Vorrei offrire ai lettori un
paio di pensieri ancora in corso.
Il primo nasce dal fastidio per alcuni commenti letti qui e là
sul 25 aprile, dove con leggerezza e arroganza si pongono sullo stesso piano i
partigiani di allora e i “ribelli” di oggi – dai No Tav a chi manifesta per la
casa. Ma c’è una grande differenza tra chi “si ribella” per avere o ottenere
qualcosa (soldi, casa, cose, etc.), per rivendicare un diritto (reale o
presunto), e chi si ribella non per sé, non per avere qualcosa, non per ottenere
soddisfazione o un risarcimento, ma per essere e permettere ad altri di essere,
per contribuire a liberare, comunque sia, senza altri scopi né meriti, un mondo
al di la di sé, perfino un mondo senza di sé – un mondo che si può immaginare
senza il proprio “io”, un mondo nel quale possiamo benissimo essere assenti: ed
è questo che furono i partigiani della generazione di mio padre, così come lo
furono i combattenti volontari della guerra di Spagna bombardati dai fascisti
italiani, come Ernest Hemingway, etc. etc.
E’ la stessa differenza, credo, tra chi vive religiosamente per
avere il premio agognato di un Paradiso, e chi vive evangelicamente senza
nemmeno saperlo, senza accorgersene, senza maturare nemmeno inconsciamente un
fantasma di credito o di premio per le proprie azioni, ma lo fa solo perché è
giusto, pulito e soprattutto naturale farlo. Con bontà che vorrei chiamare
“animale”.
Finché non sarà chiara per tutti la differenza, il mondo sarà di
continuo attraversato da tragici ma infantili conflitti di falsi ego, capaci di
uccidere e di uccidersi per un giocattolo – per il fantasma ossessivo di un
diritto, di un possesso, di una rivendicazione, di una cosa, di una qualsiasi
impermanenza.
Il secondo pensiero lo suggerisce il poeta Carlo Bordini
sulla sua pagina Facebook, dove per richiamare l’attenzione sulla nuova ondata
di semplificazione che investe ogni ambito, dagli editori che chiedono che i
libri siano scritti in modo “semplice”, ai governanti che parlano con slogan di
25 parole ripetute all’infinito, e i cui programmi politici sono composti da
dieci, massimo quindici parole, invita a leggere il brano di un articolo uscito
tempo fa su l'Unità:
“Osservo di nuovo che l’imbarbarimento di una nazione (di questo
si tratta) nasce e si presenta spesso come una politica di semplificazione –
che non è proprio una bella parola, e designa una riduzione innaturale della
complessità, ossia dell’intelligenza. Si crea e si consolida nella riduzione
del linguaggio, del pensiero, della politica, nella neo-lingua pubblicitaria
più volte denunciata, nello scavalcare il Parlamento e l’etica della
discussione. Ma è soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalla cultura e
dall’educazione che l’autoritarismo “semplice” si insedia e riproduce,
svuotando di senso il concetto e la realtà di una Repubblica. Il costo umano,
sociale culturale è esorbitante. Le sue conseguenze rischiano di essere
irreversibili.”
Il brano è tratto da un articolo intitolato “La lezione degli
studenti” (parlava delle loro lotte), e uscì il 24 ottobre del 2008. L’autore,
anche se me n’ero totalmente scordato, ero io stesso. Ma la cosa inquietante è
la sua attualità. Rientra nella violenza della semplificazione, oggi, la
contrapposizione “prendere o lasciare” tra conservazione e innovazione, dove la
seconda per definizione è “di sinistra” e deve per forza essere vincente – e
che importa se invece la conservazione riguarda Pompei o la Biblioteca
Nazionale, le scuole pubbliche, l’educazione e la memoria. E così la sera del
25 aprile, venerdì, in una trasmissione televisiva, un giovane esponente del
centro sinistra irrideva come bizzarria conservatrice la sacralità delle feste
(quelle civili) in cui si scoraggia il lavoro, il commercio, il negozio. Che
importa, diceva, la memoria del 25 aprile, se un commerciante vuole
approfittare della festa per vendere più merce? La sicumera con cui venivano
esibite queste parole che mandavano al macero (rottamavano?) decenni e forse
secoli di educazione civile, di lenta acquisizione di consapevolezza che ci
sono cose “non in vendita”, valori non economici e comunque non monetizzabili,
mi stordiva; e pensai che sì, una nuova barbarie è cresciuta dentro di
noi, e niente è più al suo posto. L”irreversibilità di cui sopra è già iniziata
da tempo.
Alla rozzezza del negozio, del profitto a
ogni costo, festa o non festa, corrisponde una simmetrica rivolta dei
forconi e dei cosiddetti ribelli. Nell’attuale scacchiera sociale senza memoria
né orizzonti tutto sembra intercambiabile con tutto. Non c’è differenza,
nessuno sembra più capace di immaginare cosa sia un mondo senza se stessi. Alla
sola ipotesi, il commerciante come il senza casa, come il banchiere, come
il politico, sono certo che si porterebbe una mano sulle palle, altro che
guerra di Spagna: chi se ne frega “per chi suona la campana”, speriamo non per
me.
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