11/30/2011

Altre panchine... (da "Il Fotografo)


Grazie a Laura Marcolini, per il numero di novembre della rivista Il Fotografo, che pubblica fotografie (piuttosto belle) di panchine mandate dai lettori, ho scritto questo breve testo che appare come introduzione alle pagine (e alle foto):

   Se sedersi su una panchina fa diventare oggi invisibili (per via del tabù sociale e dello sguardo verso chi esibisce la propria libertà, il proprio “ozio” o la propria povertà), chi fotografa le panchine è doppiamente da festeggiare: rende visibile l’invisibile. Mostra quello che resta, ovvero che resiste, alla dissoluzione di spazio e tempo gratuiti: come suggeriscono le panchine fotografate da Pasquale Aiello e Wanda D’Onofrio. E cosa c’è di più attraente di una panchina vuota e ben situata che ci attende (come quelle di Fabbri, Geroli, Morselli, Zanni)?

   Gavioli, Gresti, Petrucci, Spirito, Verdoliva: loro hanno visto panchine splendidamente abitate, come quelle semplici e gioiose di Michelangelo Viterbo. O il riposo degli ambulanti (Massimo Liverani) e degli sportivi della domenica (Meraviglia). Quanto alla panchina nella piazza di una città (Parigi?) fotografata da Uboldi, l’uomo di spalle che verosimilmente legge, il cane sotto di lui che si confonde con l’ombra, esprime la poesia dell’abitare che mi è più familiare (Parigi compresa): la panchina solitaria e anarchica, la panchina come stile di vita, quella dell’uomo della panchina di Simenon, invidiata da Maigret. Dove si siede chi non ha paura della solitudine, anzi (poiché la solitudine non è mai nei luoghi isolati, ma là dove vive la moltitudine) e contempla il mondo tra una lettura e l’altra.

   A rigore, per sedersi su una panchina non è necessario ci sia una panchina: è il sedersi, uno stato dello spirito che coincide con un arrendersi, a fare la panchina. Può essere il gradino di una scalinata (quella metafisica di Angelo Nesci), un sedile tra cielo e riva del mare con incredibili colori (Antonio Feci), o addirittura dentro il mare, sulla poppa di una nave che contempla tempo e spazio trascorsi (Riccardo Vallini) O un sedile di pietra dura, che la fine del lavoro rende morbida come il tempo liberato (Claudio De Paoli).

   La panchina in bianco e nero di Giustiniani è struggente archetipo del sopravvivere, e insieme destino delle panchine nella nostra civiltà: a fianco di reti metalliche che impediscono e chiudono, minacciata e assediata, ma tenace come la Ginestra di Leopardi. Come la sagoma della panchina che resiste sui tetti accanto alle ciminiere (Paolo Urbani), o ravvivata dallo skate nei giardini urbani di pietra (Diego Giancaspro). O l’utopia (non trovo parola migliore) di quella panchina sull’erba che sembra muoversi, scorrere sotto di essa, di Canzanella, tra i cui listelli di legno si muovono le ombre di un film, il film della vita della gente che si siede sulle panchine.

11/26/2011

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

[Per una frastagliata serie di associazioni di idee, ritrovo questo intervento, miracolosamente trascritto e salvato (non da me), che feci alla tavola rotonda/seminario collettivo (ognuno doveva portare una domanda), a cura della la Fondazione Baruchello, dal titolo “Dall'arte dalla poesia venti domande per interrogare il mondo”, il 20 ottobre 2004 presso la Casa delle Letterature, nell’ambito di RomaPoesia. E, cosa singolare, lo trovo di attualità (personale), cioè adesso mi interessa, non so a voi (oltre al fatto che si tratta, credo, di una delle cose più intime che ho scritto).]

Due domande: “Chi è che viene così?” “Qual è la parola” (Comment dire, What is the Word)

   Sono venuto a mani vuote. Non ho portato una mia poesia sul mondo – la mia domanda – ma renderò omaggio a un assente – nella metafisica delle parole di rendere presenti gli assenti – leggendo una poesia di Samuel Beckett nella traduzione di Gabriele Frasca, che avrebbe dovuto essere qui oggi. E’ l’ultima poesia di Beckett – “Comment dire”, “What is the Word” – scritta in francese nell’autunno dell’88, e da lui tradotta in inglese nell’estate dell’89, poco prima di morire. E’ quindi la sua ultima opera. Vorrei dire, questo è il mio contributo, qualche parola preliminare per spiegare la mia profonda adesione a questa poesia, che nella traduzione di Gabriele Frasca si chiama “Qual è la parola”.
   Quello che mi fa aderire a questa poesia, e a Samuel Beckett in generale (ma anche all’Infinito di Leopardi, o a una poesia di Pascoli che si chiama Nebbia, dove si invoca la nebbia perché, dice il poeta, rende invisibili le cose lontane, e gli permette di dire “il” pero, “il” melo, “il” muro, cioè rendere più evidenti le cose vicine; così come Leopardi nell'Infinito dice questo colle, questa siepe, questo mare, quel pensiero, quella immensità, ecc.), quello che mi fa avvicinare così tanto a questo tipo di dizione poetica è l’uso dei deittici, o, come dicono i linguisti, “indicatori spazio-temporali”, shifters (Jakobson), o ancora “indicatori dell’enunciazione” (Benveniste). Parole che a torto consideriamo poco nella lingua, e che secondo alcuni sono non solo le più liriche, ma anche le più filosofiche. Si tratta di avverbi, pronomi e aggettivi dimostrativi, particelle pronominali, come “questo” appunto, o come “qui e ora”. Sono le demarcazioni dello stare al mondo nel proprio presente, nella propria vita, nella mortalità della vita di chi scrive ed è parlante. In effetti, nella filosofia occidentale, negli esiti diciamo più alti o profondi, più onesti, del pensiero, i filosofi si sono sempre affacciati sulla soglia o sul bordo dei deittici. Per esempio “l’essere-il-ci”, che traduce il Dasein di Heidegger, essere la particella ci, Esserci, essere il Da; o, ancora prima, il pronome dimostrativo diese (questo) con cui si apre la Fenomenologia dello spirito di Hegel, la sua epistemologia: “prendere il questo”, das Diese nehmen, afferrarlo (e afferrare l’adesso) la sintetizza. Essere, incarnare il ci, il questo, il là, l’essere là (fra l’altro, le immagini di Luca Patella proiettate qualche minuto fa ci hanno incantato per lo stesso motivo, e a un certo punto riportavano proprio questa frase, essere là). Tutto questo significa anche, ma si tratta di un pensiero troppo denso per svolgerlo qui, essere testimoni: testimoni di un fallimento supremo delle parole e delle immagini, della vita mortale e del linguaggio. Testimoniare l’infinito e l’incompiuto, il loro essere sinonimi.
  
   Ieri sera mi sono imbattuto in una frase di un artista visivo americano, Richard Foreman, che si augurava (traduco a memoria) “che i miei segni diventino il più possibile muti per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga” (what is happening to happen). Questa frase mi ha ricondotto a un’altra domanda – poiché le domande sono la cosa più importante e le risposte sono sempre ridondanti rispetto alle buone domande – una domanda, dicevo, di più di duemila anni fa, che il Sesto Patriarca della trasmissione del Buddhismo dall’India alla Cina pose a un allievo, il quale gli rispose otto anni dopo (e diventò il Settimo Patriarca): “Chi è che arriva così?”. Noi diciamo: che cosa av-viene così? In questa domanda, naturalmente, la parola più importante è “così”, e la seconda parola più importante è “che cosa”. Nel senso che è importante non il che cosa dell’identificazione, ma il fatto che qualcosa arrivi. Importante è il quod, non il quid dell’arrivare, dell’accadere. Dell’avvenire. E mi sembra che tutto questo possa articolare e portare le domande fondamentali dell’arte e della poesia. Siamo sempre nell’ambito del qui e ora, dei deittici.

   Tathagata vuol dire “colui che viene e che va”, il “così venuto” (o “così sorto”): è la definizione del Buddha in sanscrito. Nel passaggio in cinese e in giapponese si dirà: Nyorai. Al centro di tutta questa scuola di grammatica dell’ineffabile – o di saggezza, o di stare al mondo (cui non è esente la tradizione giudaico-cristiana: dal Dio interrogato da Mosè ai grammatici medievali) - basata sui deittici, cioè parole che indicano innanzitutto che il linguaggio ha luogo, che il linguaggio avviene - al centro dicevo di questo tramandarsi è la nozione che dovremmo tradurre, alla lettera, con “cosità” (immo, nel buddhismo zen di Dogen), l’essere-così-del-mondo, il vedere le cose così, telles quelles, tali e quali. Ciò che assomiglia a una nozione della retorica greca, enàrgeia (non enèrgeia), che in latino è tradotta con evidentia, l’evidenza delle cose (che è già un bel mistero, se non il mistero). Ovvero ammutolirsi per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga. Che è tutto il contrario della rappresentazione. Dire l’ammutolimento nelle proprie parole. Come nella poesia di Beckett che leggerò tra poco.

   Il “così venuto” è anche il “così andato” (è una delle definizioni del Buddha). Andare e venire, nel contesto che ho evocato, sono la stessa parola. Apparire e scomparire, senza lutto, senza nostalgia, cioè senza rappresentazione. Al limite, ri-presentazione. O meglio, pura manifestazione. Non volevo fare un monologo: ma come dire, comment dire, il tentativo di avvicinarsi al nocciolo della questione, nella coscienza della testamentarietà delle parole, della scrittura? Del mondo. Dire la scaturigine del linguaggio, dell’enunciazione, dell’enunciatore. Dello sguardo sul mondo, dell’esserci. Testimoniare. Dirne la follia e la smania:

Folie - / folie que de - que de - / comment dire - / folie que de ce - / depuis - / (…) comment dire - / ceci - / ce ceci - / ceci-ci - / tout ce ceci-ci - / (….)
...................................................................................................................................................................

smania – smania di - / di - / qual è la parole – smania da questo - / fin da questo - / smania fin da questo - / dato - / (…) qual è la parola - / questo - / questo questo - / questo qui - / tutto questo questo qui - / (…...................................................................................................................................................)

(seguiva lettura integrale, in francese inglese e italiano, nella traduzione di Gabriele Frasca, della poesia di Samuel Beckett, da S. Beckett, Le poesie, Einaudi 1999)

(intervento registrato il 20 ottobre 2004, Roma, Casa delle letterature)

11/25/2011

La vecchia storia de "l''immaginazione al potere" realizzata

   Sono usciti due librini, due “pamphlet paradossali”, come li saluta Antonio Gnoli in un articolo ad essi consacrato su Repubblica di ieri 24/11/11: uno del filosofo Mario Perniola (Berlusconi o il 68 realizzato, Mimesis) e l’altro del poeta Valerio Magrelli (Il Sessantotto realizzato da Mediaset, Einaudi). Sono entrambi due vecchi conoscenti e/o amici. Sostengono entrambi in questi libri come Berlusconi e il suo regime rappresentino la realizzazione dello spirito del Sessantotto, e soprattutto quella “immaginazione al potere” (incarnata dalla tv che sostituisce o comunque informa la realtà). Entrambi i libri sono salutati come portatori di una stessa idea nuova e provocatoria. Sono pubblicati oggi mentre Berlusconi e i suoi effetti, in qualche modo, sono finiti o hanno esaurito, dispiegandola e mostrandola interamente, la loro artificiosa magia.
   Di questa idea della trasformazione dell’immaginario e del progetto sessantottino in nuovo Potere pubblicitario (berlusconismo) scrivo da una decina d’anni esatti.

 La prima volta fu in un articolo su l’Unità del 29 aprile 2001 che riportava una mia conversazione con Jean Baudrillard (con cui ero in relazione da moltissimi anni). Cito il brano: “nel mondo delle immagini, dove tutto il reale deve divenire immagine, a prezzo della sua scomparsa, in cui il mondo stesso non è che un fantasma o una clonazione di sé, l’ascesa di Berlusconi, prima nelle televisioni e poi nel vuoto lasciato dalla politica, rappresenta forse proprio la tragica realizzazione di quello slogan del ’68 che pretendeva “l’immaginazione al potere”. E’ quando l’immaginazione va al potere, che l’immaginazione perde il suo potere.”
   La seconda volta fu in un’intervista a Bernardo Bertolucci (sempre su l’Unità, 2 ottobre 2001) intitolata “L’arte di aprire gli occhi”. A un certo punto dico:
   “Si diceva, una volta, «immaginazione al potere», slogan esistenziale e politico che riassume le utopie di molte generazioni. Il sospetto è che oggi, mutandone radicalmente i contenuti, e con l’uso strumentale della civiltà delle immagini televisive, l’immaginazione al potere l’abbiano realizzata Berlusconi e il suo regime mediatico-pubblicitario. «Direi piuttosto marketing al potere» – replica Bertolucci...”.
   Con l’amico regista ne riparlai in “Quelli che sognano”, pagina-intervista su Dreamers, sempre su l’Unità, 8 ottobre 2003. Gli riproposi la mia idea, e Bernardo Bertolucci parlò giustamente del “sogno” di Enrico Berlinguer (“I sognatori devono essere capaci di visionarietà, qualcosa che oggi ci manca molto. I grandi sognatori sono contagiosi”), aggiungendo dubbioso: “Quanto all’idea che “l’immaginazione al potere”, lo slogan del ’68, si sia realizzato in modo perverso con Berlusconi, non riesco ad accettare un’idea così tragica. Lui è la fine del sogno, la negazione del sogno. E non è neanche uno coi piedi per terra. Che cosa è?…».
   Qualche giorno prima (l’idea, evidentemente, mi ossessionava), in un colloquio con lo scrittore Chuck Palahniuk pubblicato su l’Unità il 30 settembre 2003, all’epoca dell’uscita in Italia del suo Lullaby (Ninna nanna), “storia di un incantesimo che si propaga come un virus, e i richiami al Grande Fratello nel libro abbondano” gli chiedo: “Non è che magari ‘l’immaginazione al potere’, il celebre slogan del ’68, si sia realizzato, sì, ma in un modo perverso? «Certo, Ninna nanna è un libro sul potere – dice Chuck Palahniuk -. Ma tutte le nostre vite sono storie di potere. Oggi chi è che ha potere? Colui che riesce ad attirare l’attenzione, chi riesce a farsi ascoltare e a raccontare la propria storia, e soprattutto chi riesce a convincere gli altri che la sua storia è quella giusta. In fondo è sempre stato così, da Gesù a Bush (o Berlusconi), chi riesce a convincere gli altri ha potere».

   Salto qualche anno. Su La Stampa del 16 settembre 2009, in una serie estiva sui libri simboli di alcune date del passato recente, parlando di Creature del buio di Stephen King, uscito nel 1989, e quindi del genere horror, scrivevo che “c’è un motivo più sottile, uno ‘spirito del tempo’ che mi fece forse inconsciamente cercare, nei romanzi detti horror, una chiave di lettura dello scollamento ideologico e non solo che si stava vivendo. Scollamento che di lì a poco avrebbe travolto l’assetto politico italiano e promosso l’anti-politica nella forma di un “regime” - sia detto in senso tecnico - mediatico-pubblicitario: l’immaginazione al potere (ma in senso opposto allo slogan del ’68)”.
   Molto recentemente, in un mio intervento nel dibattito politico-culturale sulla casa editrice Einaudi (l’Unità, 4 settembre 2010.), ho scritto tra l’altro: “Ecco la consapevolezza del tragico di cui ho sentito così fortemente la mancanza nel dibattito attuale, dove è assente e sradicato anche quel minimo di continuità di pensiero e di memoria che ci dovrebbe far sentire contemporanei ai Minima moralia di Adorno, a quella “triste scienza” (traurige wissenschaft) che è poi la coscienza morale, doloroso rovescio della “gaia scienza” di Nietzsche, oggi possibile solo nelle forme dell’orgia del potere berlusconiano, una immaginazione al potere e del potere che beffa il celebre slogan del ’68. Ben prima della società della pubblicità in cui saltellano e rimbalzano innocue le voci odierne, furono dette e scritte cose irreversibili sull’industria culturale, sui presupposti di un degrado della realtà cui Berlusconi, riconosciamolo, ha soltanto appesa il proprio cappello. [...] Lasciamo che sia Tremonti a citare Marx, la cui attualità è di un’evidenza abbacinante, perdiamo ogni consapevolezza e responsabilità intellettuale degli ultimi cinquant’anni...”.

   Vengo al quasioggi. In un articolo-intervista sul bel libro di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre (l’Unità del 17 aprile 2011) ho scritto tra l’altro: “Recalcati illumina quindi una singolare convergenza tra la l’insegnamento clinico di Lacan e la lungimirante critica alla barbarie consumista dell’eretico Pier Paolo Pasolini: l’immaginazione al potere dello slogan del ’68 si è ahimè realizzata, ma in senso opposto (e perverso) a quello auspicato.”
   Tralascio le rubriche tenute per dieci anni su l’Unità. Cito giusto quella (“acchiappafantasmi”) del 14 ottobre 2008, dal titolo “Contro il virtuale (e il neon)”. Salutava il bel lbro della poetessa Lidia Riviello, Neon 80), e iniziava così: Il personale è politico” è uno slogan degli anni Settanta. Meglio del sessantottino “l’immaginazione al potere” (che potrebbe ormai designare l’impero Mediaset e il suo padrone, che con l’intrattenimento e l’immaginazione ha instaurato un regime pubblicitario), era un modo di esprimere e praticare la fine di una frattura artificiosa: dove comincia la politica, dove finisce? Dove inizia la realtà? (...)". Nella stessa rubrica, il 10/6/2009, con un fotomontaggio de “Il Papino” (ovvero il profilo di Berlusconi al posto di quello di Marlon Brando ne Il Padrino), scrivevo su Berlusconi che “La nuova epica italiana è lui, così come ‘l’immaginazione al potere’..."

 P.S.  Oggi tutto questo mi sembra vecchio, doppiamente rivolto al passato. Non so quindi a cosa serva che lo abbia ricapitolato. A parte che ho riscoperto cose che non ricordavo di avere scritto (ho fatto un check nel computer, e saltava fuori una marea di robe). E' stato come un raptus ("tecnicamente, l'ego ha i suoi diritti", mi ha scritto un'amica, Lidia R.). Avevo scritto un'altra chiosa lunga ma l'ho cancellata.
   E' un fatto che hanno successo solo le idee che trovano e incontrano nel pubblico dei lettori (quindi nel mercato) un "riconoscimento", ovvero che si sono già sedimentate in senso comune e lo confermino. In questo senso, il mio è un lavoro alieno - giocare in anticipo e poi passare ad altro.
   Tuttavia rivolgo un invito, a me come agli altri che scrivono e che hanno, o credono di avere, delle idee (già il fatto di avere delle idee dovrebbe insegnarci, come prima cosa, che viviamo in una rete, un web di idee, e siamo tutti connessi, ben prima e ben altrimenti che con Internet), un invito, dicevo, a pensare e riconoscere sul nascere, meglio anche prima del nascere, quello che sta per avvenire ed è ancora informe, quello che arriva, e il fatto stesso che qualcosa arrivi... A questo serve scrivere e avere delle "idee".
   Ancora meglio: auspico di fare propria quella specie di preghiera dell'artista Richard Foreman, ovvero fare sì “che i miei segni diventino il più possibile muti per far sì che ciò che sta avvenendo avvenga” (what is happening to happen).

11/19/2011

L'ombra della salvezza (omaggio a Murakami Aruki)


In uscita domani (domenica 20 novembre) sulle pagine della cultura de l'Unità:

   Ci sono autori il cui nome resta “legato”, nel senso anche di un’eredità, alla scoperta di una nuova dimensione e di un nuovo sentire. E’ così, per esempio, che il mondo si è arricchito di situazioni kafkiane o pirandelliane, personaggi gogoliani e paesaggi urbani che ci sembrano quadri di Edward Hopper o fotografie di Luigi Ghirri. Murakami Haruki è uno scrittore che, come i più grandi, ci ha dato non solo degli occhi per vederlo, il mondo (soprattutto quello invisibile), ma ne ha ampliato la percezione. Contano naturalmente la musica e l’inconfondibile tono della sua prosa.


   Murakami si è fatto le ossa traducendo in giapponese, tra gli altri, i racconti di Raymond Carver, vale a dire assimilando la tradizione del racconto a partire da Cechov. A forza di acuire lo sguardo (magari chiudendo gli occhi per vedere meglio) è arrivato a offrirci percorsi narrativi e collegamenti inaspettati tra la realtà più ordinaria e quella più fantastica. I suoi romanzi e racconti collocano magie e visioni in una vita quotidiana dove l’incanto è immanente. Nelle sue pagine si può viaggiare attraverso i muri di un albergo, varcare porte senza porta oltre le quali incontrare una fanciulla muta e un uomo-pecora. Può accadere che un vecchio che parla coi gatti e un ragazzo scappato di casa viaggino parallelamente fino alla fine del mondo senza conoscersi, per poi darsi il cambio in una missione salvifica (Kafka on the beach). La vita più ordinaria e nuda ha sempre in Murakami la possibilità di una trasformazione, di un salto quantico. Basta lasciarsi andare, quel “lasciarsi andare” che descrive lo stile senza tempo del suo narrare, frasi che si susseguono con placida lentezza e dove tutto è possibile.

   Fin dal suo primo libro che lessi, L’uccello che gira le viti del mondo (un tomo anche più grosso di 1Q84), è stato come se una musica di fondo ne accompagnasse la lettura. Così come certe musiche contemporanee dette ripetitive (da John Cage a Terry Riley) ci insegnano in realtà la moltitudine di suoni in uno stesso suono, e che noi stessi mutiamo ascoltandoli; allo stesso modo, mentre la realtà si trasforma nelle storie di Murakami, anche chi legge registra in sé dei cambiamenti. Il tema di Murakami è sempre la possibilità della salvezza, qualcosa come una svolta del destino, un twist of fate. Ciò che accade, tra un’apocalisse e l’altra, anche in 1Q84.

   Con riferimento a Orwell (1Q84 si svolge nel 1984, e in giapponese 9 e Q hanno lo stesso suono) il romanzo alterna le vicende, fino al loro convergere, di due personaggi, o “iniziati”: una killer di “uomini che odiano le donne”, e un romanziere ghost writer che insegna matematica. Innamorati l’una dell’altro dall’infanzia, hanno perso le rispettive tracce senza mai dimenticarsi, e si trovano simultaneamente a un tornante decisivo del loro destino. Vedono entrambi un cielo con due lune, e percepiscono la presenza dei temibili “Little People” che governano il mondo - creature non si sa se buone o cattive, o semplicemente al di là dell’umano. Entrambi si misurano con un soprannaturale che ricorda l’Ombra descritta da Carl Gustav Jung.

   E’ un romanzo ricco come i mondi possibili di Philip K. Dick, elegante come un film di David Lynch, e sono tra coloro che un mese fa avrebbero voluto festeggiare il Nobel a Murakami. Tuttavia non credo, come sostengono la critica e la pubblicità degli editori, che IQ84 sia “il suo capolavoro”. A volte è sovrabbondante, con qualche digressione da romanzo ottocentesco di troppo. Non importa, la magia c’è tutta, e una volta iniziata la navigazione delle pagine non si ha più voglia di arrivare, ma solo di lasciarsi portare dalla corrente, tra salvezza e quotidiana routine.

11/13/2011

"Alex" - una breve recensione

   Così come l’ho letto, segnalo volentieri il romanzo “giallo” Alex di Pierre Lemaitre. Chi è? Dopo una carriera consacrata all’insegnamento della letteratura e della comunicazione, Pierre Lemaitre è oggi un romanziere francese di successo, oltre che sceneggiatore per cinema e tv. Ha scritto thriller e polizieschi assai violenti, e tra i suoi ascendenti letterari si fanno i nomi di James Ellroy e Bret Easton Ellis. Forse anche il nome del suo detective (che ricorre già in una trilogia, Alex compreso), ossia l’anomalo comandante di polizia Camille Verhœven (ma nei poliziotti dei romanzi l’anomalia è la norma) ammicca forse al regista olandese di Total Recall e de Il quarto uomo, Paul Verhoeven, noto per la crudezza estetica delle sue immagini e la violenza delle storie.
   Si potrebbe catalogare Alex come una variante del genere “uomini che odiano le donne” (cui per molti versi appartiene anche l’ultimo Murakami). Nel recensirlo mi allontano però dal vezzo così diffuso ma incomprensibile (tanto più quando si tratta di un giallo) del riassumerne pedantemente la trama - ciò che accade ormai non solo nelle recensioni, ma addirittura nelle copertine dei libri. Il romanzo di Pierre Lemaitre è bello proprio perché il suspense della storia nasconde il gioco disinvolto e sapiente con le strutture narrative. Agli antipodi della solita piatta sceneggiatura mascherata da romanzo, dietro il thriller avvincente l’autore ci srotola nelle tre parti di cui si compone il romanzo l’analisi di un evento e di un personaggio che non cessa di sorprendere, cambiando ogni volta elegantemente punto di vista. Affibbiando al lettore il difficile ruolo di testimone, insegna la differenza, ma anche l’intercambiabilità, tra vittima e carnefice. Magari i giallisti italiani imparassero un po’ di questa complessità.

(una versione ridotta di questa recensione appare su l'Unità di domenica 13 novembre 2011)

11/10/2011

La custode della luce si è spenta (l'addio a Paola Ghirri di Stefania Scateni su l'Unità)

[Un articolo che mi ha commosso da l'Unità di oggi, 10 novembre 2011, firmato da Stefania Scateni]:

   Se n’è andata l’altro ieri dopo una lunga malattia Paola Ghirri, l’altra metà di Luigi Ghirri, il fotografo della luce e dei paesaggi. L’altra metà in tutti i sensi: entrambi «incantati perenni», Paola e Luigi hanno collaborato sempre, da una parte la sapienza grafica e organizzativa di lei, dall’altra lo sguardo e la qualità artistica del lavoro di lui. Li univa un amore profondo, lo stesso senso dell’ironia, la passione per la musica di Bob Dylan, la capacità di fondere una natura di sognatori con il sapere stare coi piedi per terra. «Abbiamo vissuto e lavorato insieme dal ’75 alla sua morte (nel 1992, ndr), la nostra era una comune avventura del pensiero e dello sguardo. In 18 anni siamo stati separati fisicamente solo 43 giorni...», ci aveva confessato due anni fa in un’intervista al termine dell’allestimento della mostra dedicata all’ultima foto scattata da Luigi Ghirri.

   Da vedova Paola si era occupata totalmente al lavoro del marito. Le aveva lasciato una cascata di luce, lampi catturati dal suo sguardo naturale e allineato col resto del mondo: 190mila originali diapositive e negativi archiviati nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, moltissimo altro materiale ancora da «sfogliare». La sua maggiore preoccupazione era rispettare l’«ordine-disordine» che Luigi aveva lasciato. «Non bisogna ordinare né etichettare troppo - ci disse -. Il suo disordine ha una forza intrinseca, sai che prima o poi spunterà una foto che metterà in discussione la catalogazione fatta fino a quel momento. L’archivio non vuole che sia messo in ordine, Luigi non vuole».
   Con l’aiuto degli amici ha realizzato molti progetti - libri e mostre, fino all’approdo a New York. E con l’aiuto degli amici stava progettando, nelle sue ultime settimane di vita, una Fondazione dedicata soprattutto ai giovani studiosi e una serie di eventi per i vent’anni dalla morte del marito. Già malata aveva visto bruciare il tetto dell’amata casa di Roncocesi, scelta con Luigi e dove viveva ancora.

11/09/2011

per Paola, scritto di getto...

Una grande amica se ne è andata poco fa. Faceva deliziosi trompe l'oeil, ed è stata per anni la preziosa compagna, collaboratrice e moglie di un artista, maestro del vedere e dell'abitare, ma che non poteva separarsi da lei per più di 24 ore. non ho nessun dubbio che il suo sorriso ora sarà puro e vero e libero dalla sofferenza che ha provato negli ultimi mesi di malattia, e che riprenderà il suo gioco, la sua arte del trompe l'oeil, veramente in grande, divertendosi non uno ma mille mondi. la ringrazio per tutto quello che (mi) ha dato, ed è tanto, e che ha condiviso. per le risate. per il suo buonumore e la sua voglia di giocare, di cantare, di progettare e ancora di ridere e sognare. la ringrazio anche, con un sorriso di commozione e nostalgia, per il caffé che tanti anni fa mi ha portato a letto, in un piccolo vassoio, con sigaretta e fiammifero, al risveglio dalla mia prima notte di ospite in casa loro, di Luigi e Paola Borgonzoni Ghirri.
(In questa foto che ritrovo, l'unica che ho in versione digitale, siamo a Polignano a mare nell'estate 1987. Paola è la seconda a sinistra, Luigi l'ultimo a destra, chinato, davanti a Giorgio Messori. Io sono accucciato dietro. La foto l'ha scattata Claude Nori).

   Qui c'è un link a un'intervista a Paola di due anni e mezzo fa (la foto di cui si parla è visibile nella home page del mio sito, in basso). C:i saranno tante cose da fare per lei, e per Luigi. C'è solo da rimboccarsi le maniche.
http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/295000/291616.xml?key=STEFANIA+SCATENI&first=21&orderby=1&f=fir

11/02/2011

Giorno dei morti

...
Dei morti e degli scomparsi - perché è la stessa cosa. Anche la puttana russa di Viareggio che vent’anni fa nuotava nel mare e che non rivedrò mai più.
La visione di lei che volteggia come una bambina tra le onde, io la guardo dalla spiaggia. Quel suo brutto costume verde, il top dal colore sbagliato, e lei così felice, bellissima, come se fosse la prima volta che vedeva il mare. Lei che danza, salta sulle onde. Si gira ridendo a guardarmi. Si chiede, mi chiede, perché non mi butto anch’io con lei. Torna sulla spiaggia, vuole prendermi e portarmi con sé, mi prende il braccio e quasi mi ferisce con le sue unghie lunghe. Mi dà fastidio, la allontano. Il suo corpo bagnato. Trovo, lì per lì, motivi per rifiutarla, sapendo che ho solo paura, ho solo disagio. Torna a danzare nell’acqua, salta sulle onde, poi continua a volteggiare, volteggiare, ed è così che io sparirò, che lei sparirà.

[Ho trovato, in un recesso del mio computer, un vecchio file che si chiama "I morti". C'è scritto solo questo: "Vorrei fare l’elenco dei miei morti, di tutti i morti e scomparsi che mi vengono in mente, in loro gloria, in loro memoria, ognuno con una piccola narrazione". Poi è aggiunta, con altro carattere (copia-incolla, di sicuro) questa citazione demenziale ma vera: "Le persone se son morti prima o poi c'è un elenco dove son su" (Bruno Vespa, 9 aprile 2009, sul terremoto in Abruzzo). Sarà per questo che non l'ho ancora scritto?]

Vertigini (popoli, governi e crisi finanziaria)

"Nel modo peggiore, nel peggior contesto e con le peggiori conseguenze possibili per tutti noi, Papandreu solleva l'unica vera questione. Totalmente tabù e finora perfino rimossa. Impossibile da formulare tanto è vertiginosa e terrificante per chi ci governa. E' questa semplice domanda: che cosa pensano i popoli della brutale cura di austerità che sta per abbattersi su di essi? Grazie ai Greci, all'avanguardia della disperazione, di porla e di rispondere per primi"...

il seguito è qui:
http://www.liberation.fr/economie/01012369117-vertigineux