5/09/2013

I miracoli della lista: una mostra di Patrizia Cavalli descritta da Stefania Scateni


Su l'Unità di ieri 8 marzo c'era questo pezzo di Stefania Scateni sulla mostra della poetessa Patrizia Cavalli che si è inaugurata ieri a Roma, ed è una bella fortuna perché amo molto entrambe e quindi ve le offro qui (io sono in vacanza (si fa per dire) tra la Puglia e la Basilicata, e parlerò di panchine tra i sassi di Matera, o di sassi tra le panchine di Matera, vedremo lo all'ultimo momento)

La vertigine della lista (per rubare il titolo a Umberto Eco) affonda le sue infinite spire nello scorrere del tempo e nella cieca fede per le parole. La lista come necessità per vivere e per sognare, come ansiolitico senza controindicazioni ed effetti collaterali.
Può essere sola la lista? No di certo. Può essere «finita» la lista? Nemmeno un po’! Anche se finisce. Meraviglia delle meraviglie della vita quotidiana, ma anche della mente dei filosofi e del cuore dei monaci, la lista, che sia la teoria dei santi del rosario o l’elenco degli amici dei quali si vuole ricordare il giorno del compleanno, ha anche una potente valenza estetica: scrittura breve che va sempre a capo. Come la poesia. E siccome una lista tira l’altra, ecco che diventa altro, ovvero struttura grafica, opera visuale, bellezza.
Pensieri che prendono vita immediatamente ammirando I miei splendidi giorni tutti uguali, serica installazione di Patrizia Cavalli inaugurata venerdì sera allo Studio Stefania Miscetti di Roma. Dicevamo la poesia, eccola! Sulle tre pareti bianche della galleria manoscritti (per la prima volta esposti al pubblico) da diverse raccolte poetiche, stagnole e liste. Tre «sezioni» che testimoniano di uno stesso «miracolo», generato dall’incontro dell’intenzione e del caso.
I numerosi manoscritti di poesie, pubblicate ed inedite, messe in mostra nella fisicità della scrittura, degli errori, delle correzioni e degli appunti extraterritoriali appartengono a un sistema di forze dell’intenzione e del caso. Così nasce anche la serie di carte stagnole, dove l’intenzione e il caso della combustione hanno lasciato le loro tracce. Protagoniste assolute della mostra sono le numerose liste quotidiane che da anni la poeta romana ha l’abitudine scrivere e che ha sempre conservato. Gli elenchi della spesa, diventati materia prima, scrivono» sul candido muro di faccia all’ingresso una serie di linee parallele e irregolari. L’uno accanto all’altro, i foglietti segnano un tempo definito, fermano il flusso inarrestabile dello scorrere dei giorni. Un potere immenso - quello di governare il tempo, scorrerci sopra o dentro, prenderne un pezzo, rivoltarne la direzione - nelle «mani» di umili pezzetti di carta e semplici parole: pane, giornale, sigarette... latte, uova, tintoria... Parole ferme e buone che tracciano una mappa, la mappa del mattino.
«Esco con la mia mappa in tasca - scrive Patrizia Cavalli nel testo che accompagna la mostra - e, attrezzata di intenzioni e di mete, attraverso libera e con passi freschi la mutevole larghezza del mattino. A volte intenzioni e mete sono scarse, ho solo due cose da comprare, e a guardare la lista mi deludo, dato che: lista corta, giro breve - giro breve giorno triste... Se invece le liste sono ricche e complesse, ecco i giorni felici. Ma è ciò che la mappa non dice, quella zona di mezzo, il vuoto che c’è tra un nome e l’altro, tra le diverse mete, e che dovrò riempire con i miei passi, ecco il vero fine della lista: far muovere le mie intenzioni nel magnifico territorio del caso, che con le sue deviazioni ed eccessi può produrre miracoli di gioia. In questi foglietti ho riconosciuto sia questi miracoli sia le tante imprevedibili temperature dei miei mattini. Come ci si può disfare di simili testimoni?».
La stessa ammirazione - commozione – si accende nell’anima di chi li guarda appesi al muro e benedice quei foglietti, ai quali quotidianamente ognuno di noi affida la propria memoria, i propri gesti, e poi li butta nel cestino. 

5/07/2013

Camminando nei "Paesaggi in breve" di Tullio Pericoli


Cammino nei “paesaggi in breve” di Tullio Pericoli, da qualche parte tra Twombly, Cézanne e Ambrogio Lorenzetti, vago e divago come in un libro che non finisce, o come in una poesia del grande Wallace Stevens: “Nella mia camera, il mondo è al di là del mio intelletto; / Quando cammino vedo che si compone di tre o quattro / colline e di una nuvola”. Da dove viene tanta bellezza, mi chiedo mentre non cesso di guardarmi intorno, perché tanta felicità estetica?
   Dovrei nominare le delicatezze sublimi dei colori e del tratto, tutto il lessico giocoso e sapiente della pittura (punti, linee, superfici, colpi di pennello e di dita, impronte digitali), ma questi paesaggi mi parlano anche molto di scrittura: lo scrivere con le mani, l’arte di tracciare segni e bassorilievi a volte impercettibili ma non virtuali; e quell’altra scrittura della terra e nella terra, campi coltivati e anch’essi “manoscritti”, patchwork di idiomi e di grafie, come stoffe fatte di scampoli di diverse tessiture; terre, non a caso di rasserenante bellezza, cucite di una babele di scritture, di epiche e di lingue. Per esempio i vigneti e gli oliveti delle Marche e del Chianti, gli stessi che vediamo sullo sfondo della Allegoria del Buon Governo, colline come pagine immense di libri aperti, libri la cui lingua non sempre sappiamo leggere, ma che riconosciamo appunto scritta, punteggiatura compresa - cipressi a fare punti esclamativi, puntini e macchie di sospensione, boschive e d’inchiostro...
   Come un volto è tale proprio perché scritto, così il paesaggio, che ne è forse (e non solo per Pericoli) modello intercambiabile.
  Paesaggi “in breve”: in letteratura la brevitas, o breviloquentia, il “dire molto con poco” (l’opposto della magniloquentia) richiama lo stile semplice e morale, “piano” ma acuminato (gli “acumina” erano figure di ingegno nella retorica stoica e poi barocca). Ma fra le tante associazioni di idee che mi suscita prevale qui la somiglianza con l’haiku, la breve anzi fulminea poesia giapponese che è epifania del “qui e ora”, testimonianza dell’eccezionalità dell’ordinario, forma zen dell’idillio (un idillio in breve). “Idilli” erano i Canti del marchigiano Giacomo Leopardi, letteralmente “quadretti”, paesaggi di un mondo esterno e interno, soglie dell’anima, come è il caso della più celebre (e più bella) poesia italiana sul paesaggio, l’Infinito. Negli idilli del marchigiano Pericoli, come nell’haiku e nell’idillio leopardiano, la valorizzazione dello spazio coincide con una logica che annulla le dualità - la forma è vuoto e il vuoto è forma, il questo è il quello, il qui e ora è il perdersi nell’immenso - ma non la meraviglia di ciò che accade. L’arte dell’haiku (e dell’idillio) è arte dell’apparire, qualcosa di radicalmente diverso dalla rappresentazione. Se rappresentare è un atto luttuoso e funebre che celebra ciò che non c’è più, che è stato, o che ci sarebbe; far apparire celebra al contrario i gioiosi tratti di pennello che rivelano se stessi e il mondo, colori e forme, segni e tracce e impronte di vuoto o di pieno, di nudità, di presenza, linee curve e verticali, oblique, orizzontali; calligrafie; paesaggi e terre. E’ questa la felice magia degli acquerelli (e degli oli) di Tullio Pericoli, dei suoi paesaggi in breve.
(aprile 2013)
La mostra si inaugura giovedì 9 maggio da Tricromia

4/19/2013

Il visibile infinito di Luigi Ghirri


(Marina di Ravenna 1986)
(Dal 24 al Maxxi di Roma si potrà vedere una mostra antologica di Luigi Ghirri. Questo mio brevissimo articolo che la segnala è uscito oggi su Venerdi di Repubblica, pag. 136)

   Il titolo della mostra viene da una fotografia del 1978: su un pezzo del Corriere sgualcito per terra, sui sampietrini, si legge il titolo di un elzeviro, “Come pensare per immagini” (che, sappiamo, fu firmato da Gillo Dorfles). Non è un omaggio al Denkbilder di Walter Benjamin, ma una semplice, nuda epifania. A dire la verità l’intelligenza visionaria di Luigi Ghirri non fu neppure un “pensare”, ma un atto meno mentale e più di anima: la capacità di abbandonarsi alla meraviglia di trovarsi nel mondo, e cogliere il suo manifestarsi come rivelazione. Come lo stupore che provava bambino nei musei, quando senza nessuna presunzione di sapere vedeva nei quadri e nell’arte in generale delle bellissime figure. Tra gli insegnamenti di Ghirri, oltre al vedere e all’assoluta assenza di disprezzo per qualsiasi luogo, c’è l’accoglienza e freschezza con cui capovolse l’Ecclesiaste: “non c'è nulla di antico sotto il sole”.
   Qualunque cosa diranno i futuri curatori della sua opera, Luigi Ghirri fu pioniere tutt’oggi insuperato (nomi altisonanti dell’arte hanno preso spunto da lui) che sfugge le catalogazioni: dall’arte concettuale (mai rinnegata) passò all'osservazione e allo studio  del territorio, ovvero a quello che non siamo più capaci di vedere, sfidando la presunta banalità dell’ordinario e rifuggendo ogni effetto “speciale”. Approdò alla nebbia, alla cancellazione del paesaggio, e restò così sempre fedele all’Infinito, titolo di foto memorabili e nome dello studio che gestì con la moglie Paola. “Dentro i musei / l’infinito viene giudicato”, cantava il nostro amato Bob Dylan, ma ciò che si vede e risuona nelle sue immagini non esclude ciò che non si vede, che insiste e mormora nel cosiddetto fuori campo: l’infinito, appunto. Strana pretesa, mi confidò una volta, sottrarre un oggetto, un particolare, dal resto della Creazione o del mondo. E’ questa coscienza del Tutto che le sue foto non cessano di suggerirci.

[LUIGI GHIRRI. PENSARE PER IMMAGINI - Icone Paesaggi Architetture - Roma, Maxxi, 24 aprile – 27 ottobre 2013 - a cura di Francesca Fabiani, Laura Gasparini e Giuliano Sergio, in collaborazione con Comune di Reggio Emilia, partner Biblioteca Panizzi]

[Segnalo che lo scorso anno, a vent'anni della morte di Luigi Ghirri, ma anche un anno dopo la  scomparsa della moglie Paola, Daniele Delonti ha coinvolto tutti gli amici in un libro-omaggio dal titolo Fin dove può arrivare l'infinito, come il titolo del bellissimo scritto su Luigi di Giorgio Messori nel 1992, che fa da Prefazione. Mi accorgo solo ora che è con quello scritto, con cui concordo totalmente, che dialoga forse questa mia breve segnalazione. Il libro è edito da Skira]

4/16/2013

"The Poet Speaks" - with Philip Glass and Patti Smith


Ho frequentato per giorni l’Auditorium di Roma con insolita assiduità. Sarà anche per la primavera sbocciata proprio adesso, così piacevole negli spazi all’aperto dello ”scarabeo” disegnato da Renzo Piano, ma mi sono abbandonato al My Festival di Patti Smith, di cui ero all’inizio diffidente, con la leggerezza di una festa. E non credo di essere stato il solo. A vedere Medea di Pasolini, non certo il suo film più leggero, interpretato da una silenziosa Maria Callas, ho incontrato un’allegra brigata di amici, e nell’affollato backstage in cui sostava la strana coppia Bernardo Bertolucci e Patti Smith era divertente vedere signori ben oltre la mezz’età tornare adolescenti, e chiedere alla celebre rocker loro coetanea autografi per i figli, in realtà per se stessi. Bernardo e Patti avevano rievocato in pubblico il loro incontro nel 1977 in un interno newyorchese dove, timidi entrambi, invece di ballare dopo cena come Mapplethorpe e gli altri ospiti, lei gli chiese di parlarle di Pasolini. Patti Smith lavorava all’epoca in una libreria, come cantante la conoscevano in pochi, e Bernardo cercava senza successo una distribuzione negli Usa per il film Novecento. Una connessione tra Patti Smith e il cinema l’ha suggerita lui almeno per gli italiani: la sua canzone Because the Night, da anni sigla di “Fuori orario”, è indissociabile dai film d’autore,  e tutt’uno ormai con le immagini di Atalante di Jean Vigo.
   A ogni appuntamento del suo festival Patti Smith ha generosamente cantato. Anche nella galleria in cui è allestita la mostra di Marco Tirelli, Memories: triplice installazione di mobili (una poltrona scura di pelle, un letto dalle lenzuola bianche e disfatte, un severo tavolo di legno) tagliati e attraversati da specchi che li raddoppiano dimezzandoli, prigionieri di un’emblematica condizione metafisica che li rende al tempo stesso doppi e mancanti.
   Non parlo dell’affollato concerto di domenica sera, Horses, quasi un commiato dal festival, dove nella grande sala Santa Cecilia il pubblico non ce l’ha fatta a restare seduto, ma dell’omaggio ad Allen Ginsberg nello stesso spazio, con Philip Glass: una grande cantante rock-punk e il maggiore musicista e compositore americano vivente uniti dall’amicizia verso il grande poeta beat. Una dedica/tributo sperimentata da anni in numerosi teatri in Europa e negli Usa, e che ha lo stesso titolo, “The Poet Speaks”, della tredicesima miniatura dell’opera Kinderszenen (“Scene infantili”, 1838) di Robert Schumann, fatta di brevi composizioni pianistiche che sembrano quasi anticipare il minimalismo di Philip Glass. Coincidenza?
   Philip Glass ebbe una lunga consuetudine di rading-concerti con Ginsberg, che gli aveva affidato una registrazione della propria voce che legge Jukebox all’Idrogeno da usare in sua assenza. Ma dopo la morte di Ginsberg nel 1997 non ne fece più per anni, fino a sentire la mancanza della poesia. Fu la dizione personalissima e intensa di Patti Smith, che legge Ginsberg come legge i propri testi, a dare nuova vita a questi reading/concerti. Ora, io che amo sconfinatamente Allen Ginsberg, al quale devo ogni inizio e iniziazione nella balbettante avventura di scrivere, posso dire che la voce di Patti Smith è semplicemente bellissima, sia che legga testi di Ginsberg (Wichita Vortex Sutra (1966), Magic Psalm (1960), sia che canti le proprie canzoni accompagnata dal chitarrista Lenny Kaye (Ghost Dance, Pissing in the River, People have the power). Se ascoltare il pianoforte suonato da Philip Glass è come galleggiare in un’estatica samadhi tank, Patti Smith ha un modo di far scivolare la voce come un cigno nell’acqua. Ci si chiede se sia la musica naturale delle poesie di Ginsberg a venire allo scoperto e prendere il volo, o se sia Patti Smith a insufflarvi musica e farle risuonare nell’aria, come se soffiasse in una nuvola per farla danzare e ricamare forme. Insomma, ci si chiede, sta parlando o cantando? Entrambe le cose, certamente, in un Dire così alto e importante che non si esaurisce nei suoi detti, un Dire che resta vivo, aperto e accogliente, cioè  poesia.
   Dietro la scena spoglia sono proiettate immagini. Quella iniziale raffigura Ginsberg di lato che posa in un loft newyorchese allestito come studio fotografico. Altre immagini rigorosamente in bianco e nero si alternano nel corso della serata: Ginsberg in India o sullo sfondo di grattacieli di Manhattan e automobili anni ’50 (e già il suo volto nella scenografia urbana è fonte di una commozione estetica), Ginsberg con altri poeti beat, e il volto giovane di Gregory Corso. Patti Smith ricorda che le ceneri dell’autore di Dove my casa?, in perpetuo poetico inferno ed esilio, sono sepolte a Roma accanto ai resti degli amati Keats e Shelley nel cimitero detto dei poeti al Testaccio. Io ricordo invece che nel concerto in cui scoprii Patti Smith, nel 1979 a Bologna (una notte d’estate con splendida luna piena), Gregory Corso c’era e voleva ascoltare la sua amica cantante, ma non fu fatto entrare dal servizio d’ordine, né tantomeno fu riconosciuto.
   Quando Patti Smith legge un proprio ritmico testo, “Blue thangka”, e lo ascoltiamo guardando la gigantografia di Allen davanti a una porta scolpita con la ruota del samsara, all’improvviso avviene, almeno per me, un’illuminazione: grazie alla voce che rende mantra ogni parola e le note di pianoforte prodotte dalla magica pazienza di Philip Glass, comprendiamo che il samsara, la sofferenza del ciclo di morte e rinascita nel mondo materiale, non è che il Nirvana (l’estinzione suprema del samsara, o se volete il Paradiso). E chiamiamo poesia, cioè un’azione priva di scopo, la scintilla che accende questa epifania e questa consapevolezza. Tutto, in questo spettacolo che sembra scucito, è in realtà legato con tutto.
   Poi, una novità rispetto alla scaletta collaudata, legge di Allen Ginsberg To Aunt Rose (1958), poesia alla zia Rose. Poesia in qualche modo spettrale, per Patti Smith è un’illustrazione possibile del trittico concepito da e con  Marco Tirelli. Parla di memoria, di una casa a Newark, con un vestito a fiori stampato e un pianoforte a coda, atmosfera di un Gozzano ebreo-americano dopo la Shoah, testimonianza di una Storia in bianco e nero (“Hitler è morto”, dice un verso, “Hitler è con Tamerlano e Emily Bronte”).
   Non è un caso infine se i due testi di Ginsberg più commoventi della serata siano degli elenchi: quello stilato alla cerimonia di cremazione del suo maestro, il tibetano Chogyiam Trungpa (On Cremation of Chögyam Trungpa, Vidyadhara, 1987), e le celebri Note a pié di pagina di Urlo (Howl, 1955), la santità onnipresente che insegna che tutto è degno di essere scritto, anche il buco del culo.
   Alle mie spalle era seduta una classe di liceali, spaventati all’inizio all’idea di ascoltare poesie per due ore (la loro idea di “poesia” non doveva essere molto comoda). Mi hanno detto che Ginsberg non l’avevano ancora studiato. Meglio così, ho sorriso, scoprirlo da soli è più bello. Ho aggiunto che alla loro età Ginsberg mi aveva salvato la vita, più della musica rock. Beh, è un po’ lo stesso effetto che mi fanno sempre i brani delle Metamorphoses di Philip Glass suonate da lui, come l’altra sera: un’esperienza di rigenerazione, e un insegnamento. Mentre la sua musica ci incanta con (apparentemente) pochissime varianti, ci fa più consapevoli delle innumerevoli varianti che accadono in noi mentre la ascoltiamo. Si potrebbe anche spiegarla così la poesia, divenire coscienti di se stessi ascoltando qualcun altro. Come diceva Allen Ginsberg, “poesia è allargare l’area della coscienza”.
(foto sul palco)
(quella originale è del grande Robert Franck)
(articolo uscito su l'Unità di martedì 16 aprile 2013)

4/03/2013

Farsi un fuoco (e smetterla di abbaiare contro il buio)


E' un'impossibile illusione scrivere sul presente in presa diretta, e sull’ormai grottesca tragedia (è un ossimoro, lo so) che incombe sulla politica e l’economia italiana. Come cercare di inseguire con la mano che scrive un foglio di carta che scorre. Tuttavia ci sono un paio di cose che da giorni non riesco a non dire.
Una è che non sono, non siamo, tutti uguali.
Con tutti i difetti del Pd, le viltà e i tentennamenti che ho e abbiamo denunciato per anni – l’opposizione alla destra che assomigliava a una concorrenza, idea odiosa di una “autonomia della politica” dalla società civile (“lasciate fare a noi”, disse D’Alema ai girotondini, fratelli maggiori e tanto più umili dei cinquestelle) – con tutto questo e malgrado questo non ho mai pensato che il male dell’Italia fosse il Pd, ma il partito-azienda del grande corruttore che il Pd non contrastava con abbastanza energia. Un partito cementato dai soldi del Capo che ha portato il Paese al degrado morale, politico ed economico che conosciamo, un degrado tale da avere visto perfino padri e madri vendere le loro figlie al Capo, rinnegando perfino quell’antica commozione davanti a film come Bellissima (per chi se lo ricorda).
E’ quindi inaccettabile che per ignoranza, cecità o vuoto di memoria, se non per un’imperdonabile malafede, si pongano Bersani e Berlusconi sullo stesso piano. Diciamo che anche questo sia eredità del napalm versato per anni sulle scuole, la memoria, l’educazione, la Storia, il linguaggio e ogni aspetto della re-pubblica dal partito del grande corruttore che esordì negli anni ’90 colla legalizzazione del falso in bilancio. Ma dopo che grazie alla magistratura è noto quasi ogni aspetto del presidente puttaniere, che comprava deputati come mignotte e mignotte come deputati ed è inquisito per questo; che ha un processo in corso per prostituzione minorile, per evitare il quale si è perfino travestito da cieco, non è per niente lecito urlare che tutti i politici siano uguali e puttanieri senza divenire oggettivamente correi del vero puttaniere. Destra e sinistra non sono mai state uguali e non lo saranno mai.
Chi lo grida, in effetti? Un personaggio figlio di quelle tv commerciali, un ex comico di cui il linguaggio, lo stile degli insulti, la retorica triviale e i propositi semplicistici sono filiazione diretta della cultura mediatica berlusconiana; che ha fondato a sua volta un movimento-azienda basato non sulle tv, ma su Internet e la sua illusione democratica; che non vuole essere un partito ma è più chiuso e autoreferenziale dei partiti di una volta. Come Berlusconi e la Lega Nord gli si conoscono solo slogan e semplificazioni vaghe; al posto di  “meno tasse per tutti” e “un milione di posti di lavoro”, di “Roma ladrona” o “cacciare gli immigrati”, si grida all’uscita dall’euro e togliere i finanziamenti i partiti e le sovvenzioni ai giornali, i nuovi spauracchi (senza vedere o facendo finta di non vedere che la logica di mercato che soggiace a questa idea è perfettamente in linea con lo svuotare di risorse le scuole pubbliche per favorire le scuole private, col disinvestire su tutto ciò che non dà profitto, in primis l’educazione). Come Berlusconi insultano e delegittimano gli altri come un disco rotto, ma soprattutto come se venissero da Marte e potessero, soltanto loro, assolversi da ogni responsabilità. Quale legge sul conflitto di interesse ci può difendere dalle retoriche di un ex comico e un tecnologo-imprenditore delle comunicazioni esperti in propaganda?
Le altre cose che vorrei dire riguardano la cittadinanza, cioè la politica. Credo nella distinzione tra elettori (in fuga) di questo partito e i loro rappresentanti: si fanno chiamare cittadini, ma anche questa è una menzogna pubblicitaria. Cittadinanza traduce politica (greco politéia) e la politica è qualcosa (una pratica, una conoscenza, uno stile) agli antipodi dalle posizioni e dalle identità rigide. La politica è l’arte dell’incontro e del compromesso, dell’alterità e del dialogo, non della conferma di sé (infatti non tutti, se Dio vuole, siamo chiamati a farla come mestiere).
Politica è anche, semplicemente, il rito dell’accendere insieme un fuoco per scaldarsi, fare il caffè, magari fare turni di guardia nella notte, che sia contro nemici o contro la “natura matrigna” di Leopardi. Fare una “social catena”, scrisse il grande poeta al cospetto del Vesuvio invitando alla solidarietà. Cioè alla politica. Non c’è politica, né umanità, né fuoco acceso, senza quei valori condivisi che il grande corruttore ha stravolto in questi ultimi vent’anni gettandoci sopra ettolitri di napalm. In questo senso, e solo in questo senso, i grillini sono oggi espressione dell’antipolitica (parola troppo abusata): l’incapacità di un incontro, un fare “insieme” nella diversità, anche solo accendere un fuoco nella notte. Se alla nozione di beni comuni togli il “comune”, cosa rimane se  non una vuota astrattezza? Ecco, i grillini vivono in questa astrattezza non innocente che sta diventando (è trascorso un inutile mese grazie a loro) uno dei modi di affossare il Paese in una grottesca tragedia. Non posso rimproverare alla destra di essere di destra, ma ai grillini sì.
Hanno detto che “non credono nel cambiamento” degli altri. Vogliono il monopolio del cambiamento. Vogliono “vedere i fatti”. Ma questa frase è una foglia di fico, perché a loro dei fatti non interessa nulla, se no aiuterebbero ad accendere il fuoco. Però non è vero che non fanno nulla, realizzano esattamente quello che dicono di avversare, come nelle cosiddette profezie che si auto-avverano (e hanno oggettivamente rimesso in gioco Berlusconi). Forse sono davvero iperpolitici, sono il nuovo volto dell’autonomia della politica, atro che D’Alema e i suoi tatticismi: Casaleggio e Grillo sembrano l’ultimo avatar della più odiosa e tecnocratica delle politiche, quella che fa a meno della realtà stessa; un giocare a scacchi per puro gusto del potere – magari dalla lontananza delle sue ville, come avviene realmente. Di fatto i non-cittadini cinquesteelle sono “performativi” nel senso più puro (quello della filosofia ormai classica del linguaggio di Austin: “Dire è fare”), perché il loro “no”, il loro sottrarsi è un’azione politica netta che mette in stallo non iol potere ma la democrazia – gridano contro il buio ma impediscono anche agli altri di accendere un fuoco. Come Berlusconi non credono all’indicazione dello spread (che è come non credere ai semafori quando attraversi una strada dove passano i camion), e quindi chi se ne frega del debito pubblico dell’Italia, delle imprese che falliscono e del nostro destino, basta affermare le proprie astratte ragioni con fiera autoreferenzialità. Gli basta non fare un fuoco insieme, e confermare che l’altro non è capace di accenderlo da solo, divertendosi ad assistere all’impotenza dei politici. Come se la politica non fossimo noi, la cittadinanza di tutti.
Non capirò mai come si sia potuta subire la fascinazione dell’ex comico, ma questo è uin altro discorso, e in Italia del resto è già accaduto che si desse credito ai monologhi e all’intercalare ipnotico della retorica di un “dittatore” (parola di cui sottolineo l’origine linguistico-fonetica). Dal linguaggio si capisce tutto, anche da quello dell’on. Lombardi e del sen. Crimi con la stampa, o durante l’incontro con Bersani: un nulla artificioso come lo streaming, un costante autoriferirsi che non copriva, appunto, il Nulla, col rischio di una disintergrazione della realtà, a partire dalla disgregazione della politica, che non era ancora riuscito a Berlusconi). Sono “prigionieri di una scena teatrale redatta per loro da terzi”, senza capire il ruolo e la potenzialità di un Parlamento fortemente rinnovato che può e deve ambire a produrre finalmente un cambiamento”, ha detto il neo-deputato Khalid Chaouki, responsabile per il Pd dei “Nuovi Italiani”. Speriamo che qualcuno di loro inizi a svegliarsi dall’incantamento.

3/03/2013

Basta con la politica degli slogan e degli insulti

[Pubblico anche qui questo breve post apparso nel mio sporadicamente praticato blog de l'Unità il 1 marzo, acchiappafantasmi ]. Confesso che non mi ci voleva questa ulteriore distrazione dalla mia anima e da quello che sto facendo data dalla nuova - mi sbaglierò? lo spero - emergenza democratica. Comunque sia ecco parte di quello che penso e sento sull'escalation del grillismo] 


   Non so voi, ma io ne ho abbastanza della politica degli insulti e degli slogan. Nel nostro ormai cronico dissolversi quotidiano della memoria abbiamo forse dimenticato la sofferenza e le ferite invisibili (le cui cicatrici sono in realtà vistose) date dalla neo-lingua degna di Orwell del regime politico-pubblicitario di Berlusconi, fondatore di un partito-azienda che battezzò con uno slogan da stadio. Ad esso, e al comando manageriale, si affiancarono infatti altri due “giochi linguistici”, l’insulto permanente (come: “chi vota a sinistra è un coglione”), e lo slogan pubblicitario, suadente, irreale, ipnotico, negatore dell’evidenza (“se le Fiat non vendono, chiamatele Ferrari”; “partito dell’amore”, “popolo della libertà”), e che ancora funziona (vedi la lettera sul rimborso dell’Imu). Nanni Moretti ricordava di recente anche quei ministri come Bossi che per vent’anni hanno invocato l’uso dei fucili e alzato il dito medio – “un gesto che io continuo a considerare di una violenza inaudita e del tutto inaccettabile, e che invece l’Italia ha inspiegabilmente sopportato”, ha detto il regista. Concordo.
Mi piacerebbe che il Presidente della Repubblica – che considero il mio Presidente da sempre, non da tre giorni – dopo aver reagito contro il segretario dell’Spd tedesco che ha definito (peraltro ineccepibilmente) clowns gli italiani Berlusconi e Grillo, protestasse con analoga fermezza contro le parole offensive degli stessi. Quelle di Berlusconi sui giudici-cancro, per esempio: insulto insopportabile, sovversivo e non nuovo, ma appena riattualizzato; e quelle di Grillo, leader (non eletto) o portavoce di un movimento politico, insultanti (“morto che parla”) contro il capo eletto di un partito e di una coalizione, Bersani, che ragionevolmente ha posto un problema che ci riguarda tutti: la formazione di un governo.          Insultare (e delegittimare) un leader che invita un altro leader a discutere la vera politica, far funzionare gli ingranaggi che collegano potere legislativo e potere esecutivo, Parlamento e Governo, e quindi la “fiducia” che ne è olio e motore, è oggi insopportabile. Così come sentir chiamare “volgari adescatori” i rappresentanti della coalizione di centrosinistra che vorrebbero confrontarsi su un governo possibile – come gran parte di noi elettori di sinistra auspica, come auspicano Dario Fo (che Grillo annovera tra gli amici) e molti elettori del Movimento 5 Stelle. Invece di una risposta argomentata Grillo avrebbe detto o scritto “hanno la faccia come il culo”. Non fa nemmeno ridere (ma questo già da tempo). Ma almeno su un’altra cosa Bersani ha ragione: il luogo della discussione è e sarà il Parlamento, non un blog (o un salotto tv). Questo – il rispetto per le istituzioni della Repubblica – il mio e nostro Presidente potrebbe e dovrebbe ricordarlo.
Quanto a Grillo, forse sta proprio facendo il clown, ma è un gioco pericoloso per la democrazia. Abbiamo osservato in tanti il linguaggio e lo stile retorico di questo ex comico nel corso della campagna elettorale (cominciata per lui chissà quando), che personalmente mi ha suscitato repulsione a prescindere dai suoi enunciati (pur essendo molte delle cose che diceva, pardon urlava, condivisibili e condivise dai noi elettori di sinistra), per via della sua enunciazione sempre ossessivamente monologica; e perché, appunto, li copriva irrimediabilmente con la sua voce. Ho provato anche repulsione e stordimento per il disprezzo e la delegittimazione che le sue parole spargevano (spargono) su pressoché tutti, avversari veri o immaginari, colpevoli soltanto di esserci(come se invece lui, Grillo, fosse in un’altra dimensione e parlasse da un altro pianeta) – tutti, comunque sia, destinati a diventare personaggi e bersagli del suo psicodramma politico. L’ipnotica fascinazione che produce, e che ricorda tempi passati e bui, sembra a volte il frutto di un esperimento politico di laboratorio sulla psicopatologia delle masse… Mi fermo, la campagna elettorale è finita, anche se i dittatori e gli aspiranti tali auspicano una campagna elettorale permanente, utile a prolungare l’autarchia del monologo e dell’insulto, e a imputare sempre agli altri lo sfascio e le macerie di un Paese: Berlusconi era ed è uno di quelli. Ma anche un Vaffa-Day permanente ne sarebbe una versione triviale, parente del fascista “me ne frego”.
Volevo qui soltanto parlare di linguaggio, chiedere al Presidente Napolitano di aiutarci a esigere rispetto per le istituzioni repubblicane a partire dal linguaggio. Basta con gli insulti, anche noi che non abbiamo fatto tabula rasa della memoria e della Storia siamo un popolo.

2/16/2013

Propaganda


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Propaganda 
(quello che segue è il testo che ho scritto per la mostra di Carlo Miccio che si inaugura il prossimo giovedì 21 marzo a Roma, come riportato nell'immagine a fianco)

   Quando mi sono trovato per la prima volta in una sala coi muri ricoperti dai manifesti di “propaganda” di Carlo Miccio, dopo pochi istanti ho sorriso, sentendomi piacevolmente galleggiare in una strana dimensione: quella di una macchina del tempo che mi avesse trasportato in un mondo parallelo. Forse è proprio così l’utopia, ho pensato, un luogo cioè in cui si perviene con un duplice viaggio, uno spostamento simile alla mossa del cavallo negli scacchi: all’indietro nel tempo – quello lineare, di questo mondo – e un salto laterale in un altro mondo, uno dei tanti possibili, spesso desiderabili, fra quelli dell’infinita pluralità dei mondi.
   E’ un mondo che trasforma le contraddizioni in sinonimi, per questo provoca beatitudine, costituito fin dalla radice di ossimori e di rovesciamenti: la propaganda è al servizio della bellezza, per esempio, e non il contrario. Un mondo a volte out of joint, fuori asse, nel senso non tanto di Shakespeare ma di Philip K. Dick, cioè letteralmente de-siderante, fuori dalle stelle (de-sidera), ma dove “se accendono le stelle / vuol dire che qualcuno ne ha bisogno”. Un mondo in cui l’immaginazione, se Dio vuole, non è “al potere” (non c’è nessun regime di pubblicitari), ma è pura potenza, e concilia la vita coi sogni. Un mondo dove il comunismo non sacrifica né bellezza né poesia, dove forza e lavoro sono valori senza guerra né omofobia; un mondo in cui nessuna generazione “ha dissipato i suoi poeti”, in cui nessuno ha suicidato Majakovskij.
   Ora, fare una poetica e un’estetica della propaganda è da subito un paradosso, anche se il connubio dell’arte che si fa propaganda, o la propaganda che si fa arte, è in realtà molto antico. Ma è nel Novecento, con le sue guerre e i suoi futurismi, che il rapporto si fa più stretto e conflittuale, mentre nuovi esperti di ciò che si chiamerà “comunicazione”, come Walter Lippmann nel ‘22 o Edward Bernays nel ’23, codificano la propaganda come tecnica di persuasione, anzi manipolazione della coscienza. Democrazia, spiega Bernays, significa che la nostra coscienza e percezione sono governate da altri, e “le nostre menti vengono modellate” (figuriamoci la dittatura). La propaganda crea la realtà.
   Che la macchina del tempo e dei mondi possibili decolli allora tra futurismo e nuovo realismo, e la grafica sovietica, con un tocco di Malevic, incontri i muri del ’68 francese e le risate e i risotti del ’77 bolognese (così anche la nostra generazione non avrà miracolosamente dissipato alcun poeta). Che la propaganda non propaghi altro che humour, rivolta, passioni, la fecondità del dubbio e l’innamoramento; e soprattutto la felicità – per propagandare la quale non può che essere essa stessa felice.