Cammino nei “paesaggi in breve” di Tullio
Pericoli, da qualche parte tra Twombly, Cézanne e Ambrogio Lorenzetti, vago e
divago come in un libro che non finisce, o come in una poesia del grande
Wallace Stevens: “Nella mia camera, il mondo è al di là del mio intelletto; /
Quando cammino vedo che si compone di tre o quattro / colline e di una nuvola”.
Da dove viene tanta bellezza, mi chiedo mentre non cesso di guardarmi intorno,
perché tanta felicità estetica?
Dovrei
nominare le delicatezze sublimi dei colori e del tratto, tutto il lessico
giocoso e sapiente della pittura (punti, linee, superfici, colpi di pennello e
di dita, impronte digitali), ma questi paesaggi mi parlano anche molto di
scrittura: lo scrivere con le mani, l’arte di tracciare segni e bassorilievi a
volte impercettibili ma non virtuali; e quell’altra scrittura della terra e
nella terra, campi coltivati e anch’essi “manoscritti”, patchwork di idiomi e
di grafie, come stoffe fatte di scampoli di diverse tessiture; terre, non a
caso di rasserenante bellezza, cucite di una babele di scritture, di epiche e
di lingue. Per esempio i vigneti e gli oliveti delle Marche e del Chianti, gli
stessi che vediamo sullo sfondo della Allegoria del Buon Governo,
colline come pagine immense di libri aperti, libri la cui lingua non sempre
sappiamo leggere, ma che riconosciamo appunto scritta, punteggiatura compresa -
cipressi a fare punti esclamativi, puntini e macchie di sospensione, boschive e
d’inchiostro...
Come
un volto è tale proprio perché scritto, così il paesaggio, che ne è
forse (e non solo per Pericoli) modello intercambiabile.
Paesaggi “in
breve”: in letteratura la brevitas, o
breviloquentia, il “dire molto con poco” (l’opposto della magniloquentia)
richiama lo stile semplice e morale, “piano” ma acuminato (gli “acumina” erano
figure di ingegno nella retorica stoica e poi barocca). Ma fra le tante
associazioni di idee che mi suscita prevale qui la somiglianza con l’haiku, la
breve anzi fulminea poesia giapponese che è epifania del “qui e ora”,
testimonianza dell’eccezionalità dell’ordinario, forma zen dell’idillio (un
idillio in breve). “Idilli” erano i Canti del marchigiano Giacomo
Leopardi, letteralmente “quadretti”, paesaggi di un mondo esterno e interno,
soglie dell’anima, come è il caso della più celebre (e più bella) poesia
italiana sul paesaggio, l’Infinito. Negli idilli del marchigiano
Pericoli, come nell’haiku e nell’idillio leopardiano, la valorizzazione dello
spazio coincide con una logica che annulla le dualità - la forma è vuoto e il
vuoto è forma, il questo è il quello, il qui e ora è il perdersi nell’immenso -
ma non la meraviglia di ciò che accade. L’arte dell’haiku (e dell’idillio) è
arte dell’apparire, qualcosa di radicalmente diverso dalla rappresentazione. Se
rappresentare è un atto luttuoso e funebre che celebra ciò che non c’è più, che
è stato, o che ci sarebbe; far apparire celebra al contrario i gioiosi tratti
di pennello che rivelano se stessi e il mondo, colori e forme, segni e tracce e
impronte di vuoto o di pieno, di nudità, di presenza, linee curve e verticali,
oblique, orizzontali; calligrafie; paesaggi e terre. E’ questa la felice magia
degli acquerelli (e degli oli) di Tullio Pericoli, dei suoi paesaggi in breve.
(aprile 2013)
La mostra si inaugura giovedì 9 maggio da Tricromia
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