Per la serie "Che cosa il contemporaneo?", sulle pagine di cltiura de l'Unità, oggi uscito questo mio intervento sull'opera di Renato Meneghetti, che ho appunto scelto...
L’oscurità crescente del concetto di “contemporaneo” in riferimento all’arte (e non solo), è parte costitutiva del senso delle opere. E se è vero che le opere contemporanee hanno a che fare col “gesto”, come suggeriva Jean-Luc Nancy, si capisce come questa oscurità derivi costitutivamente dal confondersi e convergere in esse di istanze linguistiche distinte, significato, intenzione, effetto suscitato (locuzione, illocuzione e perlocuzione) che al gesto e all’ostensione sono proprie; a cui aggiungerei la testimonianza, e l’attenzione al contesto dell’opera.
Ora, se lascio da parte i due artisti che più amo e su cui ho più volte scritto - Christian Boltanski e Claudio Parmiggiani - mi pare che il fantasma del “contemporaneo” sia proprio in ciò che unisce e separa due opere, le più importanti e recenti, di Renato Meneghetti: le teste (e volti) di Indifference-Clandestine, il cervello che si gonfia, vuoto e trasparente, di Optional.
Immaginate – come è accaduto pochi giorni fa all’Arsenale di Venezia - che una specie di preservativo afflosciato per terra cominci a gonfiarsi smisuratamente, mostrando meandri di tubi trasparenti che lentamente si gonfiano fino a formare gli emisferi cerebrali, una gigantesca cupola assolutamente vuota che contiene gli stessi attoniti spettatori. In quest’opera-perfomance che si ripete ogni 12 minuti, sgonfiandosi e rigonfiandosi, le reazioni e i pensieri dello stupito pubblico corrispondono al risveglio (erezione) del cervello come pubblica coscienza. Che, ahimè, è solo un optional.
L’opera precedente, Indifference, continuamente replicata in ogni spazio pubblico anche con tecniche di guerrilla urbana (l’ho vista quest’anno sia a Roma, in apertura di Road to Contemporary Art al Macro, che clandestinamente posta sulla pedana d’ingresso di Art Basel a Basilea), consiste in una distesa per terra di teste di ceramica bianca, calchi del volto dell’artista e di altri (anche un bambino): crani e volti inermi e fragili, con gli occhi chiusi, e un’espressione contemplativa che ne aumenta l’inermità, che interferiscono e a volte interrompono il flusso e la circolazione delle persone, o quanto meno le obbligano a considerarle, evitarle, oppure al contrario a infierire su di esse e frantumarle.
La prima volta che le vidi mi sembrò uno spazio sacro (un camposanto, pensai), e mi incantò vedere la fenomenologia dei comportamenti del pubblico, le diverse andature e retoriche deambulatorie (come avrebbe detto Michel De Certeau): esitanti, rispettose, curiose, distratte, ignare, noncuranti, irreverenti, mondane. O indifferenti, appunto. Ma fu una carneficina di cocci, con signore che si facevano fotografare dai mariti non solo mentre prendevano a calci o sfondavano le teste con i tacchi a spillo, ma mentre le sollevavano e, sotto il flash del telefonino, le lasciavano ricadere a terra dall’altro gustandone il rumore di cocci infranti come ossa. Altri camminavano fra le teste per urtarle, come chi si diverte a far scoppiare palloncini. Fui molto turbato dal crescendo di aggressività indifferente, tanto più che l’inermità dei volti e teste per terra è già in sé il perfetto simbolo dell’opera d’arte, che nel migliore dei casi è sempre un volto che si espone, si offre (s’offre), alla nostra simpatia o violenza. (Vale per l’arte ciò che vale per il sacro e il gioco: cosa fa sì, per esempio, che in certi luoghi, di fronte a certi oggetti o persone, facciamo silenzio o ci togliamo il cappello, oppure rilanciamo la palla che ci cade addosso?).
“Il volto è rivolto a me, è la nudità stessa” - ha scritto il maestro dell’etica Emmanuel Levinas – per il quale il volto è l’epifania di Dio, cioè del prossimo, “ciò davanti a cui io non posso più potere”. E in effetti, nel catalogo Electa di Renato Meneghetti (2006, a cura di A. Bonito Oliva), le teste rotte di Indifference sono giustapposte all’opera Clandestine, carrellata di immagini di profughi, mendicanti, clandestini, miserabili come I ciechi di Bruegel, che ci interpellano a mani nude e vuote, o con cartelli muti e per questo assordanti.
A Roma (ma più o meno capita ovunque) restò un tappeto di cocci tritati che risuonava sotto le scarpe. Il campo di teste posto senza permesso all’ingresso di Art Basel – immaginatevi, per fare un esempio attuale, di trovarle sul red carpet della Mostra del Cinema a Venezia - fu rimosso con gelida efficienza dalla polizia, che le scaraventò ancora intere dentro furgoni come rifiuti, come le bottiglie nei contenitori del vetro. In una strada pedonale di Basilea solo i bambini erano rispettosi e camminavano attraverso le teste come una gimkana. Un padre di famiglia in vestito scuro e cravatta prese una testa e la lanciò come al bowling, per romperne quante più possibile; con gesti calmi, precisi, meditati, distruttivi, come un gioco al massacro virtuale. Ed ecco, ovunque le teste di fragile ceramica bianca di Meneghetti sono un intralcio proprio come i poveri e i reietti della società, clandestine ed extracomunitarie, socialmente ed esteticamente rivelatrici.
In fondo anche questa è una “apocalisse con figure” (per citare una bellissima mostra di Parmiggiani), così come “l’indifferenza” richiama, opposto dialettico o contraltare, la “commemorazione”, che è il cuore dell’arte di Boltanski. Quanto alla componente essenziale dell’arte di Meneghetti, la previsione o induzione della risposta del pubblico, credo che sia un tratto costitutivo dell’arte “contemporanea”.
1 commento:
opera vecchia è dal 2006 che gira sempre la stessa e ovunque! madò che monotonia!
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