ma almeno rendere di conto sui risulati di un azione intrapresa per migliorare l'azione futura, se é il caso, questo lo di deve fare. Non smetta di scrivere, questo ozio che tanto rivendica alla sua libertà di individuo nessuno la mette in discussione, ma che ad ogni presa di parola nello spazio privato del blog su questioni di pubblico dominio debba corrispndere un'azione (sotto forma di parola o di azione) pubblica, questo i suoi lettori sono in dovere di chiederglielo.
"Ha verificato il ritorno della petizione firmata da lei ed altri scrittori sul caso dei Romeni ? Si é fatto un controllo della sua efficacia?"
E' una domanda complicata. Con gli amici dell'appello fu stilato un bilanco della diffusione dello stesso, molto vasta. Un momento pubblico avrebbe dovuto esserci, là fuori, fuori dal desk e dalla finestra, ma è tramontato, che io sappia. Effetti di ritorno? Non misurabili altrimenti che con la constatazione di una circolazione di parole, frasi.
Io non so già che cosa sia un blog. Si figuri se mi metto a pensare che cosa è lo scrivere commenti per lei e per altri. Funziona, oppure no, una "conversazione". Comunque grazie, dico davvero.
E allora grazie anche a lei, tanto per un chiudere questo "intrattenimento infinito", in attesa di scambiarci i nostri sguardi per davvero. La stimo molto come scrittore, e la prego di credermi. Spero di incontrarla presto, a Roma o a Parigi. Per ora mi lasci in questo mezzo anonimato di cui ho ancora bisogno: i lupi sono ancora alle finestre, e i merli del Jardin des Plantes, per quanto ne so, arrivano ancora sempre prima dei piccioni. Per il suo prossimo libro, magari le scrivo un pezzo sulla frustrazione che ho provato da bambino a guardare gli altri fare goal, e che questo non centri con la mia richiesta, appartata, di una verifica dei goals fatti. Buon lavoro.
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