4/13/2014

Le mie panchine e i suoi freddi imitatori. Un caldo articolo di Paolo Lagazzi confronta stili letterari e saggistici

Riporto qui di seguito un articolo del critico e saggista Paolo Lagazzi uscito oggi, domenica 13 aprile, sulle pagine culturali de l'Unità. A mia conoscenza è l'unico commento ufficiale (di privati ne ho sentiti parecchi) sull'imbarazzante somiglianza del libro recente di un universitario svizzero, Michael Jakob, dal titolo Sulla panchina..." (Einaudi), al limite del plagio - per esempio nel "paratesto" dell'edizione italiana - al mio libro Panchine... (Laterza).


   Tra le molte specie di libri, quelli che amo di più hanno il carattere di luoghi. In essi è possibile abitare. Li si può attraversare nei modi più vari, in bicicletta, a cavallo, in tram o volando, con passi elastici, leggeri o cadenzati con forza; li si può misurare col respiro e coi sensi toccando cose, spostandosi e guardando, alternando le fughe alle soste, i ritmi sostenuti al piacere della lentezza.
   Uno di questi libri, apparso nel 2008 da Laterza [collana Contromano, ora alla quinta edizione], è Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne di Beppe Sebaste, un'opera in bilico tra il racconto, la poesia e il saggio, fra lo schizzo divagante, le quiete meditazioni alla Montaigne e le liriche impennate del jazz. L'autore ci conduce per mano lungo una serie innumerevole di panche, panchine, sedili mostrandoci come questi strumenti creati per il riposo siano tanto più speciali quanto più inappariscenti, capaci di schiudere delle prospettive inedite sul mondo agli amanti della flânerie e delle pause.
  Portandoci tra questi oggetti extraterritoriali, da cui è possibile vedere ogni cosa senza essere visti, o su cui si possono incontrare gli altri esseri umani completamente sciolti dalla morsa dell'”utile” o della fretta, il libro di Sebaste squaderna itinerari del corpo e dell'anima ricchi di una vera sapienza zen. Sedersi idealmente al fianco dell'autore, ripercorrere alcuni dei suoi momenti privilegiati tra Parigi, Sils-Maria, Big Sur o Manhattan, ripensare ai tanti scrittori e registi che hanno evocato panchine nei loro testi e nei loro film, o che hanno saputo immaginare la vita come abbandonati su qualche panchina, è un'esperienza epifanica, un esercizio di ecologia della mente, un'avventura nella leggerezza delle cose gratuite, luminose e ariose in un tempo liberato dal dover essere.
   Debitore nei confronti di Sebaste per molte ragioni (anzitutto per l'idea che le panchine siano oggetti particolari, davanzali sull’altrove, soglie in grado di muovere le traiettorie della visione in modi inconsueti) è senza dubbio il saggio Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell'arte di Michael Jakob (Einaudi, pp. 268, euro 28), noto docente di storia e teoria del paesaggio, attivo in Francia e Svizzera. Come Sebaste, Jakob esplora panchine non solo fra ambienti reali (parchi, ville, giardini) ma anche tra libri, quadri e film. Poiché conosce bene la nostra cultura e parla la nostra lingua, è piuttosto singolare che non ricordi mai lo scrittore italiano, sebbene sia innegabile la loro distanza: innervata dalla libertà poetica, dal respiro intimo e dalla freschezza creativa l’opera di Sebaste, sviluppato in senso teorico il libro dello studioso francofono, con affondi ermeneutici, semiotici, psicologici o ideologici che si possono accostare alle ricognizioni di Panofsky sulla prospettiva, ad alcuni saggi di Starobinski e anche, credo, alla cosiddetta “prossemica”.
   Mentre lo scrittore italiano (a sua volta allievo di Starobinski all’Università di Ginevra e traduttore di Le passeggiate del sognatore solitario di Jean-Jacques Rousseau per Feltrinelli) interpreta la panchina come un'occasione vitale per perdersi e ritrovarsi in un movimento di abbandono rigenerante al mondo, per Jakob essa è anzitutto un dispositivo ottico inventato dagli architetti italiani a partire dal Trecento per pilotare gli occhi degli abitanti delle nuove città, per indurli a contemplare in modo ideale il nuovo spettacolo urbano. Nasce, allora, una "politica dello sguardo", una strategia di prospettive manovrate dal Potere che raggiungerà uno dei suoi apici nei giardini del Settecento, ad esempio quello francese di Ermenonville legato alla memoria di Rousseau.
   Oltre alle panchine-osservatorio orientate verso luoghi simbolici, ne esistono anche alcune diventate a loro volta simboli o icone, punti di convergenza per gli sguardi di intere epoche. Basti pensare alla panchina di Gorki su cui l'ultimo Lenin si è fatto fotografare a ripetizione, al suo valore di propaganda dilatato fino a un'aura sacrale. Altre panchine, come  quelle rappresentate da Manet e Monet in due celebri quadri e da Antonioni nel finale del film L'avventura, ci attraggono, secondo Jakob, per motivi del tutto diversi: per il loro testimoniare sui rapporti tra uomini e donne, ovvero sull'incerta realtà della coppia e dell’eros tra l'Otto e il Novecento. In queste scene sguardi si sfiorano, s’incrociano e sfuggono, mani si avvicinano e si allontanano sulle spalliere di sedili segnati dalle ombre della nevrosi, dell'agguato o del sospetto... Peccato che, da tutto ciò, lo studioso non sappia ricavare altro che riflessioni eleganti ma astratte, fredde e un po' vacue, mentre è ancora a Sebaste che dovremo tornare se desideriamo cogliere la ricchezza vera delle panchine, le loro potenzialità narrative: "ci sono mondi di racconto in ogni punto dello spazio...". In altri termini: ogni panchina non merita forse una storia, un sogno, un piccolo mito?
Paolo Lagazzi
(articolo uscito su l'Unità, domenica 13 aprile 2014)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Anche se non ho letto il libro di Jakob (quello di Beppe sì, e più di una volta) condivido pienamente il pensiero di Paolo Lagazzi. Affrontare un'opera poetica sotto il profilo della prossemica è come spiegare il processo della salivazione a chi sta parlando di baci, non penso che se ne senta il bisogno.
sergio