Domani venerdì 4 aprile, a Bologna, si svolgerà questo incontro sullo scrittore Giorgio Messori, scomparso nel 2006. Gino Ruozzi, curatore del raccolta postuma di racconti Storie invisibili e altri racconti, ha scritto una breve e bella nota biografica dell'opera di Giorgio. Fu il mio migliore amico, abbiamo scritto e fatto insieme tante cose, e sono terribilmente impacciato ogni volta che egli diventa oggetto di discorso. Scusatemi. Qui trovate alcuni testi su Giorgio. Su Giorgio, a Roma (23-24 febbraio) e a Reggio Emilia (novembre 2013) si sono già svolti incontri di studio col titolo Io non sogno mai (come un racconto di Giorgio sulla Via Emilia). In particolare a Reggio Emilia il poeta Carlo Bordini disse queste parole.
A Roma, nell'angoscio dei tempi contingentati, la notte prima del convegno avevo scritto di getto degli appunti su e in memoria di Giorgio, che lessi per stare dentro i tempi. Poi li inserii, nonostante il loro tono quasi trafelato, senza alcuna correzione, come appendice o rewind del capitolo sulla scrittura del mio Libro dei maestri (Porte senza porta rewind) ripubblicato quello stesso anno in una nuova edizione da Sossella - capitolo che già nell'edizione Feltrinelli degli anni '90 finiva con un meraviglioso decalogo sullo scrivere che mi aveva dato Giorgio. Nell'imminenza dell'incontro di Bologna - il cui titolo è dedicato forse ai lavori di Giorgio di descrizione e osservazione del mondo esterno, come nel bellissimo Viaggio in un paesaggio terrestre, scritto e costruito col fotografo Vittore Fossati - vorrei offrire qui, tale e quale, quel testo intimo, gli appunti trafelati che lessi al convegno di Roma quattro anni fa. Non c'è un titolo, solo una dedica. Per Giorgio Messori.
A Roma, nell'angoscio dei tempi contingentati, la notte prima del convegno avevo scritto di getto degli appunti su e in memoria di Giorgio, che lessi per stare dentro i tempi. Poi li inserii, nonostante il loro tono quasi trafelato, senza alcuna correzione, come appendice o rewind del capitolo sulla scrittura del mio Libro dei maestri (Porte senza porta rewind) ripubblicato quello stesso anno in una nuova edizione da Sossella - capitolo che già nell'edizione Feltrinelli degli anni '90 finiva con un meraviglioso decalogo sullo scrivere che mi aveva dato Giorgio. Nell'imminenza dell'incontro di Bologna - il cui titolo è dedicato forse ai lavori di Giorgio di descrizione e osservazione del mondo esterno, come nel bellissimo Viaggio in un paesaggio terrestre, scritto e costruito col fotografo Vittore Fossati - vorrei offrire qui, tale e quale, quel testo intimo, gli appunti trafelati che lessi al convegno di Roma quattro anni fa. Non c'è un titolo, solo una dedica. Per Giorgio Messori.
Non ho mai parlato di Giorgio, ho sempre parlato con
Giorgio. Un parlare che d’altronde non escludeva il silenzio, anzi lo
comprendeva e lo esaltava. Il “con” avvenuto con lui, la comunità delle nostre
parole e silenzi, che a volte si prolungavano le une nelle altre, l’uno
nell’altro, è la parte più importante della mia formazione. Educazione allo
sguardo, al pensiero, al formare frasi. Educazione all’esperienza. Parlare di
lui, farne oggetto e non soggetto di parole, è più grave che parlare in sua assenza,
perché parlavo con lui anche in assenza di lui (è questa la magia umana dello
scrivere, rendere presenti gli assenti). Lo abbiamo fatto in un lungo
epistolario, per esempio. Scrivere è già sempre un gioco di fantasmi, come
sapeva il suo amato Kafka. E in qualunque storia di fantasmi, siamo sempre noi,
i fantasmi: gli scriventi, i testimoni.
Ora qui siamo in un’aula universitaria. Giorgio e io ci siamo
conosciuti in un’aula universitaria, a Bologna, alla lezione delle 9 del
mattino di Estetica di Luciano Anceschi, a.a. 1978/79. Era l’unico corso che
frequentavamo. In Estetica con Anceschi ci siamo laureati insieme, quasi fianco
a fianco (in un’altra aula). [Ricordo: qualche minuto prima ci svegliavamo alle
luci di un bar, dopo una note insonne e una lettura di poesie in un paesino
dell’Emilia, ci facevamo domande, afasici come non mai. La sua tesi era sulle
“Poetiche narrative in Peter Handke”, la mia sulla “Poetica del romanzo
giallo”. Durante la cerimonia ci eravamo dimenticati di sfilarci l’impermeabile.
Un’amica ci ha fotografati, attoniti, all’uscita, con le Tesi in mano. Dopo
siamo andati sui colli a dormire e ascoltare musica rock. La canzone di quei
giorni era Out of the blue, voce di Neil Young.
Quello stesso pomeriggio del 12 novembre 1982 abbiamo fondato davanti al notaio
la cooperativa editoriale Aelia Laelia, che si proponeva di pubblicare solo
libri organici, necessari e felici, quelli cioè rifiutati dalle case editrici
perché nuovi. La sera, un’altra lettura a Reggio Emilia, dove io e Giorgio
facemmo insieme una performance quasi improvvisata dal titolo beckettiano
“Tutto lo strano via”, con le scarpe in mano e una candela accesa. Era un
elenco di frasi... E ora basta coi ricordi, che non finiscono mai].
Parlo invece delle letture di Giorgio, i suoi veri
interlocutori, le sue passioni, gli eroi della sua sensibilità e coscienza, che
non ha mai messo da parte.
Baudelaire e i poeti americani, su cui ci eravamo entrambi
svezzati. Beckett, tutto. Kafka, quello dei Diari e dei Colloqui con Janouch oltre che i
racconti e i romanzi, e tra i romanzi il grande teatro dell’Oklahoma con cui si
chiude America, e l’idea che si possa descrivere un Paese senza
visitarlo, e fare uso di quella descrizione come di un vademecum per il
visitatore. Il parlare con l’angelo delle poesie di Rilke: la voce di Giorgio
che legge per gli amici le Elegie Duinesi, in particolare l’Ottava
(che lesse anche al funerale di mio padre) – “La creatura, qualsiano gli occhi
suoi, vede / l’Aperto. Soltanto gli occhi nostri son / come rigirati, posti
tutt’intorno ad essa, / trappole ad accerchiare la sua libera uscita. / Quello
che c’è di fuori, lo sappiamo soltanto / dal viso animale; [...] Libero
da morte...”.
E il parlare con l’Angelo di Walter Benjamin. E Robert Walser,
naturalmente, e la filosofia prima della filosofia studiata da Giorgio Colli, i
Minima moralia di Adorno, l’aforisma sul verso di Baudelaire
“rien faire comme une bête”, “giacere e guardare tranquillamente il cielo”,
immagine della pace perpetua e della fine della dialettica, che Giorgio sentiva
come un’esperienza fisica, corporale. Le poesie di Vladimir Holan di cui mi
fece dono pochi giorni dopo il nostro incontro, Una notte con Ofelia - dove si trova il verso “è sempre il poetico che uccide la poesia”, dove si parla
della neve, del silenzio e della “cucina dell’insonnia” - “tanto meno gesti /
nulla da mettere in mostra”; e “La Ballerina”, su cui mi scrisse una lettera
intensa. Fame di Knut Hamsun.
Era l’epoca in cui entrambi leggevamo Peter Handke e
ci riconoscevamo nella dichiarazione dello scrittore austriaco, rilanciata dal
regista tedesco: “La mia via fu salvata dal rock’n roll”. La tasca del suo
giaccone dove un tempo teneva sempre una copia dei Temi di Fritz Koch di
Robert Walser passò col tempo ad albergare l’anarchico esilarante L’imitatore
di voci di Thomas Bernhard, prose brevi del tutto libere, comiche e
audaci, dove la finzione era mischiata a nomi di persone reali e viventi, e
Giorgio che scoppiava a ridere ogni volta che le leggeva a voce alta, e
tentammo di imitarle in un progetto: “L’imitatore dell’imitatore di voci”. La
colonna sonora del libro che facemmo insieme, L’ultimo buco nell’acqua,
era Rock’n roll Suicide di David Bowie... Anche qui
l’elenco potrebbe continuare a lungo, troppo. Ma che cosa hanno in comune le
letture, le passioni letterarie e non solo di Giorgio, che io ho condiviso?
Credo
questo: un certo rapporto tra la letteratura (e l’arte) e la vita, e una specie di smania pacata della
verità. Giorgio
Messori amava appassionatamente e laicamente la verità, l’insorgenza
dell’evidenza come rivelazione laica, che è tanto più trascendente quanto più è
immanente, come un’epifania che porta a una specie di beatitudine mentale,
spesso addirittura al riso. Ma poteva essere “la nebbia color ciliegia” nel
cielo di un tramonto invernale visto
alzando gli occhi mentre leggeva un racconto di Jim Ballard che descriveva,
appunto, “una nebbia color ciliegia”, perché le frasi lette - come, scoprimmo
più tardi, le fotografie dell’amico Luigi Ghirri - hanno “il potere di
modellare (mi) una sensazione percettiva fino ad allora sconosciuta”,
insomma prestano occhi per vedere il mondo. O come quel suo brano narrativo in
cui, mimando La Nausea di Sartre, si stupisce, alla fine di una
canzone che esce dal juke box, che “i miei piedi sono ancora lì”. O come in
molte pagine di Max Frisch (un altro grande amore comune), e quell’intervista
che gli fece Enrico Filippini (stranamente assente dalle raccolte edite dei
suoi articoli), sul senso dello scrivere come mezzo di fare esperienze, “fosse
anche quello di sapere che cosa si prova ad avere freddo ai piedi”. La
letteratura non ha valore, secondo Giorgio, non solo se non riflette
l’esperienza, ma se non si fa essa stessa esperienza. Alla
cui radice, penso oggi, c’è forse quel veritatem facere con cui
si è tramandato lo spirito di Giovanni nel Vangelo, rilanciato dal
fondatore dell’autobiografia Agostino, da Dante, da Petrarca su cui Giorgio ha
scritto, e rilanciato dalla prosa stoica nel Cinque-Seicento (Montaigne
compreso: che, proprio come Giorgio, “non insegnava, ma raccontava”); e, nella
nostra epoca, oltre al sempre presente, per Giorgio, Walter Benjamin, è
incarnato dalla letteratura detta civile di Max Frisch. Incarnare è la parola
giusta: “Evita
di pensare col linguaggio”, ha annotato ancora Giorgio parafrasando Handke in
suo testo (Il foglio bianco, gli spazi bianchi), “rimani nelle cose e
nel loro splendore. Così diventa [il verbo è all’imperativo] il
linguaggio reale, così il linguaggio diventa reale”.
Accanto a questo, in Giorgio si è imposta molto presto una
libertà irriducibile, anarchica senza mai essere screanzata, di tendenza senza
essere sprezzante né irriverente verso l’altrui credere, ma nemmeno mai
compromissoria, mai ambiziosa, etica in modo naturale fino al midollo, ma senza
nessun dover essere; a volte perfino parodistica, se è vero che, quando
montammo insieme le prose del nostro primo libro dal programmatico titolo (L’ultimo
buco nell’acqua) per noi era assolutamente scontato che non saremmo mai
andati a pietire un editore, e preferimmo, come nella sintassi narrativa di
Robert Walser, la via più lunga e tortuosa, ossia prolungare la comunità del
nostro libro plurale inventando con altri amici una casa editrice, Aelia
Laelia, una “etichetta” editoriale, dicevamo, una “piccola etica”.
Ma la seconda volta che ci siamo visti all’università, quel
mattino alle 9, inverno 78/79, la lezione annunciata la fece proprio Giorgio,
una relazione su Walter Benjamin e Franz Kafka. L’ho riletta. E’ molto bella.
Persuaso che mai come nella nostra epoca si fosse compiuta “la trasmigrazione
della filosofia nella letteratura e parallelamente della letteratura
nell’esperienza filosofica”, in Benjamin - continuava Giorgio - “la costruzione
metaforica, il procedere per immagini, non è qualità specifica dello scrittore,
ma sostanza stessa del pensiero che si manifesta”. Ancora: “La produzione
d’immagini non vuole risolversi in lui nel calco poetico del reale o
nell’edificazione possibile di un altro reale, come avviene nella maggior parte
dei luoghi strettamente letterari, ma diventa procedimento teso a cogliere
l’essenza stessa del reale, la qualità particolare dell’esperienza”. Penso che
questo brano descriva con precoce lucidità quello che ha fatto in ogni sua
opera Giorgio, lo scrittore Giorgio Messori.
Questa lucidità che scambiavamo (nel senso proprio di barattare)
così spesso e volentieri per una serata allegra, per uno stordimento tra amici;
quell’intelligenza che davamo allora per scontata, non hanno mai escluso né impedito
una distanza irriducibile, per Giorgio più ancora che per me, dall’istituzione
accademica, da quella che chiamavamo, citando Kafka, “la schiera degli
uccisori”: “Strana, misteriosa, forse redentrice consolazione dello scrivere:
uscire dalle fila degli uccisori, osservare i fatti”. I lavori di descrizione
della via Emilia prima, grazie a Luigi Ghirri e Gianni Celati, poi altri
analoghi, furono per noi una vera salvezza, oltre che i primi soldi guadagnati
con la penna. Giustificarono questa passione minoritaria, indipendente,
dell’“osservare i fatti”. Giorgio ne fece un mestiere magistrale. Ed è sempre
questa sua idea dello scrivere come “uscire dalle fila degli uccisori” a
rendere arduo, per un critico onesto, ogni parlare di lui.
Ho naturalmente pensato a Giorgio, e a queste giornate dedicate
a lui gremite di specialisti, quando alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un
sito Internet nell’intervento di uno scrittore che stimo sull’etica e la
scrittura, criticato dai commenti on line con terminologie di critica
letteraria in cui spiccava, oltre all’accusa di dannunzianesimo, quella di
“vitalismo”. Finché qualcuno, un anonimo, ha scritto: “Se davvero la vita fosse
una cosa e la letteratura tutta un’altra cosa, non me ne fregherebbe proprio
nulla. Della letteratura, intendo”. E io mi sono sentito assolutamente,
intimamente d’accordo con lui. E so che Giorgio sarebbe stato intimamente,
assolutamente d’accordo con lui. Del resto, come ha suggerito un altro lettore, tutto quello che la critica
letteraria dice sui testi non lo direbbe mai la critica musicale sulla musica.
Come si potrebbe rimproverare a Bob Dylan, ai Rolling Stones o ai Velvet
Underground di essere vitalistici? Sto sempre parlando di Giorgio, per il quale
la musica era molto importante.
La sua distanza dalle aule dell’Università (a parte il
meraviglioso stralunato mondo del melting pot sovietico della “Università delle
Lingue e della Diplomazia” di Tashkent, dove insegnava Italiano e dove mi
invitò anni fa a fare dei seminari), è simile al disagio che provava verso la
critica letteraria, a sua volta frutto della consapevolezza, pur nel piacere irrinunciabile
del leggere e scrivere, dell’irrilevanza dell’essere scrittori e del fare
letteratura. Irrilevanza non significa sminuire l’importanza che accordava allo
scrivere come esperienza privilegiata dello stare nel mondo, di vivere e di
sopra-vivere, e di vivere meglio.
C’era (c’è) indubbiamente, e rivendicata (lo ribadisco), una
vocazione minoritaria in questa esperienza della letteratura, e anche questo si
accorda a Kafka (il Kafka della letteratura minore riletto da Deleuze), e agli
altri autori che amava. Una politica minoritaria. Una protesta ironica e
sommessa, una libertà e una gioia senza scopo, come quella dell’autore di Mes
amis, Emmanuel Bove, che scoprimmo insieme, che tradussi poi in italiano
mentre il suo amato Handke traduceva in tedesco (mentre Giorgio tradusse il
boviano viaggio di Peter Handke tra i grattacieli della Défense a Parigi). La
scrittura di Giorgio è volutamente, naturalmente delicata (non “garbata”, come
è stato detto), capace di versare tonnellate di senso con una o due parole,
come gli disse Tondelli nel periodo in cui Tondelli aveva fortuna facendo
proprio il contrario (quando in generale si pubblicavano tonnellate di parole,
a volte quasi delatorie, per una manciata di senso). Anche la sua fragilità era
rivendicata, forse all’insegna di quel verso stupendo di Vladimìr Holan che mi
passò Nicolas Bouvier (autore pure molto amato da Giorgio): “Ciò che non trema,
ciò che non vacilla, non è solido”. Solo ciò che è fragile è davvero solido.
Sulla fragilità ha scritto Giorgio, molti anni fa:
“C’è un racconto di Thomas Bernhard che amo molto. Parla di un
carcerato che si alza di notte per scrivere dei racconti, delle storie. ‘Lo
scrivere’, scrive Bernhard, lui lo chiamava ‘il mio passatempo’, e gli veniva
come agli altri vengono i sogni, e come i sogni era fragile”. Leggo queste
frasi dal testo di Giorgio sul pieghevole per la presentazione de L’ultimo
buco nell’acqua a Roma, Teatro dell’Orologio, 1983. Così continua: “Chiunque scriva sa perfettamente quanto
questo stesso fatto, cioè l’estrema insicurezza, la fragilità di cui parla
Bernhard, oppure pensare di non essere scrittori, il terrore di fallire
qualcosa che sembra essenziale per la propria stessa vita, sia forse il motivo
principale per cui uno scrive”.
Il testo di Giorgio finisce con un apologo su una ragazza che in
treno, davanti a lui, con gesto aggraziato si sfila il golfino che teneva sulla
maglietta bianca. Lui la osserva, e pensa che esiste una parola per dire quella
maglietta che si indossa sulla pelle, e forse anche il gesto di lei,
l’atmosfera stessa che si è creata nello scompartimento, ma non la trova, pur
cercandola per tutto il viaggio, pur sapendo che a partire da quella parola
avrebbe voluto scrivere un racconto. Poi però pensa – e questo pensiero è una
delle fulminazioni pacate di Giorgio, che non sfuggì a Luciano Anceschi (che ci
propose proprio a partire dalla frase che ora dirò di tenere un corso sulla
scrittura narrativa all’Università di Bologna, corso che naturalmente non
tenemmo mai), “poi pensai - scrive Giorgio – “che potevo scrivere
(probabilmente questa è una delle ragioni del mio andare verso la prosa,) anche
se non trovavo, o mancava una parola”.
Scrivere perché non abbiamo, non troviamo la parola giusta.
Scrivere perché le parole ci mancano, scrivere perché non riusciamo a dire, e
forse non riusciamo nemmeno ad amare, a desiderare, a chiedere, a prendere, e
ancora a dire. Scrivere perché siamo inadeguati, scrivere perché siamo perduti,
scrivere perché manchiamo. Questo Giorgio aveva imparato prestissimo a
insegnare. Nel periodo in cui un altro scrittore, Raymond Carver, che come
Cechov amavamo al punto di provare dei brividi alle sue pagine e alle sue
frasi, nel periodo in cui la sua fama (di Carver) si era così estesa che si
richiamavano a lui tirandolo per la giacca autori che vistosamente non avevano
nulla a che fare con la sua umile sobrietà, intraprendenti autori che aprivano
scuole di scrittura e giovani holding, Giorgio mi raccontò questo episodio di
quando Carver insegnava scrittura creativa. A un allievo che gli chiedeva
consigli su come finire un racconto, Carver così rispose: in qualunque modo
vada a finire la storia, ricordati sempre di non far mancare il latte ai
bambini, la mattina.
Niente e nessuno mi toglierà dalla testa che questa frase,
questo tono, questa semplice enunciazione etica, siano il tono, la voce, la
verità intima e umana di Giorgio, dello scrittore Giorgio Messori.
(tutte le fotografie sono degli anni '80)
1 commento:
.....CHE BRIVIDI. GRAZIE DI QUESTA TESTIMONIANZA. EMANUELE
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