Giuseppe Ungaretti in spiaggia in "Comizi d'amore" di Pier Paolo Pasolini |
Tutte le volte che ho parlato del bel film di
Roberto Andò Viva la libertà, con un
lapsus lo chiamavo Viva la felicità,
come se volessi evitare quella parola abusata e, credo, sopravvalutata (“popolo
delle libertà”). Mi accade la stessa cosa cercando un pezzo di Goffredo Parise
nel Sillabario n. 2 col titolo Felicità, ovviamente senza trovarlo
perché si chiama infatti Libertà: “un
pittore americano che pedala una bicicletta giallo canarino sotto i pini di
Villa Borghese”. Qual è in effetti la didascalia migliore?
Gli Americani la vollero nella Costituzione
[errata corrige: nella "Dichiarazione d’Indipendenza"]
e anch’io penso oggi che felicità sia una parola nuova e rivoluzionaria. Ma
cosa significa? Chiedo a Mira, albanese, ex maestra elementare, da molti anni a
Roma come babysitter e collaboratrice domestica, se sia felice. “Stamattina
sì”, mi dice sorridendo, “perché ho dormito un’ora di più. Mi sentivo riposata
e quindi felice, ho preso tutto alla leggera. Altre volte sono in ansia per il
ritardo dell’autobus, oggi no”. E’ questo la felicità, avere tempo? “Anche, ma
non solo: oggi ho dato un bacio a mia figlia e non mi ha respinto, forse sta
cambiando. L’amore di un figlio, capirsi in silenzio, è felicità. Quanto al
mondo di fuori, la politica, non c’è nulla che mi piaccia, ma non ha più alcun
ruolo nella mia felicità”.
E io, mi chiede, sono felice? No. Perché?
Perché ho paura di non riuscire a esserlo, mi frego da solo. Mi chiede comunque
un esempio di felicità. Quando ho visto per la prima e unica volta il famoso
raggio verde del sole al tramonto, che credevo ormai non esistesse. Dove? A Ostia. E mi viene in mente che,
quando prendo la Via del Mare verso Ostia, mi sento sempre bene. Forse felice.
Così eccomi a Ostia, quartiere balneare di
Roma prossimo alla foce del Tevere e all’aeroporto di Fiumicino. E’ sabato, la
luce è perfetta e cammino sul lungomare di ponente, quello più povero, dove si
vede ancora il mare. Al ritorno mi fermo a un panificio aperto giorno e notte.
E’ un punto di riferimento non solo per il pane fresco e le pizze calde, ma
anche per mangiare altre cose.
Il proprietario, Piero Morelli, già
presidente dei panificatori di Roma, mi fermò un giorno per parlare di libri,
poi mi mostrò il suo studio, una specie di piccolo museo del pane. Adesso mi
parla dell’infelicità nuova che vede dal suo osservatorio, dall’esercizio di un
lavoro che consiste nell’accontentare la gente, servirla. “Siamo in un mondo in
cui la felicità è effimera, artificiale e imposta dall’alto, ma tocco con mano
un disagio mai visto, un’impazienza tesa e sgarbata, una predisposizione a
rispondere a una carezza con uno schiaffo. Con gli anziani ancora si parla, c’è
chi si abbandona alla confidenza e perfino al pianto, ma i giovani non
concedono nulla. La notte soprattutto, aspettando che si scaldi la pizza, una battuta
o qualsiasi parola che non sia strettamente di servizio viene interpretata in
modo aggressivo. Lo stato attuale dei rapporti tra le persone, visto anni fa in
un film, sarebbe sembrato fantascienza”.
Vede le tensioni e i litigi familiari, le
asprezze, la rassegnazione, la tristezza per il futuro incerto dei figli, la
cupezza di chi non ha più lavoro a cinquant’anni. “Ho un cliente che lavorava
in un’impresa di distribuzione di carburanti, ora farebbe il lavapiatti pur di
non subire l’umiliazione di sedersi la sera a tavola senza il coraggio di guardare
in faccia i figli”.
“Io sono felice perché ho i miei
anticorpi, Radio Tre la mattina, i libri, le tue Panchine, Ceronetti, Cioran, mio figlio dietro al banco del
panificio che ha l’insegna col nome di mio padre, classe 1909, che dormiva sui
sacchi di farina di Piazza Venezia di fianco alla chiesa della Madonna di
Loreto, protettrice dei fornai di Roma”. (Intanto annoto: è la durata che fa la
felicità, il senso narrativo della propria esistenza, antidoto alla logica
della precarietà? Interiorizzare già da giovanissimi la paura di non trovare un
lavoro mi sembra un’infelicità recente e crudele, chi l’ha creata? Ai miei
tempi non avevo un soldo, ma sarei scappato chissà dove pur di non avere un
lavoro fisso).
“Potrei sfruttare del tutto legalmente le
opportunità del precariato. Spenderei la metà, ma distruggerei il patrimonio di
questa azienda basata sul rapporto affettivo coi clienti, sulla memoria
acquisita dal personale dipendente”. Insieme al pane qui si offre gentilezza,
conforto. C’è la signora Maria che scende con la vestaglia e chiede lo
zucchero. Un senso di comunità che la grande distribuzione, Eataly di Farinetti
compresa, che è come uno zoo in cui si va a vedere lo spettacolo del cibo, non
può dare. Il fornaio Morelli mi parla invece dei negozi tradizionali, che
rispondono a un’esigenza di rapporti col territorio e la vita del quartiere.
“Un amico, vedendomi coi miei clienti ha detto che gli sembrava un film di Totò
o di Pasolini”.
E’ un raro esempio di negozio (negotium) che non si contrappone
all’ozio (otium), ma lo completa.
Oltre ai tavolini fuori, da anni ci sono due grandi panchine, comode e
gratuite. Si ha l’impressione di stare su una soglia magica del mondo in cui
prima o poi passeranno tutti, il luogo ideale per fare delle interviste, dei
“comizi” pasoliniani sulla felicità. Del resto, questo pane ai cinque cereali appena
sfornato o questa morbida colomba pasquale sono un esempio profumato e
tangibile di felicità. Da una gazzella dei carabinieri scende un vicebrigadiere
impeccabile e gioviale. E’ felice? “Oggi più di ieri”, sorride alludendo alla
luce quasi estiva. Mi racconta la pena, durante i controlli di routine, delle
persone cui sembra cadere il mondo addosso per un’infrazione, ma che viceversa
è bellissimo veder rinascere quando la si aiuta e condona. Mi parla dei
tentativi di felicità della gente, anche solo uscire dalla nebbia depressiva
della città per immergersi nella luce e vedere il mare.
Ci sono tanti mondi dentro il mondo. A due
passi da qui, dove il sindaco Alemanno voleva fare un casinò, c’è la biblioteca
Elsa Morante, una chiesa del Sant’Egidio, una comunità di extracomunitari e una
moschea. Passa una donna senza età, volto radioso e sereno. “Felicità è la
lucidità di comprendere che la vita non è servire i sensi e il mondo materiale,
ma l’anima, che è una scintilla del Divino. Sono felice, vivo con altre dodici
persone in un tentativo di comunità
intrapreso per fuoriuscire dall’egoismo e avere un destino spirituale
comune. Il mondo di fuori influisce, sì, ma come sabbie mobili”, conclude
ridendo. Con lei un uomo sui trent’anni, consigliere regionale umbro: “La
politica può fare tanto per migliorare le condizioni di vita delle persone, ma
ho imparato facendola che non è esaustiva, deve connettersi con una dimensione
spirituale. Felicità è rendersi conto di essere una parte, magari infinitesimale,
del Creato”. Valeria, avvocato: “Ci si sente felici quando, dopo una perdita o
un’interruzione, c’è un recupero dello stato precedente, con una consapevolezza
che prima non si aveva, perché si era nello stato naturale, quello senza il
senso della perdita. La politica, il mondo di cui parlano i giornali, crea
turbamento, ma non influisce sulla nostra felicità di fondo”.
Il cielo comincia a tingersi di viola e
arancio. Mi ha raggiunto un amico poeta, Sergio, ex aviatore che abita qui a
fianco (“Sei felice?” “Sì, perché uso lo stratagemma di avere desideri minimi,
evitando quelli irraggiungibili”). Nel via vai incontra un ex collega romagnolo,
Giulio, pilota ex cassintegrato Alitalia che ora vola sui jumbo cargo di una
compagnia con sede a Malpensa. La felicità, dice, è entrare in un panificio a
Ostia e trovare un amico fraterno. Qui ce ne sono tanti come lui, versioni
aeronautiche di Ulisse, sempre desiderosi di essere altrove. Ma la vera felicità
è tornare a casa, dice, l’emozione che prova ogni volta al ritorno dal giro
consueto Milano-Osaka-Hong Kong-Baku-Milano, quando scorge le Alpi e cala verso
Bolzano. Ama svisceratamente l’Italia e ogni paesino. L’Alitalia, dice, era uno
specchio delle sfaccettature del Paese, un patrimonio anche di persone.
La felicità è qualcosa che ti attraversa
come un fantasma, che non potrai mai prendere né possedere, come la memoria del
mondo, qualcosa di cui puoi solo fare parte.
(articolo uscito su Venerdì di Repubblica del 18/4/2014)
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